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Moro e Berlinguer, esempi da seguire PDF Stampa E-mail
Scritto da administrator   
venerdì, 19 settembre 2014 08:25

ImageFra poco in Calabria ci saranno le elezioni per il consiglio regionale, i partiti di destra e di sinistra stanno affilando le armi per uno scontro che se non sarà epico, lascerà comunque parecchie vittime per strada. Altra battaglia, più piccola ma non per questo meno efferata, è quella che si sta profilando per la provincia con una nuova legge che doveva eliminare l’istituzione, ma che invece, nella sostanza, elimina completamente l’elettorato dalla scelta degli amministratori. Anche a livello nazionale non è che le cose marcino benissimo, il “Ducetto” Renzi va avanti tra frizzi e lazzi e a chi come me ha vissuto ben altre stagioni della politica italiana vengono in mente gli insegnamenti di due grandi che a poco a poco stanno cadendo nell’oblio: Moro e Berlinguer. Le loro idee  devono necessariamente essere rispolverate e alla loro dirittura etica e morale ci si deve ispirare se si vuole ancora avere una speranza per questa Italia allo sbando. Mi permetto di sottoporre alla vostra attenzione una riflessione su questi due giganti della politica italiana del secolo scorso, per meditare sul passato e agire per il meglio nel presente.

 

«La spazzatura non c’è solo in diverse strade del mondo. C’è spazzatura anche nelle nostre coscienze e nelle nostre anime». Questo il severo monito che nel 2010, in occasione di un’udienza generale, l’allora Pontefice Benedetto XVI pronunciò per evidenziare, da una parte, come in molti ambiti (non ultimo quello politico) i comportamenti quotidiani destrutturino ogni istanza pedagogica. Dall’altra, il Santo Padre intendeva prendere atto - con evidente, vivo sconforto - del venir  meno di sentimenti e valori condivisi e, per contro, della crescita del degrado sociale e della disaffezione nei riguardi delle Istituzioni. Anche se l’urgenza di fronteggiare una tale situazione è diffusamente avvertita, essa appare ostacolata dall’idea che quello di una vita buona sia un ideale irrealizzabile. Eppure, la capacità di costruire un racconto condiviso, di dare un senso allo stare insieme, di illuminare gli obiettivi da raggiungere proponendo esempi e modelli, è una necessità vitale, che impone a chiunque ricopra ruoli pubblici di sentirsi gravato, oltre che di un  legittimo potere, di stringenti doveri.

 

Moro e Berlinguer: i perché di una riflessione

Di ciò sono stati testimoni splendide figure di laici: tra i molti, Aldo Moro ed Enrico Berlinguer, interpreti delle ragioni di un’azione coraggiosa nella società, attraverso la promozione dei valori di solidarietà, dialogo e accoglienza. La loro eredità morale ci rammenta che soltanto da una rinnovata classe dirigente potrà nascere il civis, depositario e custode di ogni diritto e di ogni dovere verso la polis. Non si tratta di rievocare in modo sterilmente nostalgico il “tempo che fu”, ma trarre dal racconto delle vicende terrene dei due uomini politici qualche utile indicazione per la società, la politica dei nostri giorni, per noi. Questo perché tutti desideriamo vivere in un Paese ben governato e con un’effettiva partecipazione della base alla vita della polis.

Certamente l’Italia di oggi è diversa da quella di Moro e Berlinguer. Negli ultimi trent’anni si è costruita una società sull’egoismo individuale, ove il valore della solidarietà è stato messo in crisi, la realtà è diventata una fiction, non si vogliono neppure ascoltare discorsi seri e complessi: meglio uno slogan e di pochi caratteri. Invece lo Stato, letto in principi di diritto costituzionale, necessita di reciproca indipendenza dei tre poteri che lo costituiscono: legislativo, giuridico ed esecutivo, senza illegali ed improvvidi  sconfinamenti. E ciò vale anche  in una sana economia industriale ove le tre componenti (imprenditore, capitale economico e capitale umano) debbono convergere verso un solo obiettivo: il benessere. La somma dei benessere degli ambiti privato e pubblico producono quello che gli esperti chiamano Welfare. Perché dico questo? Perché da qualche decennio la ricchezza proviene sempre meno dalla triade classica sopra ricordata, e le spericolate e spesso illegali scorribande di operatori del gioco di borsa, non solo non  producono  ricchezza per il paese, ma immettono sul mercato prodotti finanziari venefici, che uccidono l’economia di strutture pubbliche come di privati investitori.

Già Pier Paolo Pasolini, con innegabile lungimiranza e capacità di cruda ma realistica analisi, sosteneva più di quaranta anni fa che la società nata dalla seconda rivoluzione industriale non vuole più che l’uomo sia un buon cittadino, un buon soldato; non vuole che sia un uomo onesto, previdente, non lo vuole tradizionalista e nemmeno religioso. Il nuovo Potere vuole che esso sia un consumatore. Rebus sic stantibus, quid faciendum? Bisogna  tornare ai  canoni dell’etica, della politica e dell’economia, dell’onestà, dell’intransigenza, del rispetto dell’uomo e  delle Istituzioni.

 

ImageAldo Moro: la figura

«L’uomo mortale non ha che questo, di immortale: il ricordo che porta e il ricordo che lascia». Aldo Moro vive nel tempo e nello spazio dell’eternità, cui sembrano consegnarlo le parole dello scrittore Cesare Pavese. Trentasei anni sono passati da quel giorno in cui via Fani si tinse di sangue e di morte: andava in Parlamento per la presentazione del governo di solidarietà nazionale, al quale aveva lavorato nel tentativo di ricucire profeticamente la divisione tra le due principali aree politiche e culturali del Paese: quella comunista e quella cattolica. Non ci arrivò mai: quel giorno la sua scorta perse la vita, falciata dal piombo delle Brigate Rosse. Lui finì nella casa prigione di via Caetani, da dove uscì solo cadavere il 9 maggio del 1978.

E’ morto Moro, non il suo insegnamento, che anzi guadagna attualità e valore in questo momento particolarmente delicato della vicenda storica della democrazia italiana. Contro le odierne semplificazioni e contro la fittizia e sterile contesa tra i laicisti assoluti e i clericali per forza, l’esperienza morotea dovrebbe essere, se non fonte di ispirazione, perlomeno spunto di riflessione: la volontà di non avere idoli, di non creare atteggiamenti idolatrici, né verso la politica, né verso lo Stato, né verso il potere. Certamente è un portato della tradizione degasperiana, ma anche un dato che affiora nella lezione di Maritain, espressa nelle scelte operative. Ad esempio, il famoso discorso di Napoli del 1962, nel quale si soffermava sul rapporto tra fede e politica, che non è un rapporto d’indifferenza, perché l’autonomia non implica l’indifferenza della politica rispetto alla fede, bensì anelito alla edificazione della città terrena senza mai rinunciare ai propri valori. Infatti, affermava: «ferma la fede di ciascuno nel proprio originale contributo per la salvezza dell’uomo e del mondo, tutti abbiano il proprio libero respiro, tutti il proprio spazio intangibile nel quale vivere la propria esperienza di rinnovamento e di verità, tutti collegati l’uno all’altro nella comune accettazione di essenziali ragioni di libertà, di rispetto e di dialogo».

Ciò andava sostenendo nell’Italia dell’intrigo, dell’affarismo, del malaffare, delle tangenti: tutte sirene che avrebbero affascinato e conquistato per sempre tanti politici, a cominciare dal suo partito, terreno di coltura di uno sfacelo contro il quale il terrorismo, nero e rosso, avrebbero trovato la giustificazione, anzi l’obbligo morale di intervenire per arrestare le vergogne del regime. Ecco perché Moro continuava ad invocare moralità e sul piano politico a cercare di gettare un ponte verso l’altra grande forza popolare con la quale i cattolici avevano vissuto gomito a gomito durante la Resistenza e nella stagione esaltante della ricostruzione. «L’Umanesimo cristiano – scriveva - non è terrenismo negante l’eterno, ma non è neppure escatologismo obliante il tempo, l’impegno e il valore terrestre. Il cristiano ha il senso dell’eterno e in funzione di esso orienta il tempo e la vita presente. L’attesa e l’invocazione celeste non può far obliare la vocazione e l’impegno anche temporale e terrestre: Cristo si incarna per vivificare, illuminare e salvare anche il tempo». Aggiungeva: «Il cristiano mentre coltiva i valori e la grandezza dello spirito (verità, moralità, santità, eticità, vita divina), non dimentica una sana valutazione anche dei beni materiali, economici e temporali, che mentre possono costituire anche una resistenza, un peso, un rischio, non sono in sé cattivi; sono invece positivi valori pensati, voluti, donati, provvisti ed accuditi da Dio, da Cristo e dalla Chiesa»[1].

Fu un uomo libero, anticonformista anche se straordinariamente all’antica nei costumi. Fu singolarmente moderno nell’apertura verso qualunque manifestazione di novità nel campo delle idee. Nel 1976 diceva: “Questo Paese non si salverà se non nascerà in Italia un nuovo senso del dovere”. Era l’uomo cui si riferiva don Primo Mazzolari: “L’uomo da salvare non è quello fabbricato dalle ideologie, ma quello creato da Dio”. In questa riflessione leggiamo i due mondi che lo affascinavano ed ai quali dava tutto se stesso: l’insegnamento universitario (con il contatto con i giovani, ovviamente non tutti “sessantottini”, le loro istanze, le proiezioni nel futuro) e la politica, di cui anche i giovani e la scuola facevano parte. Sottolinea Marco Follini, all’epoca suo giovanissimo collaboratore: «Era un conservatore intelligente, che dialogava con i progressisti. Trovandosi così a combattere su due fronti. Con i progressisti, che non lo sentivano come uno dei loro. E con i conservatori meno intelligenti, che non gli perdonavano quello sforzo di comprensione non sempre alla loro portata». E proprio questo, probabilmente, gli costò la vita. L’Italia, purtroppo, fu privata d’un uomo che, anticipando i tempi, cercava di contrastare con la profondità e la complessità di pensiero la fretta e l’approssimazione che avrebbero presto preso a contraddistinguere sempre più la società, non sempre pronta, oggi ad ascoltare anche le cose fondamentali.

 

ImageRitratto di Enrico Berlinguer

Enrico Berlinguer, invece, è morto l’11 giugno del 1984, quasi trent’anni fa. Non è ancora storia, non è più cronaca, eppure molte delle vicende di cui egli è stato protagonista sono ancora aperte. Alcune tra le sue intuizioni ne dimostrano la capacità di cogliere alla radice i problemi drammatici del nostro tempo.

Era nato a Sassari (come Francesco Cossiga, di cui era anche cugino di 2° grado) nel 192. Studi regolari (liceo classico e facoltà di Giurisprudenza), giovanissimo si iscrisse al partito comunista (clandestino) “per antifascismo”. Ma a Sassari moltissimi lo erano, perfino il parroco, perfino il Vescovo, mons. Mazzotti, che il 10 giugno 1940, giorno della dichiarazione di guerra, si rifiutò di scendere al palazzo del podestà ad ascoltare il duce. I Berlinguer appartenevano alla crema della società sassarese. Enrico ebbe educazione repubblicana e religiosa. Segretario della FGCI[3], rivolto alle giovani presenti alla conferenza nazionale che si svolgeva a Roma (1947) disse che esse dovevano prendere a modello di etica Irma Bandiera, giovane partigiana abusata, picchiata e poi trucidata dai fascisti, perché non aveva rivelato i nomi dei compagni, e Maria Goretti, fanciulla martire della purezza. Ebbe delle critiche, ma non se ne curò: per lui era fondamentale anteporre ad ogni cosa l’etica, cioè la necessità di credere ed essere coerente nei comportamenti ad un codice di valori che, davvero, non sono “negoziabili”, come con discutibile locuzione si sente dire spesso. Assieme ad Aldo Moro fu il teorico del compromesso storico; dialogò col vescovo Luigi Bettazzi per una società aperta ai valori cristiani; parlò dell'austerità ponendola al centro della rinascita della nazione attraverso il cambiamento delle regole dei consumi e degli stili di vita, con un occhio al rispetto dell’ambiente e dei territori. Si rese conto, prima dello sgretolamento dell’impero sovietico, di come ormai il cuore del conflitto non fosse più fra Paesi capitalisti e Paesi socialisti, ma fra il Nord e il Sud del mondo, fra un Occidente sempre più ricco ed arroccato a difesa dei suoi privilegi e le masse povere del Terzo e del Quarto mondo. In questa visione coltivò l’idea di un’Europa laboratorio d’un nuovo modello di società, da contrapporre sia al fallimento del comunismo reale, sia al neoliberismo, causa di ingiustizie profonde. E poi, la questione morale in una politica sempre meno attenta alla sobrietà ed alla coerenza, sempre più portata alla fumosità ed all’individualismo: sarebbe sbagliato intenderla come qualcosa da rinchiudere nella coscienza dei singoli.

Nell’ottica berlingueriana era assente la dimensione moralistica, non quella etica. «La questione morale – osservava - esiste da tempo, ma ormai essa è diventata la questione politica prima ed essenziale perché dalla sua soluzione dipende la ripresa di fiducia nelle istituzioni, la effettiva governabilità del paese e la tenuta del regime democratico». V’era, in queste sue parole, la constatazione sociologica di un fatto che, pure a distanza di un trentennio, è sotto gli occhi di tutti data la rilevanza sociale, con il riferimento ad organismi trasformati in strumenti per la mera gestione di interessi privi di ideali e valori.

Quello di Berlinguer, grosso modo, è il disegno politico di Aldo Moro: incontrarsi sul piano etico partendo da valori alti e condivisi. Proprio qui sta il punto di contatto tra quella impostazione e l’essenza del cristianesimo, sempre guardato e trattato con rispetto dal segretario del Pci: alla desertificazione delle passioni e dei sentimenti che dovrebbero stare alla base dell’impegno civile i cattolici devono opporre la propria fede quale fonte inesauribile di ispirazione e, perciò, di motivazioni alte. Essa, infatti, costituisce un inesauribile carburante che può alimentare un impegno non di basso profilo e postuli la giusta ricompensa a un altrimenti troppo pesante fardello. La missione e la testimonianza, nel cui orizzonte si iscrivono i destini personali di gente eroicamente dedita al bene del prossimo e alla costruzione di una società più giusta, restano la cifra di un agire destinato a non  affievolirsi col tempo, perché non è nel tempo confinato, ma aspira a un di più, alla trascendenza.

 

Cosa resta del pensiero di Moro e Berlinguer

I Moro, i Berlinguer, erano statisti perché sognavano e volevano costruire un’Italia diversa, libera, giusta, democratica, popolata non da gente anonima ma da cittadini coscienti di dover partecipare alla vita comune senza farsi manovrare come marionette. Volevano una società dove anche gli imprenditori continuassero a svolgere il loro ruolo, classico, da manuale: quello di produrre – assieme ai manufatti - la ricchezza onesta, il benessere che viene dal lavoro, altro che giochi di borsa, equilibrismi di finanza, che generano solo il malessere della disoccupazione.

Penso che sia emerso anche un altro fattore, non trascurabile, che spinge le persone di buon senso a riflettere sulla storia attraversata dai due: le analogie con il presente. Non solo perché oggi l’Italia sembra tornata indietro di 50-60 anni (povertà, sbandamento, disoccupazione, poche certezze sul futuro, eccetera), ma anche perché certe caratteristiche peculiari degli “italiani brava gente” non solo sono rimaste, ma se possibile sono aggravate, ispessiste, incancrenite.

Gaglioffi, arruffapopoli, disfattisti ce n’erano allora e ce ne sono oggi. Non c’è il brigatismo rosso e nero, ma movimenti violenti non ne mancano. Gli oltraggi alle istituzioni, i reati di vilipendio ci sono oggi come allora. Non c’è la strategia della tensione, ma in compenso c’è la mostruosa estensione delle società malavitose. Nel 1980 le Brigate Rosse scrivevano che il Presidente della Repubblica era un “vecchio babbeo dalla vista annebbiata che ha solo un ruolo di parata e scambia i corridoi del Quirinale per i camminamenti delle trincee”[4], mentre i radicali di Pannella facevano chiasso e sbandieravano, in Parlamento e fuori, volantini sui quali avevano scritto che il Presidente era strumentalizzato dai partiti del compromesso storico. E siccome non ci facciamo mancare niente in questi anni davvero esaltanti (ci si perdoni l’ironia) non difettano quelli, seduti in Parlamento, che dicono del nostro Presidente cosa ben più vergognosa dell’aggettivo babbeo. Perciò un bagno di morale è quanto mai auspicabile e se proprio dobbiamo rassegnarci che uomini come Moro e Berlinguer non nascono ad ogni stagione, allora pretendiamo dagli attuali che si sforzino almeno di tenerne alta la memoria e quanto di buono hanno fatto per l’Italia.

Per capire cosa, dopo trent’anni e più, resti del pensiero e dell’azione politica di Moro e Berlinguer, basta guardare alle cronache dell’ultimo triennio: le larghe intese che stanno caratterizzando il sistema politico italiano ormai dall’autunno del 2011, prima con il Governo Monti, poi con quello a guida Letta e adesso con l’Esecutivo con Renzi premier, hanno riportato al centro della scena, seppur in tono minore e non senza qualche equivoco, il cosiddetto compromesso storico, ovvero la proposta lanciata da Berlinguer nell’autunno del 1973, con la quale veniva auspicato un nuovo incontro tra le forze popolari di ispirazione cattolico-democratica e quelle di estrazione cattolico-democratica, con l’obiettivo di superare la crisi politica della democrazia italiana e la crisi economica del Paese.

Questa formula, il cui carico simbolico è stato oltremodo enfatizzato da una vastissima pubblicistica di partito, ha generato, nel corso degli anni, un duplice fraintendimento. Da un lato, la teoria berlingueriana del “compromesso storico” è stata utilizzata, erroneamente, per descrivere anche la stagione successiva della “solidarietà nazionale”, ovvero quel breve periodo storico, tra il luglio 1976 e il marzo 1978, caratterizzato dal coinvolgimento del Pci all'interno della maggioranza di governo. Dall'altro lato, come conseguenza di questo equivoco, il “compromesso storico” ha finito per essere interpretato come una sorta di teorizzazione politica che auspicava, in un momento di particolare bisogno per il Paese, la collaborazione governativa tra i due maggiori partiti del sistema politico.

In estrema sintesi, il “compromesso storico” e il dialogo tra Berlinguer e Moro sono stati letti, agli inizi degli anni Novanta del secolo scorso, come il presupposto culturale della nascita dei governi dell’Ulivo, mentre più recentemente essi sono stati reinterpretati come il preludio simbolico-ideale dell'odierna stagione dei governi sostenuti da Pd e Pdl prima, e da Pd, Ncd e Scelta Civica ora. Una lettura, quest'ultima, che non tiene adeguatamente conto, però, del particolarissimo contesto storico in cui si sviluppò la proposta berlingueriana. Il “compromesso storico” auspicava, infatti, la nascita di un nuovo patto sociale tra le masse socialcomuniste e quelle cattoliche che, da un lato, riproponeva il ritorno alla grande alleanza dell'immediato dopoguerra – quando i governi di unità nazionale riproducevano, grossomodo, i rapporti di forza all'interno del Comitato di liberazione nazionale – e, dall'altro lato, rappresentava una forma di risposta al degrado morale del paese ormai percorso da un individualismo sfrenato e da un consumismo dissennato.

La proposta di Berlinguer si configurava, dunque, come una sorta di terza via al socialismo che, pur riproponendo, come in passato, una fuoriuscita dal sistema capitalistico attraverso un processo rivoluzionario, si sarebbe dovuto svolgere soltanto con le forme pacifiche del metodo democratico per costruire una società nuova – figlia dell’incontro tra il mondo comunista e quello cattolico - che si innestava sulla linea teorica del gramscismo e su quella tattica e strategica del togliattismo.

Alla teorizzazione berlingueriana si aggiunse e, anzi, si sovrappose l'elaborazione politica di Moro, il quale iniziò a parlare, sempre più insistentemente, di "una terza fase per la Democrazia cristiana" che avrebbe dovuto aprire nuovi scenari per l'intero sistema politico italiano. Nel 1978, alla morte di Moro, il giurista e politico democristiano Roberto Ruffilli – che sarebbe stato ucciso anch'egli dalle Brigate Rosse dieci anni più tardi, nel 1988 – sostenne che la “terza fase” morotea non era altro che l'esigenza di una “stabilizzazione della democrazia pluralistica” che avrebbe dovuto portare “ad una compiuta democrazia dell'alternanza”. Nulla a che vedere, quindi, con la “società nuova” auspicata da Berlinguer, né tantomeno con l'idea di “compromesso storico”, la cui eccezionalità storica era tale solo in virtù del contesto internazionale caratterizzato dall'ordine di Yalta, ovvero il duopolio Usa-Urss.

In definitiva, l'unico vero punto di contatto tra l'elaborazione di Moro e quella di Berlinguer fu la comune sensibilità verso il degrado morale in cui versava il Paese. Una comune sensibilità che metteva tuttavia in evidenza non solo un modo simile di percepire il Paese ma anche e, soprattutto, la stessa difficoltà a rappresentare la società italiana. Una società che si stava progressivamente secolarizzando e laicizzando da ogni forma di religiosità, foss'anche quella politica, e che nel decennio successivo si sarebbe sempre meno rispecchiata nelle due più importanti famiglie politiche della Repubblica. Era insomma un tempestivo tentativo di riuscire a governare una società in rapida, tumultuosa evoluzione, che avrebbe dato forma e sostanza al Paese di oggi, figlio di quell’epoca storica, politica e culturale,  dominato – in larga parte - dai populismi mediatici e dai partiti personali e costretto a tenersi stretto l'unico governo possibile secondo le regole parlamentari vigenti, nel mentre tenta disperatamente di accantonare il Porcellum con cui si vota dal 2005 e il bicameralismo perfetto previsto dalla carta costituzionale.

 

La lezione attuale di Moro e Berlinguer

Dalle vite, dall’azione politica, dall’esempio di Moro e Berlinguer rinviene, a noi che li guardiamo da lontano nello spazio e nel tempo, una sfida alla quale non ci si può sottrarre: se si vuole davvero cambiare qualcosa, bisogna cominciare a cambiare se stessi, se necessario andando anche contro se stessi fino in fondo affinchè, per dirla con Moro, «nessuno resti ai margini, nessuna persona resti esclusa dalla vitalità e dal valore della vita sociale. Nessuna zona d'ombra, niente che sia morto, niente che sia fuori dalla linfa vitale della società».

L’attualità di questo impegno, d’altra parte  è evidente. Oggi nella lotta politica sono caratteristici l’assenza di dibattito, la prevalenza degli obiettivi privati e personali di una gran parte del ceto politico e costumi nettamente oligarchici in cui è difficile individuare una concezione che si richiami a idee per il futuro che riguardino tutta la comunità, con speciale attenzione per le nuove generazioni.

Da questo punto di vista, credo che l'esperienza di Berlinguer e Moro, pur con gli errori e le contraddizioni che pure ci furono, rappresenti ancora una lezione, partendo da un binomio del tutto accantonato: il binomio etica-politica, che resta il solo strumento che genera davvero consenso nella maggioranza degli italiani e non costringe a governare soltanto con la forza, cosa peraltro impossibile e foriera di crisi continue; il binomio politica-cultura, che è, a mio avviso, il solo strumento in grado di consentire di costruire una visione del mondo diversa da visioni utopiche ed irrealizzabili come pure da un pragmatismo flessibile e disposto a tutto pur di ottenere il potere, foriero della degenerazione dei partiti e delle istituzioni. Problemi, mi sembra di poter dire, ancora irrisolti nel 2014 e rispetto ai quali, con lucida analisi, s’era già posto Berlinguer, lasciato solo finanche nel suo partito nel denunciare la questione morale, che sarebbe diventata a poco a poco il problema centrale della transizione italiana. Il PCI aveva allora quasi il trenta per cento dei consensi e, di fronte al terremoto che aveva colpito l’Irpinia, già il 25 novembre 1980 il suo segretario diceva: "Il dramma del terremoto che sopravviene sconvolgente in un momento di profondo turbamento per l'intreccio degli scandali e dei torbidi intrighi di potere, accresce all'estremo, nella coscienza dei cittadini l'esigenza di una svolta che garantisca onestà, correttezza e prestigio nella guida del paese".

La nostra società oggi è investita da due processi strutturali, in qualche modo alternativi tra loro. Il primo è la profonda crisi economica, sociale e politica che è causa di un abbassamento delle condizioni di vita della maggior parte della popolazione, determinando, nel contempo, un profondo senso di disorientamento, non solo nella popolazione, ma anche in tutti i soggetti predisposti a prendere delle decisioni. Ciò avviene per la mancanza di gestione democratica dei mercati finanziari, che si pongono al di sopra dei controlli dei governanti dell’Europa e del mondo, dando luogo a forme di riduzione della sovranità nazionale.

Il secondo, come direbbe Moro, è la grande trasformazione dei processi antropologici. Si pensi alla soggettività delle donne, all’emigrazione, al multiculturalismo, all’emergere delle tematiche ambientali, alla condizione giovanile.

Questa fase storica non si affronta e non si comprende riproponendo schematicamente analisi e progetti del passato. Però ritengo che in quell’incontro fra Moro e Berlinguer, che ha assunto i tratti del dramma con l’assassinio del primo, ci siano spunti di riflessione di grande attualità che sarebbe sbagliato sottovalutare.

Misurarsi con questi argomenti, ancora vivi e palpitanti, è indispensabile: nella nostra società pluralista devastata dal nichilismo non è possibile rivitalizzare l’etica attingendo ai soli principi della ragione, perché se è vero che essa è comune a tutti, è pur vero che la filosofia, come osservava Kant, assomiglia a un campo di battaglia in cui nessuno ha mai conquistato un palmo di terreno in maniera sicura. Non resta, allora, che superare la frammentazione delle divergenti visioni del bene, nella ricerca di valori e di norme basilari che non esauriscono la totalità della vita morale, ma ne costituiscono pur sempre l’imprescindibile fondamento poiché elaborate a partire dal valore oggettivo sostanziale della vita personale.

Conclusioni

Non si tratta dunque, semplicemente, di fare politica, quanto di promuovere il piacere dell’onestà, della correttezza, della partecipazione attiva, senza perdersi dietro eterne lamentele: ai giorni nostri ci sono non solo dubbi, difficoltà, amarezze, ma anche, per dirla con Ignazio Silone, tanti semi buoni che stanno per germogliare sotto la neve. Ed una classe dirigente capace di rendere testimonianza credibile di questo impegno saprà dare risposte concrete pure ai problemi della mai risolta questione meridionale, tramite il pensiero e l’azione di uomini e donne che abbiano come obiettivo la formazione di coscienze cristiane illuminate e la ricerca del bene comune, tenendo sempre a mente proprio le parole di Kant: «Agisci in modo da trattare l’uomo, in te come negli altri, sempre anche come un fine, non mai solo come mezzo».

Ai cattolici, a tutti gli uomini e donne di buona volontà, si chiede  di essere  sale, luce e lievito per l’affermazione del bene comune. Emblematici, al riguardo, i suggerimenti offerti da un’altra vittima del brigatismo rosso, Vittorio Bachelet: «Agire per il bene comune significa individuare dei valori, dei principi essenziali e trasmetterli ai giovani assieme al senso storico, cioè alla capacità di coniugarli con il presente, con il qui e ora nel quale si è chiamati a vivere. Quel che importa è che ognuno, secondo le proprie possibilità e facoltà, contribuisca alle molte iniziative di bene, spirituale, intellettuale e morale».

Non è indispensabile l’appartenenza ad un determinato schieramento: attraverso la testimonianza di laici liberi e responsabili, la fede può ispirare progetti che uniscano amore e visione del futuro, sapienza e dialogo, coerenza e speranza. Concetti espressi da Aldo Moro, ancora lui, in un’intervista risalente al 1977: «Non è importante che pensiamo le stesse cose, che immaginiamo e speriamo lo stesso destino; è invece importante che, ferma la fede di ciascuno nel proprio originale contributo per la salvezza dell’uomo e del mondo, tutti abbiano il proprio spazio intangibile, nel quale vivere la propria esperienza di rinnovamento e di verità, di rispetto e di dialogo».

Ai costruttori del mondo di domani sono quindi richiesti un cuore integro ed uno stile improntato al santo orgoglio del bene. È tempo, insomma, di uomini e donne che incarnino, nell’azione politica ed in quella sociale, i principi evangelici del rispetto, della ricerca della giustizia, della dedizione e della speciale attenzione ai più poveri, alla famiglia ed ai giovani, valorizzando l’esistenza in ogni suo stadio.

                «Noi siamo convinti che il mondo, anche questo terribile, intricato mondo di oggi può essere conosciuto, interpretato, trasformato e messo al servizio dell'uomo, del suo benessere, della sua felicità. La lotta per questo obiettivo è una prova che può riempire degnamente una vita». Lo diceva proprio Berlinguer. Il suo dire sprona tutti ad una maggior consapevolezza, spingendo i cristiani impegnati in politica a perseguire la giustizia, la solidarietà e quel bisogno di legalità che al Sud è non di rado interpretato come mera espressione etica.

Null’altro è necessario: il donare se stessi per servire il prossimo non viene né dalla ricchezza, né dal potere né, tantomeno, da un seggio in Parlamento, bensì dal cuore.




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