Vangelo di domenica 16 Novembre |
Scritto da don Michele | |
sabato, 15 novembre 2014 09:38 | |
Dal Vangelo di Gesù Cristo secondo Matteo 25,14-30 - In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli questa parabola: «Un uomo, partendo per un viaggio, chiamò i suoi servi e consegnò loro i suoi beni. A uno diede cinque talenti, a un altro due, a un altro uno, a ciascuno secondo la sua capacità, e partì. Colui che aveva ricevuto cinque talenti, andò subito a impiegarli e ne guadagnò altri cinque. Così anche quello che ne aveva ricevuti due, ne guadagnò altri due. Colui invece che aveva ricevuto un solo talento, andò a fare una buca nel terreno e vi nascose il denaro del suo padrone. Dopo molto tempo il padrone di quei servi tornò, e volle regolare i conti con loro. In coda il commento di mons. Bertolone arcivescovo di Catanzaro Colui che aveva ricevuto cinque talenti, ne presentò altri cinque, dicendo: Signore, mi hai consegnato cinque talenti; ecco, ne ho guadagnati altri cinque.Bene, servo buono e fedele, gli disse il suo padrone, sei stato fedele nel poco, ti darò autorità su molto; prendi parte alla gioia del tuo padrone. Presentatosi poi colui che aveva ricevuto due talenti, disse: Signore, mi hai consegnato due talenti; vedi, ne ho guadagnati altri due. Bene, servo buono e fedele, gli rispose il padrone, sei stato fedele nel poco, ti darò autorità su molto; prendi parte alla gioia del tuo padrone. Venuto infine colui che aveva ricevuto un solo talento, disse: Signore, so che sei un uomo duro, che mieti dove non hai seminato e raccogli dove non hai sparso; per paura andai a nascondere il tuo talento sotterra; ecco qui il tuo. Il padrone gli rispose: Servo malvagio e infingardo, sapevi che mieto dove non ho seminato e raccolgo dove non ho sparso; avresti dovuto affidare il mio denaro ai banchieri e così, ritornando, avrei ritirato il mio con l'interesse.
XXXIII Domenica del T.O. A 16 novembre 2014 Quella che ci viene presentata nella pagina del Vangelo di questa domenica è una parabola particolarmente nota, tant’è che il termine “talento” è entrato nel linguaggio comune e viene utilizzato sistematicamente per esprimere la particolare capacità di una persona in uno o in più determinati ambiti. I contesti nei quali viene utilizzato il termine, tuttavia, non sempre – o quasi mai! – esprimono la verità parabolica che il Signore Gesù voleva esprimere ricorrendo ad un tale racconto.
Spesso, infatti, accade che i talenti che ci riconosciamo (e che anche altri ci riconoscono) vengono ben presto “sotterrati”! Forse a qualcuno potrebbe sembrare azzardata una tale affermazione: in fondo, noi non scaviamo buche e quasi sempre utilizziamo i talenti che abbiamo! Una lettura più attenta della parabola, però, anche alla luce delle altre due letture che ci vengono proposte, può aiutarci a smascherare ogni nostro perbenismo ed ogni nostra ipocrisia! Non siamo “sotterratori” di talenti, infatti, solo quando non li utilizziamo, ma soprattutto quando li utilizziamo male! Sì, perché a volte il nostro modo di vivere potrebbe anche farci pensare – addormentando le nostre coscienze – di essere dei bravi “investitori” di talenti, ma in realtà il nostro modo di fare può mascherare il nostro essere paurosi ed egoistici “sotterratori”. Potrebbe risultarci utile provare a dare nome alle nostre modalità di sotterrare talenti, che sono tra loro correlate. La prima modalità è l’interesse e il tornaconto personale. Il ragionamento che si cela dietro una tale modalità è il seguente: investo il mio talento nella misura in cui me ne viene qualcosa a livello di affermazione personale, riconoscenza, notorietà, compenso economico. È l’assoluta incapacità di gratuità! È assoluta mancanza di attenzione agli altri! È una vita completamente ripiegata su se stessa! Apparentemente ci sembra di salire scale, ma in realtà ci si scava una fossa per se e per il proprio talento. La seconda modalità è la “smemoratezza”. Il talento che ci riconosciamo/ci viene riconosciuto non ha origine in noi, ma ci è stato affidato: ne siamo gli amministratori, non i padroni! La mancanza di “memoria del dono”, infatti, è una delle cause del nostro egoistico ed interessato modo di sotterrare i talenti. Il talento non ci appartiene, non è a nostro esclusivo uso e consumo, perciò dobbiamo necessariamente investirlo, mettendolo a servizio degli altri! La terza modalità è l’irresponsabilità, cioè la non capacità di “rendere conto”. Poiché il talento/i talenti c’è stato/ci sono stati affidato/affidati – e non ci appartiene/appartengono – prima o poi ne dobbiamo rispondere: il padrone – l’unico a cui appartengono tutti i talenti! – tornerà e vorrà regolare i conti con noi. Ci chiederà che “uso” ne abbiamo fatto e noi ne dovremo necessariamente rispondere, dovremo rendergli conto! Dalla nostra capacità di responsabilità e dalla nostra fedeltà al dono – e al Donatore – dipenderà la nostra sorte! Il giudizio del Padrone, infatti, sarà semplicemente la “constatazione” della nostra “amministrazione”. Il premio o il “castigo”, in definitiva, siamo noi a sceglierlo ogni giorno, con le nostre scelte, con il nostro impegno, con il nostro “investire” o “sotterrare”. Che tipo di servi siamo e saremo? Buoni e fedeli o inutili egoisti? Il Libro dei Proverbi, nella prima lettura, ci addita l’esempio della “donna forte”, a cui tutti dovremmo assomigliare! In noi, infatti, il Signore “confida” e noi dobbiamo dargli “felicità e non dispiacere”, attraverso la nostra laboriosità, attraverso le nostre “palme aperte al misero” e le nostre “mani stese al povero”. Solo così il giorno del Signore non ci sorprenderà come un ladro, ma ci troverà “vigili e sobri”, come “figli delle luce”. E, venendo, potrà dirci gioioso: “Bene, servo buono e fedele, sei stato fedele nel poco, ti darò potere su molto; prendi parte alla gioia del tuo padrone”. Amen. don Michele Munno cliccare quì per il foglio d'informazioni della Parrocchia di San Giuseppe in Sibari
XXXIII Domenica del Tempo Ordinario 16 novembre 2014 Io dono di Dio Introduzione Oggi, Gesù, con la parabola dei talenti, ci invita all’impegno personale, all’operosità nelle piccole cose per realizzare già qui e ora il progetto di Dio per l’uomo e per il mondo: la nostra salvezza. Una meravigliosa opera che non costa molto né richiede tanti sforzi per realizzarla. C’è bisogno di poco e quel poco non dipende tutto da noi: si inizia con un dono di Dio, manifestazione d’amore e pegno di salvezza e si arriva a noi, alla nostra parte, che è volontà creativa, appassionata e fiduciosa, dono che si manifesta donandosi. Il solo sacrificio richiesto è il coraggio del rischio di trovare espressioni nuove, immagini, preghiere, gesti, percorsi narrativi che facciano circolare il bellissimo segreto di cui ci ha fatti partecipi Dio: il dono della vita e dell’amore, verità ultime del nostro stesso esistere. Il simbolo del talento Anche in questa domenica, ci troviamo davanti ad un quadretto delicato di immagini da interpretare e capire: un messaggio in parabole da decodificare per coglierne tutta la ricchezza e la bontà; un messaggio che è nutrimento dell’anima in cammino alla luce della verità. Così scopriamo che nel racconto di Gesù si intrecciano due dimensioni: la prima é l’accoglienza operosa del dono di Dio: il talento; la seconda è far fruttificare questo talento. La prima dimensione parla dell’iniziativa di Dio, di un dono che Egli dà a tutti. Esso ci precede nella vita, è lì con noi al momento della nostra nascita, ci aspetta per essere accolto solo da noi perché si moltiplichi e porti frutto. Nessuno nasce senza il proprio dono. È la legge stessa della creazione: si nasce avvolti, penetrati dal dono di Dio, che nell’arco di una vita si moltiplica in tanti altri doni. Quindi il primo appello che Gesù ci rivolge in questa domenica è di riconoscere e accogliere attivamente il dono di Dio, che è dono di vita e di salvezza. Alla vita e alla certezza della salvezza Gesù invita ad aprire totalmente il cuore e le mani. Il resto verrà da sé. Se non ci fosse questa prima iniziativa divina, l’uomo rischierebbe di restare impigliato nelle maglie insidiose delle cose futili dei suoi steccati. Invece Dio irrompe con il suo dono di salvezza e di amore che per ogni uomo si manifesta e si esprime in tanti modi diversi. L’offerta del talento è unica per tutti, ma il modo in cui si manifesta è diverso per ogni uomo: in altri termini, il Regno non ha un solo volto, assume tratti diversi perché la salvezza di Dio giunge per vie a noi ignote e, spesso, inattese. La seconda dimensione della parabola è quella del dono da far fruttificare. Nella prima lettura la donna perfetta fa fruttificare il suo dono condividendolo con il misero: ella stende la mano al povero. Nel salmo il frutto si trasformò in appello, “vivere del lavoro delle nostre mani”, cercando di creare una famiglia serena e benedetta. Nell’invito di Paolo ai cristiani di Tessalonica, far fruttificare il dono di Dio equivale a vivere da “figli della luce e del giorno”, senza lasciarsi cogliere dalla tentazione del sonno e dell’inerzia. Significa anche impegnarsi a tenere le mani aperte pronte a donare. Il talento, infatti, non è una perla da custodire gelosamente in uno scrigno, né è da restituire, ma da rilanciare, da far crescere. Noi non esistiamo per restituire a Dio il suo talento, noi viviamo per essere come Lui, a nostra volta donatori: creature di Dio che diventano seme di altri doni, sorgente di energie, alberi che crescono, orizzonti che si dilatano. Il talento è realtà di grazia e di fede, cioè dell’azione divina e della risposta gioiosa dell’uomo, pronto ad assumere rischi e ad affrontare difficoltà per amore; è la pietra di paragone di una genuina religiosità che coinvolge tutto l’essere dell’uomo nel suo dialogo col Signore che lo chiama a partecipare alla costruzione del Regno. Fedele nel poco Primo dono di Dio è la salvezza, ma la salvezza per compiersi ha bisogno di altri doni da mettere a frutto, da far germogliare. Così, a ben guardare, l’unico dono si moltiplica, si dilata. Assume volti, colori, profumi, sapori diversi perché possa arrivare a tutti, possa farsi avvicinare da tutti per essere accolta da tutti. Dono da cui farsi sfiorare ed accogliere, è la parola stessa di Dio. Noi l’abbiamo ricevuta sin da piccoli, ma se l’abbiamo custodita dentro come una memoria da difendere contro l’erosione del tempo, vuol dire che l’abbiamo seppellita, dimenticando che invece essa ama l’avventura, è viva, bruciante; è grido da far vibrare dentro le parole degli uomini; è speranza da confidare a tanti cuori disperati. È Parola di seme, di lievito, di talento, di inizi che devono fiorire. A noi tocca il lavoro paziente e intelligente di chi ha cura dei germogli. Dio è la primavera del cosmo, a noi il compito di esserne l’estate feconda dei frutti. Il mondo e la vita sono doni che ci sono stati affidati dalle mani di Dio perché li facessimo crescere, come fossero giardino incompiuto da curare e amare e da far fiorire. Una spirale di vita crescente è legge d’amore, è legge di creazione, diversamente il giardino inaridisce e muore: la vita si riempie di vuoto, di sterile non senso. Ma non su quanto abbiamo fatto per far fiorire la vita e il mondo saremo giudicati: l’esame finale sarà sulla qualità del nostro impegno. In altri termini saremo chiamati a rendere conto della qualità del nostro servizio, della misura di passione, di energia e dedizione che si sono spesi per contribuire a far rifiorire i tanti deserti dell’uomo e del mondo. Il Regno di Dio non esige che noi si vada oltre le nostre possibilità, ma premia la fedeltà nel poco: “Ciò che io posso fare è solo una goccia nell’oceano, ma è questa goccia che dà senso alla mia vita” (A. Schweitzer). Dono di Dio è ogni creatura che s’incontra: “come talento io ho ricevuto te”, lo può dire la sposa allo sposo, il figlio al padre, la madre al figlio, il fratello al fratello e l’amico all’amica. Poterlo dire a qualcuno, poterlo dire a molti significa entrare con estro creatore nella liturgia della vita, che diventa così anticipazione sulla terra di un angolo di Paradiso. Il Paradiso sulla terra dunque, si nutre dei nostri doni, della nostra vita bella e coraggiosa, appassionata e creativa; una vita che in ogni gesto e parola spande il profumo di una santità donata e contagiosa, di una santità divina. Se imparassimo a riconoscere il dono che è in noi, ogni giorno si illuminerebbe della stessa luce del mattino di Pasqua. Conclusione Un racconto chassidico dice: “Quel giorno non mi sarà chiesto perché non sono stato come Mosè o Elia o uno dei profeti. Ma solo perché non sono stato me stesso”. Quando il Signore ci chiamerà a sé non ci chiederà quanto abbiamo fatto, ma come l’abbiamo fatto, e questo ci dovrebbe riempire di speranza, perché vuol dire che la strada per la santità non si traccia con azioni eroiche e sovrumane, ma con la semplicità delle cose piccole che profumano di casa, di amici, di affetti familiari. Dobbiamo camminare con fedeltà verso Dio, emozionati e disciplinati servi della vita, forti della verità tracciata in noi da Dio. Serena domenica + Vincenzo Bertolone
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