Lo scorso mese di luglio, insieme con 12 presbiteri e 40 laici dell’arcidiocesi Catanzaro-Squillace, sono stato nei luoghi luterani: Eisleben, città natale di Martin Lutero, il fonte battesimale della Chiesa dei santi Pietro e Paolo, la chiesa di sant’Andrea dove tenne i suoi ultimi sermoni. Più volte, nei nostri discorsi, ricorreva la domanda su quali fossero le vere intenzioni dell’inceptor della riforma luterana.
Era, in realtà la ripresa di un interrogativo analogo del giornalista Tilmann Kleinjung che, il 26 giugno 2016, sul volo di ritorno dal viaggio apostolico in Armenia, aveva chiesto a papa Francesco se non fosse giunto il tempo per una riabilitazione di Lutero da parte cattolica, che comprendesse cioè l’annullamento della scomunica lanciata contro di lui da Leone X nel 1521.
Al netto di ogni forzatura ideologica e di ogni strumentalizzazione mediatica, la risposta del Pontefice manifesta — assieme al possente respiro ecumenico che la pervade — una grande sensibilità storica, che gli consente di situare la problematica sotto la lente — l’unica possibile, storicamente parlando — della complessità.
Così il santo Padre: «Io credo che le intenzioni di Martin Lutero non fossero sbagliate: era un riformatore. Forse alcuni metodi non erano giusti, ma in quel tempo, se leggiamo la storia del Pastor, per esempio, vediamo che la Chiesa non era proprio un modello da imitare: c’era corruzione nella Chiesa, c’era mondanità, c’era attaccamento ai soldi e al potere. E per questo lui ha protestato. Poi era intelligente, e ha fatto un passo avanti giustificando il perché faceva questo. E oggi luterani e cattolici, con tutti i protestanti, siamo d’accordo sulla dottrina della giustificazione: su questo punto tanto importante lui non aveva sbagliato. Lui ha fatto una “medicina” per la Chiesa, poi questa medicina si è consolidata in uno stato di cose, in una disciplina, in un modo di credere, in un modo di fare, in modo liturgico. Ma non era lui solo: c’era Zwingli, c’era Calvino. E dietro di loro chi c’era? I principi, “cuius regio eius religio”. Dobbiamo metterci nella storia di quel tempo. È una storia non facile da capire, non facile. Poi sono andate avanti le cose. Oggi il dialogo è molto buono e quel documento sulla giustificazione credo che sia uno dei documenti ecumenici più ricchi, più ricchi e più profondi».
Il senso del viaggio a Lund Le espressioni del Papa che ci consentono anche di cogliere meglio il senso e le intenzioni del prossimo viaggio apostolico che egli compirà a Lund, in Svezia, il 31 ottobre, per partecipare alla commemorazione ecumenica che aprirà il giubileo luterano per i 500 anni della Riforma, evento dall’indiscutibile vigore simbolico.
L’ermeneutica storica di Francesco coglie quella pluralità di livelli nella quale il problema della Riforma protestante dev’essere accolto e compreso, a cominciare dai soggetti, dai luoghi e dai tempi che ne hanno scandito l’evoluzione, cercando le intenzioni buone pur nell’opinabilità dei metodi utilizzati. La pluralità — e dunque la diversificazione in sede interpretativa — dei soggetti e dei luoghi è evocata attraverso il richiamo ai nomi di Zwingli e Calvino, come agli attori politici della Riforma, i Prìncipi, e al principio dell’augustano cuius regio, che apre la strada alla differenziazione confessionale di alcuni Stati europei.
Questi esponenti religiosi e politici sono dei riformatori che esprimevano una legittima critica a una Chiesa che non era proprio un modello da imitare: corruzione, mondanità, attaccamento ai soldi e al potere.
Erano critiche ricorrenti, anche “interne”, da parte di tutti coloro che da secoli invocavano un rinnovamento radicale, una riforma appunto, rispetto ad uno stile ecclesiastico ritenuto lontano dal Vangelo di Cristo. Basti ricordare che poco dopo più di un trentennio dalla morte di Francesco d’Assisi e della sua scelta di spoliazione e di povertà radicale risulta ormai formalizzata un’immagine simbolica, quasi un vero e proprio topos di una teologia della riforma della Chiesa: il Crocifisso, inteso come emblema di riforma e di povertà radicale.
In tal modo, come si legge nei Fioretti di san Francesco, la vita paradisiaca, condotta in conformità a Cristo, inaugurata da Francesco, sarà caratterizzata dalla perfetta umiltà, dalla povertà assoluta, dalla vera letizia, dalle pratiche ascetiche, dalla pace nel e con il creato, dalle visioni ed esperienze mistiche.
A sua volta, il Tractatus in expositionem Vite et Regule beati Benedicti, prodotto dal riformatore calabrese Gioacchino da Fiore in un clima di vivace fermento della sua officina letteraria e rielaborato dopo la sua morte, in uno dei punti cruciali evoca per la prima volta il rischio di un duplice anticristo, che potrebbe minare o ritardare l’epoca di pace auspicata dai riformatori interni alla Chiesa cattolica.
Il cardinale-riformatore Roberto Bellarmino si lamenterà della condotta di alcuni confratelli vescovi, che hanno accumulato troppa polvere sulla loro veste battesimale e scriverà di tempi non del tutto sereni per la Chiesa romana, adducendo la propria testimonianza di vessazioni subite all’inizio della primavera del 1569, nel corso del suo viaggio verso Lovanio, a causa delle truppe protestanti di Wolfgang, duca di Zweibrucken.
In realtà, senza revisionismi, si tratta di rileggere con occhi rinnovati la storia della riforma cattolica e protestante e dello stesso movimento di argine-reazione messo in atto dalla parte cattolica. Già Giovanni Paolo II, in occasione del cinquecentenario della nascita «del dottor Martin Lutero da Eisleben», coincidente con il giubileo straordinario del 1983, nel suo messaggio al card. Willebrands, Presidente del Segretariato per l’unione dei cristiani, auspicava che le celebrazioni potessero essere «motivo di meditare, nella verità e nella carità cristiana, su quell’avvenimento gravido di storia che fu l’epoca della Riforma.
Perché è il tempo che, distanziandoci dagli eventi storici, fa sì che essi siano spesso meglio compresi ed evocati». Aggiungendo: «È importante continuare un accurato lavoro storico. Si tratta di giungere, attraverso un’investigazione senza pregiudizi, motivata solo dalla ricerca della verità, a un’immagine giusta del riformatore, di tutta l’epoca della Riforma e delle persone che vi furono coinvolte. La colpa, dove esiste, dev’essere riconosciuta, da qualsiasi parte si trovi, laddove la polemica ha offuscato lo sguardo, la direzione di questo sguardo deve essere corretta indipendentemente dall’una o dall’altra parte. […] Solo ponendoci, senza riserve, in un atteggiamento di purificazione attraverso la verità, possiamo trovare una comune interpretazione del passato e raggiungere allo stesso tempo un nuovo punto di partenza per il dialogo di oggi».
Tra storia e passi concreti La prospettiva storica consente anche di registrare il notevole impulso allo spirito ecumenico del Concilio Vaticano II, che al ristabilimento dell’unità tra i cristiani dedicò il decreto Unitatis redintegratio, sul cui solco maturò la Dichiarazione congiunta sulla dottrina della giustificazione (31 ottobre 1999). Il testo riconosceva che, sulla base del dialogo ecumenico, luterani e cattolici erano «ormai in grado di enunciare una comprensione comune della nostra giustificazione operata dalla grazia di Dio per mezzo della fede in Cristo».
La Dichiarazione esprimeva, pur non contenendo «tutto ciò che si insegna in ciascuna Chiesa sulla giustificazione […] un consenso su verità fondamentali della dottrina della giustificazione» (n. 5; cf n. 40).
Su questa base la ELCA (Evangelical Lutheran Church in America), che negli USA conta oltre 3,7 milioni di membri, ha potuto approvare con voto pressoché unanime (931 favorevoli, a fronte di 9 contrari), in occasione della recentissima Assemblea generale, una dichiarazione (Declaration on the Way, 10 agosto 2016), maturata in dialogo con la Conferenza Episcopale dei Vescovi Cattolici Statunitensi, nella quale sono elencati i principali punti di coesione dottrinale tra cattolici e protestanti attorno a Chiesa, Ministero ed Eucaristia.
Lo stesso papa Francesco, ai partecipanti al pellegrinaggio dei luterani a Roma il 13 ottobre scorso, ha detto: “Rendiamo grazie a Dio perché oggi, luterani e cattolici, stiamo camminando sulla via che va dal conflitto alla comunione”. Anche l’ormai imminente commemorazione congiunta di Lund è stata segnata dall’elaborazione di un significativo testo preparatorio, pubblicato nel 2013, al quale ha lavorato una commissione luterano-cattolica ( tra i cui membri spiccano i nomi dei Cardinali Koch e Muller): Dal conflitto alla comunione. Inizia riconoscendo che «la vera unità della Chiesa può esistere solo come unità nella verità del Vangelo di Gesù Cristo. Il fatto che la lotta per questa verità abbia portato nel XVI secolo alla perdita dell’unità nel cristianesimo d’Occidente appartiene alle pagine oscure della storia della Chiesa.
Nel 2017 dobbiamo confessare apertamente che siamo colpevoli dinanzi a Cristo di avere infranto l’unità della Chiesa. Questo anno giubilare ci presenta due sfide: la purificazione e la guarigione delle memorie, e la restaurazione dell’unità dei cristiani secondo la verità del Vangelo di Gesù Cristo» (Prefazione).
Da parte cattolica vengono ricordate le richieste di perdono formulate da Paolo VI e da Giovanni Paolo II (nn. 234-235), mentre da parte luterana appare particolarmente forte e decisa la presa di distanze dei luterani da determinate parole e azioni di Lutero: «In questa occasione i luterani ricorderanno anche le brutali e umilianti dichiarazioni che Martin Lutero scagliò contro gli ebrei, la persecuzione degli anabattisti perpetrata da autorità luterane e sostenute, dal punto di vista teologico, da Martin Lutero e Filippo Melantone.
Deplorano i violenti attacchi di Lutero durante la Guerra dei contadini (1524-25)». Il documento dà grande spazio e rilevanza all’esame storico degli eventi della Riforma, enunciando a livello di principio la necessità di una nuova elaborazione storiografica di quanto avvenuto: «Quello che è accaduto nel passato non si può cambiare, ma può invece cambiare, con il passare del tempo, ciò che del passato viene ricordato e in che modo.
La memoria rende presente il passato. Mentre il passato in sé è inalterabile, la presenza del passato nel presente si può modificare. In vista del 2017, il punto non è raccontare una storia diversa, ma raccontare questa storia in maniera diversa. Luterani e cattolici hanno molte ragioni per rinarrare la loro storia in modi nuovi» (nn. 16-17).
Partendo proprio dalle 95 tesi di Lutero che sia nei testi scolastici, sia nell’immaginario collettivo, evocano un furente agostiniano che rifiuta tanto la teoria quanto la pratica delle indulgenze, che inchioda il manifesto della sua protesta alla porta della chiesa del Castello di Wittenberg, alla vigilia della festa di Tutti i Santi del 1517, innescando un processo di separazione, primo passo della frattura insanabile con Roma.
A parte la cerchia più o meno ristretta degli specialisti, pochi sanno che Lutero in vita sua non dichiarò mai di aver affisso le tesi. La notizia è testimoniata, infatti, solo da Melantone, a circa trent’anni di distanza dai fatti (1546), quando ormai da tempo si era consumato l’abbandono da parte di Lutero della Chiesa cattolica e si poteva parlare di un mondo protestante con un’identità ormai sufficientemente definita da potersi contrapporre a quella Cattolica-romana.
È certo, comunque, che Lutero indirizzò il 31 ottobre 1517 una lettera al principe Alberto di Brandeburgo, vescovo di Magdeburgo, nella cui diocesi aveva avuto luogo la scandalosa predicazione del domenicano Johann Tetzel. Alla lettera è allegato un elenco di 95 tesi, che nelle intenzioni dell’agostiniano tedesco non doveva essere destinato al grande pubblico, ma semplicemente fungere da “guanto di sfida” per una ristretta disputatio teologica sul tema delle indulgenze.
A confermarlo è lo stesso Lutero in una lettera del 1518 all’amico Christoph Scheurl, che a proposito delle tesi scrive: «Non era mia intenzione né mio desiderio che fossero divulgate, ma che fossero anzitutto discusse tra pochi abitanti nei dintorni di qui, affinché, sul giudizio di molti, fossero condannate e soppresse, o approvate e pubblicate. Ma ora sono stampate e diffuse tanto al di là della mia speranza, che sono dispiacente di questo mio prodotto, non perché non desideri che la verità sia conosciuta dal volgo, ché anzi cercavo soltanto quello, ma perché quel modo non è adatto per istruire il popolo. Vi sono infatti alcune cose che sono dubbie a me stesso, e che avrei espresse in modo molto diverso e più preciso, o avrei omesso, se avessi sperato una tale divulgazione» (Citato in M. LUTERO, Scritti religiosi, UTET, Torino 1967, 55)..
Conclusioni Però nel 1520 l’autore delle tesi con i suoi scritti attacca frontalmente il papato e la struttura sacramentale della Chiesa; una cosa è sostenere che le tesi rappresentino l’inizio di un confronto — poi degenerato in una serrata escalation di eventi, nella quale un ruolo non secondario giocano fattori politici e motivi di natura personale — tra Lutero e l’autorità ecclesiastica, altra cosa è interpretarle come il deliberato atto fondativo del Protestantesimo, come realtà autonoma da Roma. In altre parole, il riconoscimento simbolico delle tesi come inizio della Riforma è lecito solo a patto che si sia capaci di differenziare le fasi della Riforma stessa, riconoscendo come l’evoluzione dei fatti che ha portato a uno scisma non possa essere rappresentata alla maniera di una linea retta che procede coerentemente dal punto A al punto B, ma come l’esito di un processo dalle molte variabili, in qualche modo aperto anche a soluzioni differenti. Da un punto di vista ecumenico, ci sembra che questo dato, che a qualcuno potrà apparire peregrino, sia di considerevole importanza.
In questa prospettiva, allora, sarà possibile, sia rivalutare l’insegnamento dell’agostiniano tedesco anche in ambito cattolico sia riflettere su che cosa nel corso degli eventi, per cause e responsabilità che non possono essere unilateralmente addossate, sia “andato storto”, tramutando un tentativo di riforma in un doloroso scisma che osiamo sognare possa essere ricomposto. «La sfida della realtà», ricordava qualche tempo fa il Santo Padre, «chiede anche la capacità di dialogare, di costruire ponti al posto dei muri. Questo è il tempo del dialogo, non della difesa di rigidità contrapposte».
Nessun dubbio: la visita di Papa Francesco a Lund, va in questa direzione. p.Vincenzo Bertolone
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