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Sibari

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Ricordo della Shoa con una testimone d'eccezione PDF Stampa E-mail
Scritto da A.Iannicelli   
mercoledì, 03 febbraio 2016 16:37
edith fisshof gilboa
edith fisshof gilboa
“Non ho vissuto la mia gioventù e le atrocità patite, in quegli anni, mi hanno segnato per tutta la vita. Le leggi razziali e le persecuzioni mi hanno rubato una parte della mia vita, quella della spensieratezza, dell’amore, dell’allegria.

Sono cose, queste, che dopo più di 75 anni, più di tre generazioni, fanno ancora male. Io sono vecchia ho novantadue anni. Ho vissuto tante cose, alcune belle altre brutte, nella vita. Ma le atrocità passate nel periodo delle leggi razziali mi restano dentro e non sono riuscita a scollarmele di dosso. Non mi posso liberare di un simile ricordo. Mi ha segnato per tutta la vita”.

A raccontare la sua “storia” di ebrea è stata Edith Fischhof Gilboa, 92enne austriaca, che, “dopo un’infanzia dolce e una curata educazione – formazione culturale in un ambiente familiare caldo e protettivo, è stata costretta, a causa delle leggi razziali, a fuggire in Italia.

Edith è  sopravvissuta al campo di internamento di Ferramonti di Tarsia ed è autrice del libro “Colori dell’Arcobaleno sul mare”. Un libro scritto per dare ai suoi figli l’opportunità di conoscere la sua storia. “Non ero capace di parlare con i miei figli della mia storia. Non è facile raccontare la tristezza, l’ingiustizia, le angherie, la persecuzione.  Perciò ho deciso di scrivere il libro sulla mia storia ed è stata anche una liberazione”, ci ha confidato Edith Fischhof Gilboa.  L’abbiamo incontrata a Sibari nel corso dell’incontro avuto con i ragazzi dell’istituto scolastico comprensivo “Zanotti Bianco”. Un incontro organizzato nell’ambito della “Giornata della Memoria”.

Con Edith Fischhof Gilboa abbiamo parlato della sua “triste esperienza” durata poco più di un anno nel campo di interramento di Ferramonti di Tarsia, dove “i prigionieri – ci dice – erano per la maggior parte giovani provenienti da diversi Paesi, ma non mancavano nemmeno delle famiglie con figli piccoli”. Edith entra a Ferramonti nella primavera del 1941, all’età di 18 anni, e ne esce un anno dopo, nell’inverno del 1942. “All’interno del campo, per la verità, – ci dice in un italiano molto comprensibile – non ci hanno costretto a lavorare. Di mattina io, di nascosto, studiavo, anche se mi mancavano i miei libri, mentre la sera facevo i cappellini. Faceva molto caldo e le signore avevano bisogno di copricapo. Ero una brava modista”. Edith, durante quell’anno e più che è rimasta a Ferramonti, si era anche innamorata. “Nonostante il mio guardaroba scadente e gli zoccoli ai piedi avevo trovato anche l’amore”, ci confessa. “Mi ero innamorata di  Wolf, un prigioniero tedesco di 20 anni, studente di filosofia. Non era un fusto. Ma si presentava bene. Aveva riccioli neri e un sorriso affascinante. Nel campo non potevamo incontrarci, ma Wolf, dopo alcune ricerche, riuscì a trovare un angolo nascosto dove poterci vederci.  Una sera ci siamo incontrati. Abbracci e baci. Eravamo felici. Vivevamo la nostra gioventù, ma a un certo punto – ricorda con tristezza – una luce abbagliante puntata in faccia ha interrotto le nostre effusioni. Una guardia ci aveva scovato. Riuscimmo a fuggire e io rientrai,  nella baracca, infelice e triste.

L’amore verso Wolf continuò, ma solamente platonico”, ci dice mestamente Edith Fischhof Gilboa. Tra le cose più brutte che Edith non riesce a dimenticare di Ferramonti è il suo arrivo e, soprattutto, il direttore del campo. “L’entrata nel campo è stata una delle cose più brutte. Appena arrivata mi son vista circondata dal filo spinato. Un cancello di ferro si è aperto per farci entrare e subito entrati si è chiuso dietro di noi. Mi sono sentita in gabbia. Sono entrata nell’ufficio per la registrazione. Un militare mi ha chiesto: Come ti chiami? Mi chiamo Edith, gli risposi e lui di rimando mi disse: Non esiste un nome del genere! Io scrivo Giuditta. Mi avevano levato oltre alla libertà anche l’identità”. Edith nella vita del campo non sopportava le lunghe file e, soprattutto, aspettare sull’attenti, durante l’appello del mattino, l’arrivo del direttore del campo che “era – ci ha confessati – una bella carogna anche se voleva sembrare buono. A volte – ha ricordato – mi prendeva in disparte e mi recitava una poesia spinta o erotica che mi metteva in imbarazzo”.

Ma a Ferramonti non c’erano solo “carogne”, c’erano anche persone buone. “Nel campo – ci ha raccontato Edith –  c’erano bambini piccoli che avevano fame e tante mamme che non potevano allattare i loro piccoli. Grande è stata la solidarietà di alcune guardie e, soprattutto, della popolazione di Tarsia che più volte è venuta ai cancelli a portarci degli alimenti. Anch’io sono stata aiutata più volte da persone che sapevano benissimo di andare incontro a dei grossi pericoli, eppure mi hanno aiutato. Io dico che l’italiano è differente dagli altri, nella maniera più bella che esiste”. Per Edith Fischhof Gilboa una nuova Shoah non è più possibile. “Allora nessuno sapeva cosa succedeva non solo nei campi ma anche nelle singole nazioni, oggi le notizie viaggiano in tempo reale”. Alla fine Edith Fischhof Gilboa ha sostenuto che le cose più importanti sono la Patria, la Famiglia e la Libertà e che spetta a noi fare un mondo migliore. “ Sta a voi creare un mondo più bello e migliore. Agite di testa vostra. Non fate sempre quello che vi ordinano di fare. Mai arrendersi. La vita è bella e va vissuta intensamente”, questo è stato l’appello finale.

Antonio Iannicelli

Quotidiano di calabria

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