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Bugie e imprecisioni sulla storia di Napoli (2) PDF Stampa E-mail
Scritto da A.Della Ragione   
sabato, 09 gennaio 2016 08:00
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Ferdinando II di Borbone
Errori madornali e boiate pazzesche a volontà (2° puntata) - Un'invenzione, creata dalla fertile fantasia del De Dominici, attribuisce al Falcone(fig. 1) ed ai pittori della sua bottega una partecipazione attiva nei rivolgimenti popolari del 1647. Il biografo, oltre a sbagliare la data di nascita e di morte del pittore, racconta che “armati di tutto punto, di giorno giravano uccidendo quanti più spagnoli avessero incontrati, e di notte attendevano a dipingere alacremente, e specialmente a ritrarre le sembianze di Masaniello”.

 Questa favola, a parte i dettagli inverosimili, come la protezione accordata dal Ribera, che, viceversa, si vantò sempre della sua hispanidad e nonostante il silenzio delle numerosissime e particolareggiate cronache di quella rivoluzione, è tra quelle invenzioni che hanno avuto maggior fortuna. Per amor del vero, come accertato dal Faraglia, una Compagnia della morte agì in città, ma alcuni anni dopo, nel 1650, e ne fecero parte malandrini e non pittori.

Passiamo ora ad un errore linguistico nella dizione della dinastia che ha regnato a Napoli dal 1734 al 1861 commesso anche da illustri studiosi, in primis il venerato Benedetto Croce. Anche Alfonso Scirocco, celebre storico specialista di alcuni protagonisti del  nostro Risorgimento, era di questo parere, che espresse anche quando partecipò, alcuni anni orsono, in veste di relatore, al salotto culturale di mia moglie Elvira, nel quale, nel corso del dibattito, gli fu posta la domanda se lui ritenesse più corretta la dizione Borbone(fig. 2) o Borboni ed il professore, senza esitazioni, si pronunciò per la forma al plurale. Un parere in linea con quello del professor Galasso, come ebbi modo di constatare nel corso di una presentazione di un libro alla mitica Saletta rossa Guida a Portalba, mentre Paolo Mieli sposava la tesi del singolare. Ne seguì un colto articolo sul Mattino di Titti Marrone, presente come moderatrice, molto equilibrato, che aveva una conclusione equidistante tra le due ipotesi.

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Aniello Falcone

In seguito ebbi il privilegio di accompagnare Umberto Eco in una visita guidata al museo di Capodimonte e così approfittai per chiedere il suo parere, che fu decisamente per il singolare. Convenimmo di comune accordo che Benedetto Croce era all’origine di questa confusione, perché aveva scritto sull’argomento più volte adoperando il plurale.

Spesso viene citata una lettera di Ferdinando II con la firma Borboni, naturalmente non fa testo, ben conoscendo il livello culturale del sovrano, come pure la lunga disquisizione sulle famiglie europee che acquisiscono la dizione Bourbon al plurale, essendo nozione elementare che alcune lingue, ad esempio inglese o francese, a volte hanno il plurale per i cognomi, errore gravissimo per l’italiano.

A conferma di ciò che pensavo richiesi tempo fa un parere all’ancora attiva ed autorevolissima Accademia della Crusca, la quale si espresse senza esitazioni per la forma singolare, conclusioni che comunicai alla stampa attraverso una lettera,  pubblicata da numerosi giornali, anche non napoletani.

Nonostante questa autorevole dichiarazione, che dovrebbe chiudere definitivamente la questione, sono certo che  la lunga diatriba linguistica continuerà certamente immutata, avendo sulle opposte sponde autorevoli personaggi, da un lato i professori Scirocco e Galasso, dall’altro Mieli ed Eco e troverà una soluzione definitiva solo nel tempo, essendo la nostra una lingua viva, che macina lentamente le parole.
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Lauro e le sue donne

Su Achille Lauro(fig. 3) esistono infinite leggende, ma soprattutto falsità storiche, che solo da poco ed a fatica, anche gli studiosi più autorevoli cominciano a riconoscere e finalmente si potrà scrivere la vera storia del sacco edilizio.

La celebre Tavola Strozzi conservata nel museo di Capodimonte ed ancor più la Veduta di Napoli a volo d’uccello di Didier Barra del museo di San Martino ci mostrano una città densamente urbanizzata già nei secoli scorsi.
Un gigantesco marasma architettonico, un prodigioso spettacolo di entropia edificatoria, che ha lasciato stupefatti ingegneri e sociologi, antropologi e forestieri, principalmente questi ultimi che, quando venivano a visitare la nostra città, soprattutto negli anni del Grand Tour, rimanevano meravigliati alla vista di palazzi a più piani, da loro giudicati veri e propri grattacieli.
Questi antichi dipinti sono la testimonianza visiva di un’edificazione selvaggia che comincia in epoca remota e la cui storia è ignota agli stessi studiosi.
Condoni, sanatorie, demolizioni, leggi stralcio, ricorsi al Tar, la querelle infinita sull’emergenza abusivismo in Campania e non solo nella nostra regione ha una storia antica, che pochi conoscono, perché per anni si è voluto far coincidere, da parte di una storiografia sinistrorsa il sacco della città con gli anni del regno di Lauro.
E per diffondere questo dogma ci si è serviti impunemente di tutti i mass media disponibili, dal cinema alla televisione, dai giornali ai libri ed alla fine addirittura anche della tradizione orale.
Un film cult, come “Le mani sulla città” di Francesco Rosi, girato nel 1963, un plateale falso storico, è stato per decenni adoperato dalle sinistre per propagandare il mito di Lauro speculatore edilizio.
La storia è diversa e nasce nel lontano Cinquecento da una Prammatica di don Pedro da Toledo, che concedeva entro le mura di costruire palazzi di molti piani e non si è mai interrotta fino ai nostri giorni.

Vogliamo provare a raccontarla, soprattutto ai giovani, questa veritiera storia del sacco edilizio, rinviando, per chi volesse approfondirla, ai capitoli ad essa dedicati del mio libro Achille Lauro Superstar (consultabile su Internet).
Partiamo dall’esame della legislazione urbanistica e da alcune considerazioni.
Napoli in questo secolo ha avuto due soli piani regolatori, quello “fascista” del 1939, un vero monumento di armonia tra interessi pubblici e privati, com’è riconosciuto oggi da autorevoli specialisti, di idee non certo nostalgiche, come il preside di architettura Benedetto Gravagnuolo o il professor Massimo Rosi (opinioni raccolte dalla viva voce degli interessati nel corso di riunioni svolte nel salotto culturale di mia moglie Elvira Brunetti) e quello “democratico” del 1972, entrambi mai operativi per la mancata approvazione dei regolamenti di attuazione.
Bisogna precisare che, quando Lauro venne eletto nel 1952 e volle utilizzare a piene mani il “petrolio dei meridionali”, costituito dall’espansione edilizia, la giunta non possedeva un vero e proprio strumento urbanistico, ma un ben più modesto regolamento edilizio, risalente al 1935, stilato da un organo comunale fascista dotato dei più ampi poteri.
Napoli da oltre 50 anni vive in assenza di un qualsivoglia strumento progettuale ed i risultati sono stati, e certamente non solo durante gli anni del laurismo, il disordine edilizio più incontrollato, il cui caotico sviluppo ha tenuto conto solo delle esigenze dei singoli, trascurando, com’è nostra scellerata abitudine, quelli della collettività.
ImageNon si è mai smesso di costruire, basta, per convincersene, recarsi nei quartieri periferici (Soccavo, Pianura, Secondigliano) cresciuti a dismisura o nell’immenso hinterland partenopeo, da Quarto Flegreo ai comuni della penisola sorrentina, che stringe oramai in una morsa implacabile la città, costretta a sopravvivere con densità di popolazione superiore a tutte le più affollate metropoli asiatiche e con un traffico impazzito, con inestricabili ingorghi a croce uncinata, da fare impallidire a confronto qualunque altro concorrente.
Si sono costruite le case le une vicino alle altre, spinti certamente dal profitto, ma anche perché il napoletano, geneticamente abituato al “gomito a gomito”, prova un’intollerabile vertigine quando può allargare lo sguardo su un panorama senza trovare la casa dirimpettaia, senza poter contare su un’economia da vicolo, una socializzazione da cortile, tutto sommato una cultura da casbah.
Solo così possiamo cercare di spiegarci l’esistenza di mostri serpentinosi come via Jannelli o via San Giacomo dei Capri ed altri agglomerati sorti nel Vomero alto, dove i suoli costavano poco o niente e si poteva tranquillamente speculare anche costruendo a distanza più civile gli edifici.
Nonostante il cambio di padrone, l’atmosfera di Palazzo San Giacomo non cambia, perché Correra, commissario prefettizio inviato dal governo per preparare le elezioni, comincia a tessere una trama sottile con l’entourage di costruttori e speculatori che gravitavano intorno al Comandante.
Una vera e propria corte dei miracoli, abituata a feroci contrattazioni sottobanco che cercava di disciplinare attraverso il rubinetto dei fidi e delle fidejussioni bancarie, concesse da istituti di credito, in primis il Banco di Napoli, saldamente in pugno alla Democrazia Cristiana.
Correra doveva gestire per pochi mesi l’ordinaria amministrazione e preparare la nuova consultazione elettorale, regnò viceversa incontrastato per quasi tre anni, divenendo il vero padrone della città.
La febbre edilizia raggiunse temperature da cavallo e ben si espresse nell’erezione del grattacielo della “Cattolica”, in pieno centro cittadino salutata dall’onorevole democristiano Mario Riccio, il medesimo che aveva attaccato in Parlamento Lauro per il suo eccessivo impegno edificatorio, con frasi talmente toccanti da commuovere l’uditorio presente all’inaugurazione.
Tra il numeroso pubblico, impettiti in prima fila i colonnelli del nuovo potere, sordi alle civili proteste, che Francesco Compagna manifestava nei suoi articoli sulla rivista “Nord e Sud”.
Mentre si progettava lo sventramento dei Quartieri Spagnoli per creare un nuovo Rione Carità, le nuove edificazioni cominciano a coprire ogni spazio libero.
Sono questi i veri anni delle “Mani sulla città”, quando costruttori senza scrupoli, trasferitisi in massa dalla corte laurina al nuovo potere, come Mario Ottieri, scaricano sul territorio urbano volumi edificati mai visti in precedenza; per essere più precisi: oltre diecimila vani in meno di due anni per una massa di duecentomila quintali di cemento e quasi cinquantamila di ferro (dati riguardanti il solo Ottieri).
Le sue imprese distruggono l’armonia del centro più antico, come nella storica piazza Mercato dove l’orrendo palazzaccio, sorto in pochi mesi, fa tuttora rivoltare nella tomba i tanti napoletani illustri, alle cui gloriose gesta è legata la sacralità dei luoghi.
Anche nella città nuova, al Vomero, si pongono saldamente le basi della perpetua invivibilità, erigendo monumenti alla vergogna, come la stupefacente “muraglia cinese” di via Aniello Falcone(fig. 4), che ancora oggi molti si ostinano a collegarne la costruzione agli anni delle amministrazioni laurine. (citiamo ad esempio tra i tanti: la “Storia fotografica di Napoli” a cura di Attilio Wanderlingh con testi di Ermanno Corsi oppure il “Vomero” di Giancarlo Alisio, nei quali placidamente si addossa a Lauro la realizzazione della “muraglia cinese”).

Il kafkiano episodio di manomissione fisica del piano regolatore avviene negli anni della gestione Correra.
L’accaduto è noto, ma vale la pena ricordarlo per perpetuarne la memoria.
Le tavole del piano regolatore del 1939, all’epoca vigente, erano conservate in tre esemplari, al Comune, all’Archivio di Stato ed al Ministero dei Lavori Pubblici.
I soliti ignoti, non essendo a conoscenza della terza copia, depositata a Roma, agiscono in più tempi impunemente sulle prime due, cambiando a più riprese i colori che identificano la destinazione delle varie aree della città.
Il verde delle zone agricole diventa così il giallo delle zone edificatorie. Un caso emblematico è costituito dai terreni dove sorgerà il Secondo Policlinico, che, comprati per tre soldi, frutteranno cifrei perboliche agli speculatori.
I mandanti di queste continue manomissioni, ai limiti dell’incredulità, si procacciano preventivamente a prezzo vile i terreni agricoli e poi, dopo il colpo di bacchetta magica, anzi di pastello, scaricano milioni di metri cubi di palazzi sui suoli rigenerati, guadagnando cifre da capogiro.
L’intrallazzo andò avanti a lungo, fino a quando, fortuitamente, venne scoperta l’esistenza della terza copia. Fu quindi aperto un procedimento penale, ma naturalmente i colpevoli non furono mai identificati, rimanendo perciò impuniti, anche se tutti sapevano chi fossero.
Una vicenda assolutamente irripetibile nella storia urbanistica di qualunque città.
Don Alfredo (Correra) creò allora un’arma ancora più micidiale, che dava tra l’altro un’etichetta di legalità al comportamento degli speculatori edilizi. Diede infatti luogo ad un numero imprecisato di deroghe al piano regolatore da lui stesso proposto.
Erano le famigerate e troppo presto dimenticate “varianti Correra” che legalizzeranno ogni tipo di scempio perpetrato dai costruttori.
Il commissario prefettizio si serviva infatti di un escamotage che è stato rivelato dall’urbanista Antonio Guizzi, il quale, per inciso, fu consulente per la sceneggiatura del film “Le mani sulla città” e per anni si è battuto, inascoltato dai mass media, per ripristinare la verità storica su quegli anni difficili per la nostra città.
Le licenze venivano concesse in variazione al piano regolatore cittadino e cominciavano tutte in tal guisa: “Visto il voto espresso il 26 luglio1958 dal consiglio superiore dei lavori pubblici, si rilascia…”.
A pagare un perpetuo tributo a questo scellerato comportamento sarà tutta la città, che ancora oggi, dopo oltre quarant’anni, soffre per quei lontani abusi.
In particolare ne uscirono devastati i quartieri più moderni: Posillipo, Vomero, Arenella e Fuorigrotta.
Mentre nelle fertili campagne di Soccavo si mette mano ai primi lavori per la nascita del rione Traiano, nel 1960 il prefetto Correra, rinnova una convenzione con la Speme, una società nata per urbanizzare la collina di Posillipo, non senza averla dotata preliminarmente della quarta funicolare.
Il sodalizio doveva costruire palazzine popolari per dare una casa ai pescatori e ai contadini e a tale scopo godeva anche di esenzioni fiscali e di sovvenzioni pubbliche, ma, strada facendo, realizzò parchi residenziali con rifiniture di lusso e prezzi di vendita che raggiungevano i dieci milioni a vano, fuori dalla portata dei ceti meno abbienti.
La Speme riesce anche ad ottenere il permesso di raddoppiare quasi l’altezza degli edifici e in pochi anni completa sulla collina, cara agli ozi degli antichi romani, oltre quindicimila vani.
Finalmente si riesce a definire la data delle nuove consultazioni elettorali: il 6 novembre, dopo quasi tre anni di commissariamento. Un vero scandalo!
Ma la speculazione continuerà imperterrita fino ai nostri giorni, vedendo criminalità organizzata e politici collusi.
Ma non è più storia, ma cronaca… ed i risultati sono sotto i nostri occhi.

Trattiamo ora di un argomento gastronomico e parliamo della celebre (in tutto il mondo) pizza margherita (fig. 5).
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La pizza margherita

La pizza Margherita deve il suo nome alla regina Margherita di Savoia. Infatti fu Raffaele Esposito, pizzaiolo della pizzeria Brandi, tutt'ora in attività, a creare questa pizza nel 1889 in onore della regina, in visita nella città di Napoli. Condita con pomodoro, mozzarella e basilico che rappresentavano la bandiera italiana, delle tre pizze create dal pizzaiolo napoletano per l'evento, la Margherita fu la più apprezzata dalla regina.

La leggenda, perché di questo si tratta, come ha di recente dimostrato un giovane quanto valente napoletanista: Angelo Forgione, la troviamo in tutti i libri, oltre che nelle pubblicità della pizzeria interessata alla notorietà, a tal punto che la stessa Coldiretti, tempo fa ne festeggiò il 125 anniversario dalla creazione, ricordando una lettera del capo dei servizi di tavola della Real Casa Camillo Galli, che nel giugno del 1889 convocò il cuoco Raffaele Esposito della pizzeria “Pietro… e basta così” al Palazzo di Capodimonte, residenza estiva della famiglia reale, perché preparasse per sua Maestà la regina Margherita le sue famose tre pizze.

Ma, come attestato da ormai noti testi ottocenteschi, Raffaele Esposito, in quell'occasione non inventò la pizza con pomodoro, basilico e mozzarella ma la fece semplicemente conoscere alla sovrana piemontese.

Già nel 1849, infatti, il filologo Emmanuele Rocco, nel curare il capitolo “Il pizzaiolo” del libro Usi e costumi di Napoli e contorni descritti e dipinti, coordinato da Francesco de Bourcard, parlò di combinazioni di condimento con ingredienti vari, tra i quali basilico, “pomidoro” e “sottili fette di muzzarella”.
E le fette, distribuite con disposizione radiale, disegnavano verosimilmente il celebre fiore di campo caro agli innamorati su una pizza che Raffaele Esposito avrebbe proposto 40 anni dopo alla regina sabauda.

Un’altra conferma a questa tesi ci viene dal libro Napoli, contorni e dintorni del Riccio, pubblicato nel 1830, nel quale viene descritta accuratamente una pizza con pomodoro, mozzarella e basilico.

Del resto la produzione della mozzarella fu stimolata nei laboratori della Reale Industria della Pagliata delle Bufale di Carditello, un innovativo laboratorio avviato già nel 1780, mentre il pomodoro giunse dall’America latina intorno al 1770, in dono al Regno di Napoli dal vicereame del Perù, e ne fu subito radicata la coltura nelle terre tra Napoli e Salerno, dove la fertilità del terreno vulcanico produsse una gustosa varietà.

Questa realtà storica la troviamo recepita nel Regolamento UE n. 97/2010 della Commissione Europea riportato nella Gazzetta Ufficiale del 5 febbraio 2010 accreditante la denominazione Pizza Napoletana STG nel registro delle specialità tradizionali garantite, che al punto 3.8 dell’Allegato II, riporta testualmente:
“Le pizze più popolari e famose a Napoli erano la “marinara”, nata nel 1734, e la “margherita”, del 1796-1810, che venne offerta alla regina d’Italia in visita a Napoli nel 1889 proprio per il colore dei suoi condimenti (pomodoro, mozzarella e basilico) che ricordano i colori della bandiera italiana.

Dobbiamo concludere immaginando che la propaganda sabauda non volle lasciarsi sfuggire l’opportunità di apporre il suo marchio sul simbolo culinario della grande capitale conquistata ed annessa.

Achille della Ragione

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