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Vangelo di Domenica 13 Novembre PDF Stampa E-mail
Scritto da +V.Bertolone   
sabato, 12 novembre 2011 08:20
ImageDal Vangelo di Gesù Cristo secondo Matteo 25,14-30 - Avverrà come di un uomo che, partendo per un viaggio, chiamò i suoi servi e consegnò loro i suoi beni. A uno diede cinque talenti, a un altro due, a un altro uno, a ciascuno secondo la sua capacità, e partì. Colui che aveva ricevuto cinque talenti, andò subito a impiegarli e ne guadagnò altri cinque. Così anche quello che ne aveva ricevuti due, ne guadagnò altri due. Colui invece che aveva ricevuto un solo talento, andò a fare una buca nel terreno e vi nascose il denaro del suo padrone.Dopo molto tempo il padrone di quei servi tornò, e volle regolare i conti con loro. Colui che aveva ricevuto cinque talenti, ne presentò altri cinque, dicendo: Signore, mi hai consegnato cinque talenti; ecco, ne ho guadagnati altri cinque. Bene, servo buono e fedele, gli disse il suo padrone, sei stato fedele nel poco, ti darò autorità su molto; prendi parte alla gioia del tuo padrone. Presentatosi poi colui che aveva ricevuto due talenti, disse: Signore, mi hai consegnato due talenti; vedi, ne ho guadagnati altri due. Bene, servo buono e fedele, gli rispose il padrone, sei stato fedele nel poco, ti darò autorità su molto; prendi parte alla gioia del tuo padrone. Venuto infine colui che aveva ricevuto un solo talento, disse: Signore, so che sei un uomo duro, che mieti dove non hai seminato e accogli dove non hai sparso; per paura andai a nascondere il tuo talento sotterra; ecco qui il tuo. Il padrone gli rispose: Servo malvagio e infingardo, sapevi che mieto dove non ho seminato e raccolgo dove non ho sparso; avresti dovuto affidare il mio denaro ai banchieri e così, ritornando, avrei ritirato il mio con l'interesse. Toglietegli dunque il talento, e datelo a chi ha i dieci talenti.Perché a chiunque ha sarà dato e sarà nell'abbondanza; ma a chi non ha sarà tolto anche quello che ha. E il servo fannullone gettatelo fuori nelle tenebre; là sarà pianto e stridore di denti.

 

XXXIII domenica del tempo ordinario

13 novembre 2011

Io dono di Dio 

Introduzione 

                Domenica scorsa la liturgia della Parola ci invitava alla fedeltà nell’attesa vigile e operosa capace di trasformare la vita del discepolo in un falò acceso nel buio della notte: una fiammella ardente alimentata dall’olio della fede che si consuma per amore di Dio e dei fratelli.

Oggi, Gesù,  con la parabola dei talenti, ci invita all’impegno personale, all’operosità nelle piccole cose per realizzare già qui e ora il progetto di Dio per l’uomo e per il mondo: la nostra salvezza.

                Una meravigliosa opera che non costa molto né richiede tanti sforzi per realizzarla. C’è bisogno di poco e quel poco non dipende tutto da noi: si inizia con un dono di Dio, manifestazione d’amore e pegno di salvezza e si arriva a noi, alla nostra parte, che è volontà creativa, appassionata e fiduciosa, dono che si manifesta donandosi.

Il solo sacrificio richiesto è il coraggio del rischio di trovare espressioni nuove, immagini, preghiere, gesti, percorsi narrativi che facciano circolare il bellissimo segreto di cui ci ha fatti partecipi Dio: il dono della vita e dell’amore, verità ultime del nostro stesso esistere.

Il simbolo del talento 

                Anche in questa domenica, ci troviamo davanti ad un quadretto delicato di immagini da interpretare e capire: un messaggio in parabole da codificare per coglierne tutta la ricchezza e la bontà; un messaggio che è nutrimento dell’anima in cammino alla luce della verità.

                Così scopriamo che nel racconto di Gesù si intrecciano due dimensioni: la prima é l’accoglienza operosa del dono di Dio: il talento; la seconda è far fruttificare questo talento.

                La prima dimensione parla dell’iniziativa di Dio, di un dono che Egli dà a tutti. Esso ci precede nella vita, è lì con noi al momento della nostra nascita, ci aspetta per essere accolto solo da noi perché si moltiplichi e porti frutto. Nessuno nasce senza il proprio dono. È la legge stessa della creazione: si nasce avvolti, penetrati dal dono di Dio, che nell’arco di una vita si moltiplica in tanti altri doni.

                Quindi il primo appello che Gesù ci rivolge in questa domenica è di riconoscere e accogliere attivamente il dono di Dio, che è dono di vita e di salvezza. Alla vita e alla certezza della salvezza Gesù  invita ad aprire totalmente il cuore e le mani. Il resto verrà da sé.

Se non ci fosse questa prima iniziativa divina, l’uomo rischierebbe di restare impigliato nelle maglie insidiose delle cose futili dei suoi steccati. Invece Dio irrompe con il suo dono di salvezza e di amore che per ogni uomo si manifesta e si esprime in tanti modi diversi. L’offerta del talento è unica per tutti, ma il modo in cui si manifesta è diverso per ogni uomo: in altri termini, il Regno non ha un solo volto, assume tratti diversi perché la salvezza di Dio giunge per vie a noi ignote e, spesso, inattese.

                La seconda dimensione della parabola è quella del dono da far fruttificare. Nella prima lettura la donna perfetta fa fruttificare il suo dono condividendolo con  il misero: ella stende la mano al povero. Nel salmo il frutto si trasformo in appello, “vivere del lavoro delle nostre mani”, cercando di creare una famiglia serena e benedetta. Nell’invito di Paolo ai cristiani di Tessalonica, far fruttificare il dono di Dio equivale a vivere “figli della luce e del giorno”, senza lasciarsi cogliere dalla tentazione del sonno e dell’inerzia.

                Significa anche impegnarsi a tenere le mani aperte pronte a donare. Il talento, infatti, non è una perla da custodire gelosamente in uno scrigno, né è da restituire, ma da rilanciare, da far crescere.

                Noi non esistiamo per restituire a Dio il suo talento, noi viviamo per essere come Lui, a nostra volta donatori: creature di Dio che diventano seme di altri doni, sorgente di energie, alberi che crescono, orizzonti che si dilatano.

Il talento è realtà di grazia e di fede, cioè dell’azione divina e della risposta gioiosa dell’uomo, pronto ad assumere rischi e ad affrontare difficoltà per amore; è la pietra di paragone di una genuina religiosità che coinvolge tutto l’essere dell’uomo nel suo dialogo col Signore che lo chiama a partecipare alla costruzione del Regno.

Fedele nel poco 

                Primo dono di Dio è la salvezza, ma la salvezza per compiersi ha bisogno di altri doni da mettere a frutto, da far germogliare. Così, a ben guardare, l’unico dono si moltiplica, si dilata. Assume volti, colori, profumi, sapori diversi perché possa arrivare a tutti, possa farsi avvicinare da tutti per essere accolta da tutti.

                Dono da cui farsi sfiorare ed accogliere, è la parola stessa di Dio. Noi l’abbiamo ricevuta sin da piccoli, ma se l’abbiamo custodita dentro come una memoria da difendere contro l’erosione del tempo, vuol dire che l’abbiamo seppellita, dimenticando che invece essa ama l’avventura, è viva, bruciante; è grido da var vibrare dentro le parole degli uomini; è speranza da confidare a tanti cuori disperati. È Parola di seme, di lievito, di talento, di inizi che devono fiorire. A noi tocca il lavoro paziente e intelligente di chi ha cura dei germogli. Dio è la primavera del cosmo, a noi il compito di esserne l’estate feconda dei frutti.

                Il mondo e la vita sono doni che ci sono stati affidati dalle mani di Dio perché li facessimo crescere, come fossero giardino incompiuto da curare e amare  e da far fiorire. Una spirale di vita crescente è legge d’amore, è legge di creazione, diversamente il giardino inaridisce e muore: la vita si riempie di vuoto, di sterile non senso. Ma non su quanto abbiamo fatto per far fiorire la vita e il mondo saremo giudicati: l’esame finale sarà sulla qualità del nostro impegno. In altri termini saremo chiamati a rendere conto della qualità del nostro servizio, della misura di passione, di energia e dedizione che si sono spesi per contribuire a far rifiorire i tanti deserti dell’uomo e del mondo. Il Regno di Dio non esige che noi si vada oltre le nostre possibilità, ma premia la fedeltà nel poco: “Ciò che io posso fare è solo una goccia nell’oceano, ma è questa goccia che dà senso alla mia vita” (A. Schweitzer)

                Dono di Dio è ogni creatura che s’incontra: “come talento io ho ricevuto te”, lo può dire la sposa allo sposo, il figlio al padre, la madre al figlio, il fratello al fratello e l’amico all’amica. Poterlo dire a qualcuno, poterlo dire a molti significa entrare con estro creatore nella liturgia della vita, che diventa così anticipazione sulla terra di un angolo di Paradiso.

Il Paradiso sulla terra dunque, si nutre dei nostri doni, della nostra vita bella e coraggiosa, appassionata e creativa; una vita che in ogni gesto e parola spande il profumo di una santità donata e contagiosa, di una santità divina. Se imparassimo a riconoscere il dono che è in noi, ogni giorno si illuminerebbe della stessa luce del mattino di Pasqua. 

Conclusione

                Un racconto chassidico dice: “Quel giorno non mi sarà chiesto perché non sono stato come Mosè o Elia o uno dei profeti. Ma solo perché non sono stato me stesso”.

Quando il Signore ci chiamerà a sé non ci chiederà quanto abbiamo fatto, ma come l’abbiamo fatto, e questo ci dovrebbe riempire di speranza, perché vuol dire che la strada per la santità non si traccia con azioni eroiche e sovrumane, ma con la semplicità delle cose piccole che profumano di casa, di amici, di affetti familiari.

                Dobbiamo camminare con fedeltà verso Dio, emozionati e disciplinati servi della vita, forti della verità tracciata in noi da Dio.           

 

Serena domenica                                                                  + Vincenzo Bertolone

 

 


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