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Caritas in Veritate, il commento PDF Stampa E-mail
Scritto da +V.Bertolone   
mercoledì, 03 febbraio 2010 07:41

Bertolone
mons. Vincenzo Bertolone
Papa Benedetto XVI avrebbe voluto che la sua prima enciclica sociale venisse divulgata nel marzo del 2007, esattamente dopo  quarant’anni  dalla pubblicazione dell'enciclica Populorum progressio, pubblicata da papa Paolo VI nel marzo del 1967; ma, a causa della crisi economica che ha investito il mondo intero proprio  all’inizio del 2007, è stata necessaria una revisione di una parte dell’enciclica  rimandandone la pubblicazione al 29 giugno 2009, nella solennità dei Santi Apostoli Pietro e Paolo

Successivamente, seppur il documento porti la firma del Santo Padre il 29 giugno, in effetti la divulgazione è avvenuta il 7 luglio, pare per problemi di traduzione in latino. Presentiamo per intero il commento all’enciclica pronunciato da mons. Vincenzo Bertolone, vescovo di Cassano, durante i lavori del consiglio comunale del 25 gennaio scorso.(A.C.)

CARITAS IN VERITATE

Cassano all’Jonio, 25  gennaio 2010

Saluto e ringrazio la presidente di questo consiglio comunale per quanto ha detto e per l’importanza che questo incontro ricopre nella storia di Cassano, una storia gloriosa a cui anche il nostro momento si ascrive.

Saluto il signor sindaco, gli illustri assessori, i carissimi consiglieri, tutti gli intervenuti, in particolare il carissimo Vicario generale, i confratelli sacerdoti e le altre autorità civili e militari,

avverto il dovere di ringraziarvi, anzitutto, per l’invito rivoltomi e per la possibilità di tenere con voi questa riflessione, su temi di rilevanza vitale, in un luogo istituzionale quale l’aula consiliare, centro della vita pubblica della nostra amata comunità. Ciò faccio manifestando un sentimento di gioia che sgorga dal cuore, ma pure dalla consapevolezza che quel che oggi avviene sia il frutto dell’armonia e del dialogo tra istituzioni aventi compiti e finalità differenti ma tutte improntati allo stesso fine: l’affermazione del bene comune.

 

INTRODUZIONE

Nella nostra società pluralista, dopo la devastazione del nichilismo, non è possibile ricostruire l’eticità della vita comune partendo dai principi sia di fede, dove le diversità sono inconciliabili, sia dai principi della ragione, perché se è vero che la ragione è comune a tutti, è pur vero che la filosofia, come dice Kant, assomiglia a un campo di battaglia in cui nessuno ha mai conquistato un palmo di terreno in maniera sicura. Non resta allora altra via che partire da una prassi condivisa.

Con Paul Ricoeur posso dire che, dopo il rasoio nichilista, dubito di tutto, ma son certo che è intollerabile vedere un bambino che muore di fame. Si può partire da questa certezza, che si impone a tutti, per un sistema alternativo. Il discorso dei principi religiosi o filosofici, nella loro diversità, può entrare in gioco in un secondo momento, per fornire a ciascuno una più forte motivazione al proprio agire. In un’epoca, quale quella attuale, di transizione culturale, in cui si fa l’esperienza dell’inadeguatezza, dell’insufficienza, della provvisorietà, della relatività, siamo pur sempre chiamati – come cristiani – a testimoniare il Vangelo e quella teologia della storia che dal Vangelo scaturisce. Contro questa tendenza della postmodernità, per la quale tutti individualisticamente vogliono tutto, solo il ritorno al concetto di bene comune - assecondando il fine naturalmente proprio di tutti gli uomini (la ricerca della felicità) e la prescrizione dei mezzi per conseguirlo - consente di superare la frammentazione delle divergenti visioni del bene, nella ricerca di un insieme di valori e di norme basilari che non esauriscono la totalità della vita morale, ma ne costituiscono pur sempre l'imprescindibile fondamento poiché elaborate a partire dal valore oggettivo sostanziale della vita personale[1].

È proprio in questo panorama denso di grigiori, di dubbiose incertezze e mezze verità che è arrivata, nel luglio scorso, la terza enciclica di papa Benedetto XVI, diretta – come consuetudine – “ai vescovi, ai presbiteri e ai diaconi, alle persone consacrate, ai fedeli laici e a tutti gli uomini di buona volontà, sullo sviluppo umano integrale nella carità e nella verità”.

 

Presentazione di Benedetto XVI dell’enciclica “caritas in veritate”

            Al riguardo, reputo utile ed opportuno sottoporvi la presentazione fatta dal santo Padre mercoledì 8 luglio 2009 in occasione dell’udienza generale. E’ importante meditare, oltre che sul contenuto del documento pontificio, anche sulle parole usate dal suo autore.

“Cari fratelli e sorelle! La mia nuova Enciclica Caritas in veritate, che ieri è stata ufficialmente presentata, si ispira per la sua visione fondamentale ad un passo della lettera di san Paolo agli Efesini, dove l'Apostolo parla dell'agire secondo verità nella carità. Agendo secondo verità nella carità, cerchiamo di crescere in ogni cosa tendendo a Lui, che è il capo, Cristo" (4,15). “La carità nella verità è quindi la principale forza propulsiva per il vero sviluppo di ogni persona e dell'umanità intera. Solo con la carità, illuminata dalla ragione e dalla fede, è possibile conseguire obiettivi di sviluppo dotati di valenza umana e umanizzante. La carità nella verità è principio intorno a cui ruota la dottrina sociale della Chiesa, un principio che prende forma operativa in criteri orientativi. In modo speciale, si riallaccia a quanto scrisse Paolo VI, oltre 40 anni or sono, nella Populorum progressio, pietra miliare dell'insegnamento sociale della Chiesa, nella quale il grande Pontefice traccia alcune linee decisive, e sempre attuali, per lo sviluppo integrale dell'uomo e del mondo moderno. La situazione mondiale, come ampiamente dimostra la cronaca degli ultimi mesi, continua a presentare non piccoli problemi e lo scandalo di disuguaglianze clamorose, che permangono nonostante gli impegni presi nel passato. L'Enciclica certo non mira ad offrire soluzioni tecniche alle vaste problematiche sociali del mondo odierno - non è questa la competenza del Magistero della Chiesa (cfr n. 9). Essa ricorda però i grandi principi che si rivelano indispensabili per costruire lo sviluppo umano dei prossimi anni. Tra questi, in primo luogo, l'attenzione alla vita dell'uomo, considerata come centro di ogni vero progresso; il rispetto del diritto alla libertà religiosa, sempre collegato strettamente con lo sviluppo dell'uomo; il rigetto di una. visione prometeica dell'essere umano, che lo ritenga assoluto artefice del proprio destino. Un'illimitata fiducia nelle potenzialità della tecnologia si rivelerebbe alla fine illusoria. Occorrono uomini retti tanto nella politica quanto nell'economia, che siano sinceramente attenti al bene comune. In particolare, guardando alle emergenze mondiali, è urgente richiamare l'attenzione della pubblica opinione sul dramma della fame e della sicurezza alimentare, che investe una parte considerevole dell'umanità. Un dramma di tali dimensioni interpella la nostra coscienza: è necessario affrontarlo con decisione, eliminando le cause strutturali che lo provocano e promuovendo lo sviluppo agricolo dei Paesi più poveri.

Volendo dunque programmare uno sviluppo non viziato dalle disfunzioni e distorsioni oggi ampiamente presenti, si impone da parte di tutti una seria riflessione sul senso stesso dell'economia e sulle sue finalità. Lo esige lo stato di salute ecologica del pianeta; lo domanda la crisi culturale e morale dell'uomo che emerge con evidenza in ogni parte del globo. L'economia ha bisogno dell'etica per il suo corretto funzionamento; ha bisogno di recuperare l'importante contributo del principio di gratuità e della logica del dono nell'economia di mercato, dove la regola non può essere il solo profitto. Ma questo è possibile unicamente grazie all'impegno di tutti, economisti e politici, produttori e consumatori e presuppone una formazione delle coscienze che dia forza ai criteri morali nell'elaborazione dei progetti politici ed economici. […] Il Vangelo ci ricorda che non di solo pane vive l'uomo: non con beni materiali soltanto si può soddisfare la sete profonda del suo cuore. L'orizzonte dell'uomo è indubbiamente più alto e più vasto; per questo ogni programma di sviluppo deve tener presente, accanto a quella materiale, la crescita spirituale della persona umana, che è dotata appunto di anima e di corpo. E' questo lo sviluppo integrale, a cui costantemente la dottrina sociale della Chiesa fa riferimento, sviluppo che ha il suo criterio orientatore nella forza propulsiva della carità nella verità. Cari fratelli e sorelle, preghiamo perché anche questa Enciclica possa aiutare l'umanità a sentirsi un'unica famiglia impegnata nel realizzare un mondo di giustizia e di pace. Preghiamo perché i credenti, che operano nei settori dell'economia e della politica, avvertano quanto sia importante la loro coerente testimonianza evangelica nel servizio che rendono alla società”.

 

Commento

Dirò subito che il documento di cui abbiamo appena ascoltato la presentazione nelle parole del suo Autore è un’enciclica molto innovativa, perché non si limita a una lettura dei segni dei tempi, ma va oltre: mentre sia la Rerum novarum sia la Centesimus annus si limitavano ad invitare gli uomini e le donne di buona volontà a correggere gli errori del sistema, questa ratzingeriana pare più propositiva. Non a caso, essa è stata accolta subito, anche al di fuori della comunità cristiana, con rispetto e interesse per la profondità dell'analisi compiuta e per le prospettive indicate, ovvero le linee lungo le quali muoversi se si vogliono risolvere i problemi che vengono denunciati.

In particolare, il documento pone l’attenzione alle fondamentali questioni economiche e sociali coeve: la revisione dei sistemi di welfare, la predisposizione di nuove reti di reciprocità che non si aggiungono dall’esterno al mercato ma lo attraversano; la disgregazione della famiglia, cioè la prima agenzia sociale che produce reciprocità ed accoglienza; la percezione dell’emergenza educativa, che ha molteplici ripercussioni negative anche in settori economici e produttivi e sfilaccia il tessuto sociale minando l’ecologia umana, che è vero e proprio capitale sociale; la scarsa preoccupazione per la tenuta del sistema morale delle nostre società, spesso indebolito dall’individualismo, nell’idea che si viva a compartimenti stagni e che l’etica economica o quella della finanza siano indipendenti dalla vita morale della persona.

            Purtroppo, la modernità ci ha lasciato in eredità l’idea in base alla quale per poter operare nel campo dell’economia sia indispensabile mirare al profitto ed essere animati prevalentemente dal proprio interesse; come a dire che non si è imprenditori se non si persegue il massimo del profitto. In caso contrario, ci si dovrebbe accontentare di far parte della sfera del sociale.

Questa convinzione ha portato ad identificare l’economia con il luogo della produzione della ricchezza (o del reddito) e il sociale con il luogo della solidarietà per un’equa distribuzione della stessa. La Caritas in veritate afferma invece che fare impresa è possibile anche quando si perseguono fini di utilità sociale e si è mossi all’azione da motivazioni a vantaggio del sociale. È un modo concreto, anche se non l’unico, di colmare il divario tra l'economico e il sociale, dato che un agire economico che non incorporasse al proprio interno una dimensione etica non sarebbe  accettabile, come è altrettanto vero che un sociale meramente redistributivo, che non facesse i conti col vincolo delle risorse, non risulterebbe alla lunga sostenibile: prima di poter distribuire occorre, infatti, produrre[2].

Il concetto di “carità nella verità”, dunque, rovescia intenzionalmente la famosa espressione paolina contenuta nella lettera agli Efesini: “Veritas in caritate” (Ef 4, 15). Il Papa ha preferito mettere l’accento sulla verità da esprimere nella carità perché manifesta il Volto di Cristo e diventa per noi “una vocazione ad amare i nostri fratelli nella verità del suo progetto. Egli stesso, infatti, è la Verità” (2). La caritas, quindi, è la verità da ricercare e attuare per entrare in una relazionalità che non si fa scudo del proprio interesse, ma a tutti va incontro nella gratuità del dono. “Senza verità, la carità scivola nel sentimentalismo. L’amore diventa un guscio vuoto, da riempire arbitrariamente. E’ il fatale rischio dell’amore in una cultura senza verità. Esso è preda delle emozioni e delle opinioni contingenti dei soggetti, una parola abusata e distorta, fino a significare il contrario. La verità è luce che dà senso e valore alla carità. Questa luce è, a un tempo, quella della ragione e della fede, attraverso cui l’intelligenza perviene alla verità naturale e soprannaturale della carità: ne coglie il significato di donazione, di accoglienza e di comunione” (3)[3].

È questa la necessaria premessa per l’estensione del documento alla trattazione della dottrina sociale della Chiesa, svolta peraltro in modo da evitare che venga scambiato per un testo di sociologia o di economia, ovvero per proporre una terza via tra le due preponderanti visioni del mondo. In questa luce, e partendo da queste premesse, Benedetto XVI delinea il progetto sull’umanità: la centralità della persona umana e la necessità di dare un volto umano a tutti gli aspetti della vita sociale.

Altro elemento portante del testo è che la carità eccede la giustizia perché amare è donare. La giustizia, perciò non deve separarsi dalla carità, di quell’amare con i fatti è nella verità a cui esorta l’apostolo Giovanni”(6)[4]. Se e quando ciò non avviene, “il tema di fondo, il progresso, resta ancora un problema aperto”(33). “La dottrina sociale della Chiesa – dice in proposito il Papa – ritiene che possano essere vissuti rapporti autenticamente umani, di amicizia, di socialità, di solidarietà e di reciprocità, anche all’interno dell’attività economica e non soltanto fuori di essa o dopo di essa”(36).

Ancora, l’enciclica elogia quelle forme di attività economiche che informano il proprio agire a principi diversi da quelli del semplice profitto, senza con questo rinunciare a produrre valore economico (45). Nella parte dedicata all’ambiente e alla tecnica, il Papa afferma che “il libro della natura è uno e indivisibile”(51) e “ tecnica è l’aspetto oggettivo dell’agire umano, la cui origine e ragione d’essere sta nell’elemento soggettivo: l’uomo che opera. Per questo la tecnica non è mai solo tecnica” (69). Il vero sviluppo, aggiunge, “non consiste primariamente col fare. Chiave dello sviluppo[5] è un’intelligenza in grado di pensare la tecnica e di cogliere il senso pienamente umano del fare dell’uomo”(70).

L’enciclica si chiude con un tema particolarmente caro al Santo Padre: la necessità di conciliare tra loro fede e ragione. La prima senza la seconda rischia l’estraniamento dalla “vita concreta delle persone”(74) ma la ragione “ha sempre bisogno di essere purificata dalla fede” (74). Segue il riconoscimento che senza Dio l’uomo non sa dove andare e non riesce nemmeno a comprendere chi egli sia […]. Paolo VI ci ha ricordato nella Populorum progressio che l’uomo non è in grado di gestire da solo il proprio progresso perché non può fondare da sé un vero umanesimo che esclude Dio è un umanesimo disumano (78). […] L’anelito del cristiano è che tutta la famiglia umana possa invocare Dio come Padre nostro!” (79).

Da un punto di vista argomentativo e strutturale, l’enciclica si snoda in un’Introduzione, sei capitoli ed una conclusione: il tutto in 79 numeri e in 143 pagine (almeno nell’edizione italiana a cura della Segreteria di Stato). Testo abbastanza lungo, dunque, se confrontato con la Populorum progressio e le due di Giovanni Paolo II: Sollicitudo rei socialis (1987) e Centesimus annus (1991). Il contenuto è articolato, giacché affronta tematiche complesse come lo Stato, la globalizzazione, gli organismi sovranazionali, la cooperazione internazionale, il sindacato, il volontariato, la tecnica, l’ambiente, addirittura un nuovo governo mondiale. Va da sé che ci vorrà del tempo (oltre già quello trascorso) per mettere a fuoco i punti cruciali e controbattere ad alcuni giudizi negativi o, quantomeno, affrettati e ingenerosi. Qualcuno, ad esempio, l’ha definita l’enciclica del “ma anche”, giacché – a suo giudizio – essa accontenta tutti: industriali e operai; economisti di globalizzazione spinta e sindacati. L’enciclica non condannerebbe platealmente l’aumento della flessibilità dei lavoratori e la deregulation del mercato del lavoro; anche se poi – e ciò viene riconosciuto dai critici – mette in guardia dalle sue conseguenze.

Il nostro compito, tuttavia, è capire – commentando – la Caritas in veritate in tutta la sua formulazione, senza dare eccessivo ascolto agli ipercritici ma sottolineando i suoi punti forti, tra i quali la critica al capitalismo nei suoi sistemi di potere economico e politico, nella scia dei luminosi documenti magisteriali sulla dottrina sociale, proprio come ha fatto Benedetto XVI, e nella prospettiva di una vita eterna, senza la quale il progresso umano si fa asfittico.

 

Contestualizzazione

Come ogni documento, la Caritas in veritate vive un proprio contesto con un proprio linguaggio. Per opposte motivazioni, ogni testo pontificio viene letto dagli opinionisti e dagli esperti di varia estrazione quasi sempre frettolosamente (obbedendo alla ferrea legge della “tempestività” e della “priorità”), con immancabili e negative conseguenze sull’efficacia dell’interpretazione e, quindi, sull’aderenza del commento interpretativo al testo così com’è.

Ciò capita ad ogni specie di commentatori: siano essi “tradizionalisti”, “progressisti” e “neutri”. I primi sono elogiativi per partito preso, cadendo così nell’immancabile conseguenza di un mancato approfondimento analitico e serio; i secondi sono indotti a proiettare sulle ali dei loro sogni il ratzinger-pensiero laddove esso non è arrivato e finiscono per attribuirgli concetti ed idee non espressi; tra i terzi, poi, ci sono quelli che dopo essersi attribuiti i concetti e i principi del Pontefice ne menano vanto “ad usum delphini”. E così i principi, spesso grandi e originali espressi nelle encicliche (nemmeno esse sfuggono a questa sorte!) vengono riproposti in maniera generica e/o contraddittoria per finalità autocelebrative.

Per contro, trovo corretto ed apprezzabile per la sua calibrata misura il messaggio inviato per lettera dal Presidente Napolitano dopo alcuni giorni dalla pubblicazione. Ne riporto uno stralcio: “Sono certo che i temi centrali che riguardano la vita dell’uomo in rapporto ai suoi simili e le grandi questioni che toccano le nostre società […] costituiranno uno stimolo ad una riflessione che potrà risultare benefica per tutti. L’affermazione di Vostra Santità che oggi la questione sociale è diventata radicalmente questione antropologica costituisce in effetti un invito ad un ripensamento approfondito e sereno di molti aspetti della vita e del funzionamento degli aggregati umani, con particolare riferimento al “senso dell’economia e dei suoi fini e alla necessità di una “revisione profonda e lungimirante del modello di sviluppo, per correggere le disfunzioni e le distorsioni”.

Ecco, il punctum pruriens è proprio questo: la questione sociale. E’ questa la cornice contestualizzante entro la quale va ascritta l’enciclica.

In estrema sintesi, essa spicca per i seguenti requisiti e pregi:

- laicità dell’argomentazione per il rispetto dei “diversi livelli del sapere umano” (30);

 - “cooperazione fraterna tra credenti e non credenti nella condivisa prospettiva di lavorare per la giustizia, e la pace dell’umanità(57);

- valutazione delle cose in rapporto alla “centralità della persona umana”(47);

-affermazione del valore politico, economico e istituzionale della carità legata al bene comune e all’unione della famiglia umana;

- esigenza di una nuova progettualità economica a favore del destino dell’uomo(21);

- ipotesi di una “economia civile e di comunione”(46) che sperimenti forme di socialità all’interno della vita economica, che ha certamente necessità di “contratto sociale”, ma anche di leggi giuste e di forme di ridistribuzione guidate dalla politica e di opere che recano impresso lo spirito del dono” (37);

- rifiuto del dominio totalitario della merce in nome del rispetto dell’ambiente per tutti: giovani, poveri, generazioni future;

- atteggiamento profondamente evangelico di fronte all’umana tragedia dell’immigrazione, impressionante “per la quantità di persone coinvolte, per le problematiche sociali, economiche, politiche, culturali, religiose che solleva, per le sfide drammatiche che pone alle comunità nazionali e a quella internazionale, perché i lavoratori stranieri recano un contributo significativo allo sviluppo economico del Paese ospite con il loro lavoro [ … ] e non possono essere trattati come qualsiasi altro fattore di produzione. Ogni migrante è una persona umana…”(62).

            Alla base di queste lucide proposizioni c’è la visione unica (anche se espressa con le necessarie caratteristiche e peculiarità, dovute ai diversi tempi ed alle mutate esigenze) della dottrina sociale della  Chiesa cattolica: la visione unica è ispirata alla carità, all’amore che, peraltro, aveva già guidato la mano del Pontefice nello scrivere la sua prima enciclica Deus caritas est (2005). Continuità, dunque, da ascrivere però e leggere alla luce del leitmotiv del magistero di Benedetto XVI e del suo pontificato.

Per chiudere questo paragrafo di contestualizzazione, segnalerò che di una nuova enciclica “sociale” si parlava già nel 2001, per rispettare la cadenza decennale che perdura fin dal 1931, anno della pubblicazione da parte di Pio XI della Quadragesimo anno. Le condizioni fisiologiche  sconsigliarono a Giovanni Paolo II l’assunzione di una fatica così importante. Poi si ipotizzò che la nuova enciclica potesse uscire nel 2007 per celebrare- come già detto, la Popularum progressio di Paolo VI (del 1967). Benedetto XVI sospese il suo lavoro per la sopraggiunta crisi economica mondiale che obbligava a rivedere tanti principi economici, sociali, politici e culturali. La stesura è stata ripresa e debitamente aggiornata. Altro tempo è passato per le  traduzioni, in particolare il latino e in tedesco. Non è cosa di poco conto “tradurre” in latino termini come “globalizzazione”, “speculazione finanziaria”, “indice di sostituzione”, “accantonamento di risparmio” e simili. Va detto, come “legge di compensazione”, che il ritardo si è trasformato in un’opportunità molto utile e in una favorevolissima platea perché l’enciclica è stata pubblicata a ridosso della riunione dei maggiori Paesi del mondo (il G8)nella città dell’Aquila (luglio 2009).

            Caritas in veritate, come già accennato, ha avuto un’accoglienza favorevolissima. Stanno a dimostrarlo anche i circa seimila articoli che nell’immediato essa ha suscitato, anche sul Web, nonostante la sua lunghezza e l’obiettiva complessità del linguaggio non comprensibile per i più.

             Come dicevo all’inizio, compito del vescovo è diffonderne il messaggio Lo debbo fare responsabilmente, proprio nello spirito del pensiero, del testo del Santo Padre e, che in questa enciclica ha usato la parola “responsabilità” ben trentanove volte.

             Qualcuno spiega che il Magistero non viene sufficientemente illustrato e divulgato ai fedeli perché costituirebbe elemento di divisione tra i fedeli. La giustizia non può dividere: sono i preconcetti a farlo; la verità non può essere elemento di scandalo, semmai è la menzogna o un colpevole silenzio; la carità non può offendere e sconcertare alcuno perché di per se stessa è il volto stesso di Dio misericordioso.

Grazie ad essa mi prefiggo di dissolvere alcuni errori e pregiudizi, in uno sforzo di aggiornamento che non si riferisce soltanto ad una situazione storicamente ben determinata (l’attuale gravissima crisi dalle molteplici violenze), ma si incentra sui connotati antichi di questa Regione, con i suoi limiti endemici o forse soltanto storici, politici, istituzionali. Noi, in questo territorio, avendo già individuato le carenze di vecchia e di recente data, dobbiamo affrontarle per combatterle una volta per tutte. Ce lo impone il nostro ministero, la nostra missione, il Magistero della Chiesa, con i suoi insegnamenti intramontabili e con i suoi insegnamenti dottrinali. Il Papa ci ammonisce: “Siamo in un mondo che ha bisogno di un profondo rinnovamento culturale e della riscoperta di valori di fondo su cui costruire un futuro migliore. La crisi ci obbliga a riprogettare il nostro cammino, a darci nuove regole e a trovare nuove forme di impegno” (21). Ma sempre nella carità, nostra via maestra e nella missione della verità da compiere”[6].

            L’enciclica è anche un testo di speranza, quasi un richiamo all’utopia di un pianeta più fraterno e solidale, un invito a sognare, mentre siamo entrati nel nuovo secolo privi di visioni di grande portata.

 

CONCLUSIONI (NN. 78-79)

            “Senza Dio l’uomo non sa dove andare e non riesce nemmeno a comprendere chi egli sia”(78).

Un’espressione come questa getta luce sull’insegnamento che Benedetto XVI ha voluto offrire con questo suo documento. L’orizzonte spirituale della persona non è appendice aggiuntiva per la comprensione di sé e del rapporto con gli altri, con la sua essenza: se la persona fosse limitata alla sola sfera della relazionalità interpersonale, senza la capacità di andare oltre l’umano per affidarsi a quel senso di trascendenza che si percepisce dentro di sé, allora sarebbe distrutta la componente di mistero che permane come dimissione determinante per la coerente collocazione di sé all’interno del creato e della società.

Il Pontefice si rivolge a tutti gli uomini di buona volontà per invitarli a ripensare se stessi, alla propria origine e ruolo. Così facendo, trasmette ad essi un formidabile messaggio di speranza. Pur affermando, infatti, che la società umana è ferita dal peccato, assicura che “non c’è società nuova senza uomini nuovi”. Le attività economiche, che dell’uomo sono considerevole espressione, non si realizzano mai in un vuoto morale o in un mondo virtuale, ma dall’interno di un determinato contesto culturale, le cui matrici possono essere riconosciute e apprezzate, ovvero trascurate e disprezzate.

Benedetto XVI va dunque molto più avanti di una prospettiva moralizzatrice dell’uomo-individuo e dell’uomo-società: reclama e addita uno sviluppo umano in cui le persone abbiano “le braccia alzate verso Dio nel gesto della preghiera, di amore e di perdono, di rinuncia a se stessi, di accoglienza del prossimo, di giustizia e di pace” (78-79).

            Ernst Bloch ci avverte che oltre al sogno notturno, che esprime il nostro passato mal digerito e i conseguenti incubi, c’è un sogno diurno, fatto ad occhi aperti, che esprime ciò che ci costituisce in maniera più propria, ma ancora non abbiamo raggiunto, la patria che mai abbiamo abitato, per cui la condizione dell’uomo è di essere in cammino, cittadini della storia, stranieri in ogni patria: così pensavano i primi cristiani.

A quegli uomini e donne di buona volontà spetta ora il compito di tradurre in realtà e concretezza precetti irrinunciabili. Dalla cui osservanza ed attuazione dipendono le sorti future dell’umanità.

Grazie.


[1] Tramontata, probabilmente per sempre, la possibilità di costruire una visione complessiva della realtà che giustifichi affermazioni universali a sostegno di comportamenti e atteggiamenti eticamente coerenti, si avverte tuttavia la necessità di trovare una base comune e condivisibile dell'agire dell'uomo. Le ideologie avevano preteso, nel tentativo di liberarsi dai vincoli delle religioni e dall'astrattezza della metafisica classica, di fornire all'uomo contemporaneo i codici e gli strumenti per il superamento di ogni forma di alienazione e per la costruzione di una società civile capace di promuovere integralmente gli individui e i popoli. Ma, con il loro fallimento storico hanno creato un gap di speranza, per certi versi, incolmabile.

 

[2] L’enciclica era attesa già nel 2007 nella ricorrenza del 40° anniversario della Populorum progressio di Paolo VI.

Infatti, era stato Paolo VI, a intuire con singolare lungimiranza, al tempo della "guerra fredda" e dei blocchi contrapposti, che il futuro del pianeta sarebbe stato sempre più connesso, al punto che lo sviluppo dei popoli "dipendenti" avrebbe prima o poi condizionato anche quello delle nazioni del primo e del secondo mondo.

[3] E’ vero - solo l’amore è credibile - anche perché la fede cristiana  accoglie la rivelazione del Dio-agape e in questo Dio riconosce l’amore come la realtà che determina ogni cosa: l’amore è respiro, dimensione profonda, finalità concreta, legge interiore di vita: Dio-amore è tutto, è per tutto, è in  tutto. Tocca l’universo cosmico - è « l’amor che move il sole e l’altre stelle (Paradiso XXXIII,145)- perché coglie l’uomo: «l’uomo non può vivere senza amore […] La sua vita è priva di senso, se non gli viene rivelato l’amore, se non si incontra con l’amore, se non lo sperimenta e non lo fa proprio, se non vi partecipa vivamente» (Giovanni Paolo II, Redemptor hominis 10.

[4] Senza carità non esiste giustizia. E ciò determina come conseguenza che anche l'economia mondiale degeneri in divari esasperati  che giunga a forme scompensate di sfruttamento, dominio, depauperamento della società.

[5] “Sviluppo” è un termine continuamente usato da Benedetto XVI con chiaro riferimento alla parola “progresso” dal titolo dell’Enciclica Populorum progressio di Paolo VI, cui molto sovente e “necessariamente” la Caritas iin veritate si ispira.

[6] La Caritas in veritate, in sintesi, ci educa a saper valutare, alla luce congiunta della ragione e della fede, i fatti sociali e l’economia, avendo dinanzi le sfide del presente e lo scandalo non più sopportabile di ingiustizie e di disparità dei popoli.

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