Cassano nel '500 |
Scritto da G.La Padula | |
martedì, 23 luglio 2013 18:45 | |
Continuiamo la pubblicazione degli articoli apparsi sull'ultimo numero del "Simposio" la rivista edita dal Liceo Lombardi-Satriani. E' la volta dell'interessantissimo intervento del prof. Giuseppe La Padula, che, tra l'altro, ricordiamo, è il coordinatore della pubblicazione, il quale tratta della situazione socio-economica in cui si trovava la città di Cassano nel 1500. Un secolo molto importante per la storia non solo europea, ma del mondo intero. Il prof. La Padula insegna storia e filosofia presso il nostro liceo e sta compiendo da diversi anni approfonditi studi e ricerche sulla storia del nostro territorio, il lungo articolo che andiamo ad offrire ai nostri webnauti è un piccolo esempio della sua attività storica portata avanti con grande dedizione e meticolosità del ricercatore serio che bada alla veridicità delle fonti. Trattandosi di un periodo lungo ben cento anni, la trattazione non poteva ridursi a poche pagine e avremmo voluto pubblicare l'articolo in diverse puntate, ma poi lo staff di redazione ha deciso altrimenti, per poter dare l'opportunità agli appassionati della nostra storia di poterlo scaricare per intero e leggerlo magari sotto l'ombrellone. BUONA LETTURA(foto: Mappa provincia cosentina del '700, tratta dall'archivio dell'avv.Rinaldo Chidichimo - cliccarci sopra per ingrandire)
Storia, società ed economia nel territorio di Cassano nel 1500. - 1 L’Europa del Cinquecento è caratterizzata da una serie di grandi avvenimenti, alcuni dei quali, la “rivolta” di Lutero nel 1517 contro le “indulgenze”; la riforma di Calvino, la separazione dal cattolicesimo dell’Inghilterra, con Enrico VIII Tudor, e la fine dell’unità religiosa; la costituzione dei grandi Stati nazionali e la crisi degli Stati regionali italiani; il duello imperiale tra Carlo V ed il re di Francia, Francesco I, per il predominio in Italia ed in Europa; l’apertura di nuove rotte commerciali, conseguenti alle “scoperte” di Cristoforo Colombo, con il lento e progressivo ridimensionamento del commercio mediterraneo, saranno destinati ad incidere profondamente per un periodo di “lunga durata” non solo sul contesto generale europeo ma anche sulle strutture politiche, economiche e sociali degli Stati italiani. Il Regno di Napoli e gli altri stati della penisola, già alla fine del 1400, vengono direttamente coinvolti nella lotta tra Spagna e Francia per il predominio in Europa, allorché Carlo VIII, re di Francia, dopo essersi assicurato con onerosi trattati la neutralità dell'Inghilterra e della Spagna, intraprende una spedizione in Italia che lo porta, nel 1495, alla conquista del Regno, facilitato dalle endemiche rivalità e dalla debolezza degli Stati italiani. La facilità con cui il Re francese aveva attraversato tutta la Penisola senza incontrare resistenza alcuna è il segnale di una lenta decadenza degli stessi che decreta in modo definitivo la fine dell’autonomia degli stati regionali italiani, impossibilitati a reggere l’urto dei grandi Stati nazionali. Il pericolo rappresentato dalla forza del re di Francia aveva, tuttavia, allarmato anche le altre potenze europee, che avevano aderito, sotto la guida del papa Alessandro VI, ad una formidabile coalizione che comprendeva l'imperatore Massimiliano, la Spagna, Venezia e Ludovico il Moro, duca di Milano, che, vista la situazione, non aveva esitato ad abbandonare l’antico alleato ed a partecipare alla Lega. Carlo VIII, intuito il pericolo a cui era esposto, è costretto a riprendere la via della Francia che riesce a raggiungere, nonostante la sconfitta subita a Fornovo (6 luglio 1495) ad opera degli eserciti della Lega nel vano tentativo di impedirgli il ritorno in patria. La strada verso l’Italia era stata, comunque, aperta e sarà percorsa, con alterne fortune, dalle potenze europee fino alle guerre del Risorgimento. Tramonta definitivamente la strategia legata al mantenimento di un equilibrio più o meno stabile che, faticosamente raggiunto con la pace di Lodi del 1454, aveva comunque assicurato un “modus vivendi” per quarant’anni, ma che si era rivelato, anche per le patologiche discordie e l’endemica conflittualità dei soggetti che l’avevano costituito, estremamente fragile e superato dalle grandi aggregazioni territoriali costituitesi in Europa. Inizia un periodo difficile e complesso per la storia d’Italia, le cui vicende politiche saranno sempre più determinate dalle grandi monarchie europee che, di volta in volta, come abbiamo scritto prima, se ne contenderanno il predominio. La presenza del re di Francia nell’Italia meridionale aveva incoraggiato anche una serie di rivendicazioni da parte di quella nobiltà filo angioina che mal sopportava il dominio spagnolo e pensava di ritagliarsi ulteriori spazi di potere parteggiando per la Francia e dimostrando nei confronti di essa forti simpatie politiche. Successivamente, simpatie filo francesi saranno manifestate dai ceti “borghesi” che avranno un ruolo molto attivo nelle rivolte antispagnole di Napoli, della Calabria Citra, ed in modo particolare di Cassano nel 1647-49, così come antispagnole erano state le rivolte degli ultimi decenni del 1500 che avevano visto anche il favore del filosofo Tommaso Campanella, che, accusato di eresia e di alto tradimento, sarà rinchiuso per ventisette anni nelle carceri dei Castelli di Napoli subendo torture inenarrabili. Il Filosofo, dopo avere riposto invano la sua fiducia nella Monarchia spagnola, guarda con fiducia alla Francia e spera che da essa possa venire quella rivoluzione che avrebbe dovuto cambiare il mondo. Particolarmente dura è la denuncia del Filosofo calabrese della esosità fiscale non solo degli spagnoli ma anche, in parte, dei baroni locali. Campanella, si fa interprete delle esigenze più popolari e ha parole
La vivacità del commercio della farina si colloca, ovviamente, nella più ampia dimensione produttiva cerealicola costituita dall’azienda agricola di Gadella, nel feudo omonimo, che con il suo maestoso magazzino per la conservazione dei cereali, si trova nel territorio di Cassano, al centro della vasta pianura di Sibari. Alla fine del XVIII secolo il Giustiniani, nel Dizionario geografico ragionato del Regno di Napoli scrive che “nel mezzo della Gadella, che è una vasta pianura, vi è un magnifico magazzino, capace di conservare 60.000 tomoli di grano” Biagio Lanza, nella “Monografia della Città di Cassano”, esalta l’importanza del magazzino di Gadella “Questo rinomato magazzino, costruito nella pianura omonima per depositarvi i molti prodotti di quei vasti territorii, ha la figura rettangolare della lunghezza di palmi seicento, sopra la larghezza di palmi ottantadue, diviso in tre navate, ognuno formata da sedici archi, ed è capace a poter contenere centomila tomola di grano”. L’importanza economica di Gadella è ricordata sempre dal Lanza “…la fertilità non comune della nostra rinomata Gadella, tenimento formato da molte migliaia di moggia” ed ancora, riferendosi al territorio di Cassano, parla di Gadella come “tenimento di fertilità inesauribile”. Ancora, sempre il Colapietra, manifesta la sua ammirazione con questi termini“…e finalmente la famosa Gadella, estesa 10 mila tomolate ed in grado di fornire altrettanti tomoli di grano, larga un miglio e mezzo, aperta per la semina ai contadini di Corigliano, Terranova e Spezzano, sulla base di un fitto in natura di 2 tomoli di grano per ogni tomolata seminata, sicché solo il diritto della spica fornisce 2.500 ducati, fittata per 9.300, dati, questi si precisa complessivamente, aggiornati al marzo 1613 e che costituiscono il minimo della stima”. Gadella si pone, quindi, come uno dei grandi centri della produzione cerealicola di tutta la regione, rivendica un posto importante nella economia di tutto il territorio e può essere considerata una delle prime aziende, in Calabria, a vantare una conduzione di tipo capitalistico. In questo senso viene dimensionata, come vedremo meglio in seguito, da alcuni studiosi come Galasso e Brasacchio, soggetta alle leggi del mercato ed ad una economia non di sussistenza coniugando la produzione del grande latifondo con le nuove regole ed esigenze della economia mercantile. Del resto, ad avviso del Galasso, l’esperienza di Gadella non doveva essere un fatto isolato come esperimento di produzione di tipo capitalistico, anche se le fonti sono piuttosto avare di indicazioni in questo senso. Un’altra azienda agricola, studiata dal Galasso e che ha forti affinità con Gadella è quella di Ravello, su cui, anzi, le notizie sono ancora più circostanziate, e che terremo certamente presente pur non rientrando direttamente in questo studio. Dalla documentazione in nostro possesso siamo nelle condizioni di leggere le vicende del nostro territorio in modo più concreto e realistico e di potere comprendere come in alcuni periodi della nostra storia, accanto a fenomeni macroscopici e gravi di sfruttamento, si siano innescati virtuosi processi produttivi che hanno portato alla formazione di una classe bracciantile, mobile e non legata al singolo tenimento feudale. Parlare di mobilità non vuol dire, però, che ai braccianti venisse riconosciuta anche la possibilità di “contrattare” le prestazioni lavorative, in quanto i proprietari, per evitare che la manodopera si offrisse al migliore offerente alzando pericolosamente il prezzo delle giornate ed innescando, per essi, una pericolosa competizione, stabilivano delle tariffe fisse che erano del tutto impossibile aggirare. “Il lavoratore era libero di vendere la sua forza-lavoro, ma non poteva contrattarne liberamente il prezzo. I suoi rapporti con il datore di lavoro erano infatti rigidamente regolamentati, su base generale o locale, non solo per quanto riguarda la giornata lavorativa, ma anche per quanto riguarda l’entità del salario e le forme di pagamento […]. Il salario doveva essere pagato alla fine della giornata di lavoro, prima del tramonto del sole”. Anche se le leggi generali, a volte, venivano integrate dalle consuetudini locali, lo schema di riferimento del sistema resta quello descritto. Sui cambiamenti delle condizioni giuridiche dei contadini è opportuno, tuttavia, ricordare che già nella seconda metà del XV secolo si assiste alla trasformazione della “servitù della gleba” in “villanaggio”, formula che Galasso mutua da Cassandro e che viene considerata di estrema importanza per i grandi mutamenti sociali che essa comporta “…la popolazione rurale sarà ora indicata con l’unico termine di vassalli, che bene esprime la natura soltanto giurisdizionale e non più anche personale del dominio esercitato su di essa dal signore […]. Nell’epoca seguente, quando accade che le popolazioni cittadine e rurali protestino per le imposizioni di servizi a loro danno, questi sono chiaramente servizi richiesti ai cittadini uti universi, non ai singoli uti singuli per la qualità della loro persona. E quando ci imbattiamo in elenchi rurali con l’indicazione di servizi da essi dovuti, appare chiaro che i servizi sono la conseguenza del godimento di determinate terre, sono relative alla terra, non alla persona che su di essa vive”. Tuttavia, non mancano, specie nel XVII secolo, i soprusi e il ripristino di alcuni obblighi personali “Anche se la servitù non esiste più, anche se i vassalli sono liberi di muoversi, di alienare le terre dopo avere assolto agli obblighi contrattuali, […], gli oneri personali acquistano un rigore nuovo che la feudalità impone attraverso un potere giurisdizionale molto ampio, […] , essi feriscono spesso l’onore e l’orgoglio di una popolazione tradizionalmente fiera e puntigliosa e determinano un odio profondo che alimenta il brigantaggio ed il fenomeno dei rinnegati”. Queste considerazioni, fatte per l’intera regione, valgono bene anche per il nostro territorio. Va, tuttavia, considerato il fatto che i latifondi non hanno tutti la stessa conduzione ed amministrazione di Gadella, ma ciò rappresenta una ragione in più per capirne le caratteristiche e coglierne gli aspetti essenziali. Cerchiamo, però, di rispondere alla domanda di fondo: come è organizzata la produzione nella tenuta di Gadella e quali sono gli aspetti che consentono di parlare di conduzione di tipo capitalistico? Prima di entrare nei dettagli è importante analizzare alcuni aspetti della conduzione complessiva della cerealicoltura nella nostra regione. A fornirci contributi interessanti al riguardo è sempre Galasso che in tal modo descrive la situazione: “ Di solito si divideva il periodo di affitto in due parti: una di“ fermo” ed una di “rispetto”, trascorsa la prima delle quali era in facoltà del conduttore proseguire o meno il suo impegno. I fondi, come in genere tutte le specie di aziende agricole e quelle di allevamento, venivano locati con tutto il corredo di attrezzi e di edifici ( nonché di bestiame ) che vi si trovava, e le spese per la relativa manutenzione era a carico del locatore. Anche questa era una facilitazione considerevole per l’attività del conduttore [ …..]. Una facilitazione deve pure essere considerata la consuetudine di dividere i fondi maggiori in più parti. Infatti, anche se al diffondersi di questa consuetudine concorreva innanzi tutto l’interesse del proprietario a fittare << in tenute invece che a ragione di feghi et a massa grande ad uno solo >> , ciò consentiva, per altro verso, la formazione di più folti ceti di piccoli e medi imprenditori e coltivatori in proprio”. I “feghi” erano territori molto grandi, mentre le “tenute” e le “chiuse” erano territori piccoli e poderi nei quali venivano divisi i feghi. Si capisce bene che dare in affitto terre divise in tenute e chiuse, anziché in feghi era molto più redditizio per i proprietari terrieri. Brasacchio, tuttavia, ritiene che “ L’affitto capitalistico di solito si attua << a ragione di feghi et a massa grande ad uno solo >> e può comprendere oltre alle terre nude, anche capitali di scorta. In tal caso, oltre al canone per la terra locata in natura, in denaro, in forma mista, il locatore è tenuto a pagare al concedente gli interessi sui capitali di scorta e sulle eventuali anticipazioni.[…]. E’ da presumere che l’affitto capitalistico “ a cancello chiuso”, con le scorte vive e morte, deve riguardare soprattutto le grandi aziende baronali, che per motivi contingenti sono cedute in locazione. Più frequente è, invece, il caso dell’affitto della terra nuda” . Il ricorso alle fittanze di tenute più o meno grandi doveva, quindi, rilevarsi un formidabile sistema di “raccolta” di capitali e di accumulo delle rendite legate alla proprietà fondiaria. I fondi ed in generale le aziende agricole e quelle di allevamento venivano locati con tutte le attrezzature necessarie, gli edifici ed il bestiame che vi si trovavano; quando gli attrezzi non esistevano o erano insufficienti era il fittuario a provvedere all’acquisto degli stessi. Gadella, che nel 1584 era proprietà dei principi di Bisignano, viene data in fitto per sei anni, per 7.566 ducati l’anno, ad Andrea Pugliese, Mario Doni e compagni, doveva rientrare nel caso delle “terre nude”. Galasso ci ricorda, sempre per quel che riguarda l’affitto di Gadella, gli obblighi e le spese che avevano i fittuari, i quali come i “ conduttori, per necessaria cultura di detto feudo e per l’industrie di masserie che avevano designito di fare in quello comprorno bovi centocinquanta e di vacche duecento, e porci quattrocento per prezzo in tutto de ducati cinquemila in circa, et in strumenti per l’agricoltura et altri stigli a simili negotii necessarii di valore di ducento ducati in circa transportando detti stigli et instromenti in detto feudo, cominciando a servirsene con il mezzo di garzoni e massari in detta cultura del feudo”. Le spese effettuate per le esigenze della conduzione ammontano, complessivamente, ad un valore di circa 5.200 ducati, più del 10% della spesa globale prevista per il canone per i sei anni di locazione. Ne viene fuori, come si vede, un quadro della situazione molto sostenuto come impegno economico. Ora, se andiamo a vedere l’utile netto che si ricava negli anni 1579-80 e 1580-81 , notiamo che esso è pari a 900 ducati per il primo anno e di 600 ducati nel secondo anno “…rispettivamente circa il 30 e circa il 25% del capitale di esercizio” . Dai dati risulta un ricavo economico notevole che conferma “… la fondatezza dell’interesse economico e imprenditoriale […] portato dai ceti mercantili alla grande proprietà feudale. […] L’orientamento verso il grande mercato è, quindi, una caratteristica essenziale di queste grandi imprese agrarie e costituisce il primo degli elementi capitalistici della loro gestione, dei quali altri sono chiaramente ravvisabili nella forma della conduzione e dell’amministrazione, nell’impiego di un folto bracciantato, nella rilevanza del movimento in contanti per salari, acquisti etc. rispetto a quelli in genere già posseduti dalla corte comitale e impiegati per semina, salari etc., nell’impiego di capitali non esigui per usi non limitati all’esercizio in corso (animali,attrezzi,etc.)”. Una esplicita conferma del carattere capitalistico della azienda di Gadella ci viene, come riportato prima, da G. Brasacchio che non solo ne parla come esempio di affitto a conduzione capitalistica, ma, richiamandosi in modo esplicito allo scritto, da me più volte ricordato di Galasso, fornisce un ulteriore prezioso contributo alla nostra ricerca, “A ben considerare, le su accennate forme del capitalismo feudale – la impresa cerealicola, zuccheriera e serica – altro non sono che l’effetto dell’adattamento della feudalità alla nuova situazione politica ma anche mercantile. In proposito va rilevato che il commercio dei prodotti agricoli […] è intimamente legato alla proprietà fondiaria, la quale consente, attraverso la conduzione diretta e l’affitto, la disponibilità dei beni richiesti dal mercato. Peraltro se non si fosse verificato un incremento degli investimenti fondiari e finanziari, mansi sarebbe potuto verificare l’espansione dell’economia agricola calabrese, che nel Cinquecento conosce uno dei periodi più floridi della sua storia. Il grande interesse da parte di mercanti e banchieri genovesi per i feudi calabresi è stimolato dallo sviluppo mercantile dell’agricoltura, che offre ai proprietari la possibilità di potere commercializzare i prodotti”. Una ulteriore conferma dei risvolti capitalistici che ne caratterizzano la conduzione emergerebbe dalla destinazione dei prodotti. Infatti, le fave, i ceci, vengono inviati e venduti quasi completamente a Napoli, le cicerchie a Cassano, l’orzo, tranne quello da utilizzare per la semina dell’anno seguente, viene venduto soprattutto per gli allevamenti dei suini; il grano, invece, fatti salvi i quantitativi conservati per la semina dell’anno seguente e per la parte spettante ai garzoni, viene ai “conservatori”, in attesa di venderlo a prezzi più alti, o prestato “alli Albanesi di Spezzano”, per essere poi restituito, con i dovuti interessi, al “conservatore”. Si vendono, quindi, subito i prodotti che hanno un prezzo costante nel corso dell’anno, mentre si conserva il grano il cui prezzo era portato a salire e poteva essere venduto a migliori condizioni. Sappiamo che il grano aveva un prezzo estivo vicino a 10 carlini, vale a dire un ducato al tomolo, mentre nel corso dell’anno poteva salire anche a 15-18 carlini al tomolo, con un guadagno veramente notevole. Se ipotizziamo che venisse venduta solo la metà del prodotto subito dopo la raccolta e l’altra metà in seguito, ad un prezzo di 15 carlini, l’utile netto di esercizio sarebbe notevolmente più alto. Gadella, quindi, “...non veniva considerata come fatto a sé, bensì come elemento di un ciclo produttivo più ampio e variamente localizzato”, in cui l’asse economico, proprio per i grandi interessi economici e per il massiccio impiego di capitali, si spostava verso i grandi investitori stranieri, attratti dalla possibilità di facili guadagni legati alle contingenti situazioni speculative che caratterizzavano il mercato internazionale in questo periodo. In questo contesto, “In qual modo gli imprenditori locali, coi loro esigui capitali avrebbero potuto certamente competere con un Belmosto o con uno Spinola, in cui questi compiono un ulteriore passo nel processo di monopolizzazione degli affitti feudali e finiscono col fittare l’intero patrimonio di una casa feudale, come non di rado avviene a partire all’incirca dal 1580? In tal caso si tratta, infatti, di somme ingentissime, che vanno da poche migliaia ai centoquarantamila ducati che […] proprio Antonio Belmosto si impegnò a versare annualmente per l’affitto da lui contratto del patrimonio dei Bisignano nel 1584. Esclusi pregiudizialmente da contrattazioni di questa portata, gli imprenditori locali subiscono, e sono costretti a trasmetterli alla base della piramide sociale, le conseguenze del naturale aggravamento delle condizioni del godimento della terra dovuto all’accentuarsi del carattere parassitario dei redditi feudali e all’inopinato prevaricare della mediazione mercantile molto al di là del suo già largo ambito”.
3 Un esempio illuminante e significativo di come dovessero andare le cose in questo periodo è dato dal contenzioso che gli affittuari di cui si è parlato sopra, vale a dire Gio. Andrea Pugliese, Mario Doni ed altri, hanno intentato contro il Principe di Bisignano nel 1589. Questo, l’episodio riportato dal Galasso “Il Pugliese ed i suoi soci avevano nel 1583 preso in fitto la tenuta di Gadella per la quale pagarono un prezzo tale che fu per essi necessario indurre i massari a pigliare le terre di detto feudo, come si dice, a doppia copertura, cioè con conventione che per ciascuna tomolata di terra li massari dovessero pagare a detti generali affittatori dui tomoli di grano, sì bene prima non era stato mai solito pagarsi se non 14 carlini per tomolata. E, ciò nonostante, si videro arbitrariamente soppiantati nell’affitto, che doveva durare sei anni, dopo appena pochi mesi, essendosi trovato chi offriva 8.250 ducati ad anno contro i 7:566 e due terzi da essi convenuti”. Quanto detto ci aiuta a capire meglio come l’enorme ricchezza prodotta nel nostro dal territorio non riesca a modificare la situazione di sostanziale precarietà dei ceti meno abbienti dal momento che il grande commercio di grano, e di cereali in genere, è quasi esclusivamente nelle mani dei grandi imprenditori, in particolare, genovesi e fiorentini, i cui interessi innescano massicce esportazioni e speculazioni che finiscono per lasciare molte zone della Calabria senza scorte provocando, ironia della sorte, anche un forte aumento del prezzo del grano stesso. Questa tendenza, a lungo andare, a partire dalla fine del Cinquecento e in modo particolare per tutto il Seicento, determinerà “il colpo di grazia soprattutto ai coltivatori diretti, duramente provati dalla secolare azione del baronaggio, proteso, attraverso le azioni di rivendica e di reintegra e l’allargamento della sfera giurisdizionale, a consolidare un nuovo modello di economia feudale […]; se nel Cinquecento la popolazione rurale ha potuto fronteggiare e sopportare la presa feudale per la congiuntura economica favorevole, la situazione è profondamente mutata nel Seicento. Il logoramento delle classi più umili, per l’effetto dell’espansione feudale, coincide con la crisi economica di notevole durata, alla quale si aggiunge l’incrudelire del fiscalismo spagnolo”. L’attenzione dei Genovesi per la cerealicoltura calabrese è confermata anche da Galasso, il quale afferma che “L’interesse di un capitalista come Bartolomeo d’Aquino verso la produzione calabrese di grano è da solo una ulteriore conferma della cresciuta importanza della cerealicoltura regionale”; lo stesso Galasso ci fa sapere che il 21 febbraio del 1648 vengono estratti da Cassano 9.500 tomoli di grano per Livorno o Genova “per Cornelio Spinola in nome di Bartolomeo d’Aquino”, assieme ad altri 7.500 tomoli che vengono estratti, successivamente, sempre da Cassano e con le stesse modalità, per complessivi 17.000 tomoli. Da Corigliano, tramite i Saluzzo, sempre per conto di Bartolomeo d’Aquino, vengono estratti 12.000 tomoli di grano; la stessa cosa avviene in altri luoghi della Calabria (Cariati, Le Castella, Crotone) con destinazione Genova. Il regime, quasi, di monopolio dei banchieri genovesi e le sostenute esportazioni, come già detto, determinano un forte rialzo del grano stesso, tanto da far intervenire il Collaterale, su invito del Vicerè, per cercare di frenarne il prezzo e le esportazioni. In questo contesto, le cifre parlano chiaro, l’attività produttiva di Gadella, assieme a quella di altre aziende del territorio, riveste ancora un ruolo economico particolarmente attivo e significativo, ma, per le contraddizioni largamente descritte, le risorse vanno a finire nelle mani dei grandi commercianti e speculatori, dei signori feudatari, lasciando poco o niente ai contadini ed ai coltivatori diretti. Si viene a creare, quindi, un intreccio perverso e diabolico tra i grandi feudatari e i commercianti di grano, gli uni funzionali agli altri, al solo fine di sfruttamento di un territorio in grado di produrre enormi ricchezze. La formazione di grandi capitali speculativi, del resto, non favorisce nuovi investimenti sul posto o ricadute positive generalizzate sulle condizioni economiche dello stesso, determinando, a lungo andare, processi come la “periferizzazione” ed il ristagno economico delle province meridionali. Già nel 1600, una mente acuta come quella di Campanella aveva colto la gravità del problema; infatti, nello scritto “Arbitrii sopra l’aumento delle entrate del Regno di Napoli”, il Filosofo calabrese descrive il problema dello sfruttamento da parte di mercanti senza scrupoli che affamano la povera gente con grande lucidità “La carestia nasce dall’arte negoziatoria, chè li mercanti e potenti usurari comprano nell’ara tutti li frumenti e li tengono tanto, che lasciano affamare le genti, e poi li vendono a prezzo triplicato e quadruplicato: e quando non trovano tanto guadagno quanto la loro ingordigia brama, lo passano al terzo, al quarto e quinto anno in più, e poi lo vendono puzzolente o mischiato con altro grano, e fanno venire, oltre la fame, pure pestilenza; tantoché si spopola il paese, ché altri fuggono fuor del Regno, altri si fanno ladri e banditi per mangiare solo, altri si crepano con quel cibo nefando e di erbe amaliate ed oppressi da usura, fame, peste e guai, e molti non pigliano moglie per non patire queste miserie i loro figli, e le femmine diventano puttane per un pezzo di pane”. Un’analisi veramente spietata e cruda di quanto succede nel Regno e, di conseguenza, nel territorio di Cassano, nel 1600. Questo fenomeno rappresenta, nell’età moderna, uno dei momenti più difficili e critici della economia meridionale ed inciderà negativamente sullo sviluppo della regione, fino a comprometterne l’equilibrio politico e sociale, a determinare gravi disagi non solo nelle classi più povere, che si manifesteranno, a volte, sotto forma di protesta e di ribellioni violente, ma anche in altri ceti, che lottano per mantenere i propri privilegi e non essere risucchiati verso il basso.
Il terzo documento, del 1791, riguarda un contratto per la costituzione di una società tra il Marchese Luigi Serra e Vincenzo Nola per la conduzione della stessa tenuta. In questa sede, tuttavia, ci occuperemo in modo analitico solo il primo. Prima di procedere all’analisi dei documenti in oggetto, mi sembra opportuno fornire alcune informazioni storiche per meglio comprendere i contesti in cui si inseriscono. Nel 1599 il feudo di Cassano, pur essendo ancora proprietà dei Principi di Bisignano, è amministrato assieme a tutte le proprietà dei Sanseverino da Commissari nominati dai re di Spagna in seguito al grave dissesto economico avviato già al tempo di Pietro Antonio Sanseverino, che, diventato primo signore del Regno, non badò a spese per combattere per Filippo II e di onorarlo nel modo più conveniente possibile. Il tracollo definitivo avvenne, comunque, con il figlio di Pietro Antonio, Niccolò Berardino, nonostante i tentativi disperati della moglie, Isabella Feltre della Rovere, di sostituirlo nella gestione economica del governo del principato. Gli anni di riferimento sono, all’incirca, quelli che vanno dal 1560 ai primi del Seicento, quando, con la morte di Niccolò Berardino, avvenuta nel 1606, in mancanza di eredi maschi, i beni furono rimessi nelle mani del re di Spagna, Filippo III, che li trasmise alla nipote del principe, Giulia Orsini, figlia di Antonio, duca di Gravina e di Felicia Sanseverino. In questo periodo, in particolare dal 1565, non riuscendo i Sanseverino ad esercitare un efficace controllo sulle loro proprietà, si assiste ad una serie di usurpazione da parte degli affittuari e ad una progressiva alienazione dei loro beni. La situazione è, altresì, aggravata dal fatto che alla fine del XVI secolo, dopo l’espansione economica che aveva caratterizzato la Calabria ed il nostro territorio negli anni 1540-70, assistiamo ad una profonda crisi, essenzialmente agricola, di cui abbiamo riferito prima, che coinvolge tutti i ceti sociali con forti ripercussioni anche sulla grande proprietà fondiaria. In questo contesto si colloca il documento del 1599 che prenderemo subito un considerazione. Il documento del 1791 si inserisce, invece, in un contesto profondamente mutato che, come riferito in precedenza, non prenderemo i esame in questa sede. I capitoli del primo documento riguardano, come detto prima, la costituzione di una società tra Fabrizio Maurelli e altre cinque persone, Fabrizio Andreotta, Orazio Guerra, Francesco Longo, Ferrante Andreotta e Carlo Ferraro. Il documento fornisce alcune informazioni particolarmente importanti per comprendere lo sviluppo e le modalità di conduzione del feudo in questo periodo (1599). Si tratta di una scrittura privata, sulla cui base viene stipulato, successivamente, un atto pubblico, davanti al notaio Giacomo Cacciola Mercurio, di Cosenza, in cui si ribadisce sostanzialmente quanto convenuto nel precedente documento, firmato, per accettazione, da tutti i componenti la società. Il primo aspetto importante è la somma che viene pagata “…per il feudo di Gadella incluso li Bruchetti palazzo et vigna di Gardo per anni sei da Gio Serio di Somma curatore del principe di Bisignano per docati settimila et novicento settanta lo anno come per incanti et instituito per mano di notar Cesare Berincasa de Napoli”. Il documento non fa esplicita menzione di altre spese collettive che i soci si impegnano a sostenere al momento della locazione; nel 1584, invece, la somma investita per la conduzione era notevole. La durata dell’affitto è identica a quella del 1584, anche la somma da pagare annualmente è simile a quella precedente, il che significa che il feudo doveva ancora consentire ampi margini di guadagno agli imprenditori che investivano somme di denaro così considerevoli. Tutta la proprietà viene divisa in sei parti “...che se ni facciano sei parti, una per ciascheduno di essi”, anche se viene precisato che la gestione delle diverse parti non deve avvenire in modo autonomo da parte degli affittuari ma tutti i soci sono obbligati a gestire direttamente le proprietà in fitto. E’ interessante riportare quanto afferma il documento “In primis che habbiano d’assisteri nello exercitio et servitio di detto affitto in questi occorrentie et bisogni con li loro proprij personi detti Mauritio, Ferranti Andriotti, Francesco Longo et Carlo Ferraro, li quali debbiano faticare di loro proprij personi et non per interpositi personi tanto nel dari delli terri come nel tempo della ricolta [….] et in ogni altra cosa sarà necessaria. Li sopradetti dottor Horati et dottor Fabrizio perché non ponno assisteri et […] di loro persona promettino delli loro parti pagare et contribuire a quelli compagni che assisteranno et attenderanno in detto affitto […] per spesa di vassalli et servitori che quelli compagni che attenderanno allo exercitio di detto affitto, cioè docati sessanta esso dottor Fabrio, et Ducati sessanta esso dottor Horatio quali se habbiano da divideri fra quelli compagni che assisteranno et attenderanno ut supra”. Il documento ribadisce, ancora, che “li sopra suddetti Maurizio, Carlo, Francesco et Ferrante habbiano da recarsi per tutto il mese di maggio primo futuro et loro famiglie in Cassano, Corigliano, Terranova” per poter assistere direttamente ai lavori. Nel caso contrario, ciascuno di essi sarà obbligato a pagare “…docati cento a quelli che anderanno per li quattro mesi da maggio ad augusto”. Il secondo aspetto importante è che la produzione preminente è sempre quella del grano che, come abbiamo ampiamente visto, costituisce l’elemento determinante e redditizio del feudo, anche se trovavano posto le colture tradizionali, vale a dire ceci, cicerchie e fave. Tutta la produzione del grano veniva conservata nei magazzini di Cassano, di Corigliano e di Terranova, o in “altri luochi che alli compagni che assisteranno piacerà a spese comuni”, per essere venduta a prezzi vantaggiosi, secondo le richieste del mercato. Purtroppo, al momento, non disponiamo dei dati sui ricavi della vendita del grano, ma penso che non dovrebbero discostarsi di molto da quelli degli anni 1579-80 ed 1580-81, riferiti in precedenza. Tutto questo sembra confermare la persistenza della vocazione capitalistica della grandi aziende agricole sotto la spinta dei ceti mercantili, nonostante inizia a palesarsi la crisi dell’economia meridionale, che risente degli effetti negativi della congiuntura europea, della crisi della Spagna e delle grandi trasformazioni della stessa grande feudalità meridionale. Non è possibile analizzare tutto il documento in questa sede, in quanto si dilunga su una serie di clausole contrattuali che regolano la conduzione dell’azienda da parte dei soci, ma mi sembra opportuno fornire qualche altra notizia su qualcuno dei capitoli che regolano la società. In uno di questi si fa esplicito riferimento ad un libro contabile che i soci devono tenere in comune, su cui annotare tutti i costi e le spese effettuate per la conduzione della azienda ed a un libro “mastro” che, conservato da uno dei soci, doveva riportare tutte le spese e le entrate ricavate dall’esercizio dell’azienda. C’è anche un esplicito richiamo ad un cassiere, chi si occupa, appunto, della “cascia”, responsabile delle entrate e delle spese. L’importanza del danaro nella conduzione del feudo e lo spirito capitalistico che lo caratterizza può, a mio avviso, essere evidenziato anche dal fatto che in alcuni capitoli è espressamente indicato l’ammontare dell’interesse da pagare, pari al nove per cento della somma anticipata, nel caso che uno degli affittuari non abbia denaro sufficiente per far fronte agli obblighi societari, o per ulteriori investimenti nel feudo, o per le spese correnti, o per pagare le tasse alla “principal Corte”. La riscossione del nove per cento non è prevista solo in danaro, ma può avvenire anche con altre modalità, non escluso il pagamento in natura, che avrebbe comportato maggiori introiti al momento della vendita dei prodotti “che nisciuno di essi affittatori possa fari industria, mercantia ò massaria in detto feudo senza intervento di tutti li compagni et che tutti participino in detti industrie, mercantie siano tenuti li altri compagni mettire la parte di quello che non li […], con pagarsene la ragione di nove per cento, pro ratio temporis, o plegiare , et pigliarli di altri [ …] o cambio, come meglio si potranno retrovarli ”. Il pagamento dell’interesse del nove per cento è esteso a tutte quelle situazioni in cui uno dei soci si venga a trovare nelle condizioni di non potere far fronte alle spese della conduzione dell’azienda, con modalità simili a quanto sopra riportato. E’, altresì, regolato il periodo in cui i soci si riuniscono per procedere al pagamento dell’affitto alla “principal Corte”, al dividendo di eventuali i guadagni, o, in caso di perdite, “quod non absit”, al risarcimento delle stesse da parte di ogni socio. E’ preferibile, tuttavia, riportare, ancora una volta, direttamente alcuni passi del capitolo che regolano quanto sopra: “Che in fine di ciascheduno anno et dui mesi prima che si doveva pagare detto affitto alla principal Corte si habbiano essi compagni da venire in Cosenza et far li conti dello esito et introito, et pagata la principal Corte, si ci sarà guadagno si habbia da divideri fra essi compagni et essendoci perdita, quod non absit, ognun di essi paghi la parte sua di detta perdita”. Gli ultimi capitoli contengono le clausole sulla eventuale cessione, da parte di un socio, dei suoi diritti a terzi, o di coinvolgere altre persone nella società; vengono, ancora, previste, in caso di decesso di uno o più soci le possibilità e le modalità per gli eredi di entrare a far parte della società stessa; non ci dicono niente, invece, sulla produzione dell’uva e sulla destinazione del vino, che doveva essere eccellente.
Giuseppe La Padula
|
< Precedente | Prossimo > |
---|