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Le radici della'ndrangheta bruzia PDF Stampa E-mail
Scritto da A.Badolati   
giovedì, 27 ottobre 2011 19:18
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Arcangelo Badolati
Le antiche radici della 'ndrangheta bruzia I mafiosi imponevano il "pizzo", dominavano il territorio e contavano sull'appoggio silente dei politici. Per lungo tempo è stato da più parti sostenuto che la 'ndrangheta cosentina non avesse storia e, quindi, criminalmente parlando "tradizione". Non è affatto vero. Tra il 1890 e il 1903 vennero istruiti in Calabria i primi maxiprocessi alle associazioni mafiose operanti sul territorio regionale che furono celebrati rispettivamente a Palmi, Reggio Calabria, Nicastro e Cosenza.C'è dunque sempre stato un vuoto storico nella ricostruzione degli accadimenti criminali cosentini. Un vuoto che riguardava la fine dell'Ottocento e i primi due decenni del secolo successivo su cui mai era stato svolto un attento lavoro di ricerca. Era come se quest'area della Calabria fosse avulsa dal contesto che vedeva invece proliferare, in molte altre zone, la "picciotteria" antesignana forma della moderna criminalità organizzata.

Il "buco" è stato colmato da un libro di Antonio Nicaso, Nicola Gratteri e Valerio Giardina – "'Ndrine, sangue e coltelli" (Edizioni Pellegrini) – che consente di rileggere in maniera critica una fase importante della vita sociale ed economica della zona bruzia. I contenuti del volume trovano riscontro nel materiale giudiziario custodito nell'Archivio di stato di Catanzaro. Si tratta di sentenze e verbali di udienza che aiutano a ristabilire, intanto, importanti verità che cozzano con le litanie intonate, per più di cinquant'anni, da un Imagecerto mondo politico ipocritamente indirizzato a rappresentare il Cosentino come un'isola felice. Dall'articolato studio degli atti giudiziari e delle pubblicazioni dell'epoca emergono fatti e circostanze che impongono amare riflessioni. La prima: Cosenza vanta tradizioni delinquenziali al pari delle altre provincie calabresi e lo dimostra il maxidibattimento, celebrato nel 1903, nel quale figuravano imputate novanta persone indicate come appartenenti alla malavita cittadina. Tra queste viene tratteggiata la figura di Stanislao De Luca, capobastone temuto e riverito, che con i suoi accoliti amministrava giustizia privata e imponeva il pagamento del "pizzo" ai commercianti. Negli archivi catanzaresi sono custoditi i verbali con le deposizioni rese in aula da una parte offesa, Pasquale Cimino, giocoliere ambulante che oggi sarebbe stato volentieri reclutato dalle associazioni antiracket, che rivela: «Non mi meraviglio dell'esistenza di un'organizzazuione criminale a Cosenza perchè altrove ho subito la stessa sorte». Poi aggiunge: «Gli davo quotidianamente una percentuale sui profitti». Dunque, ai primi del Novecento per lavorare in...tranquillità occorreva pagare la tangente alla mafia locale. Ma c'è di più. La consorteria guidata da De Luca aveva una sua strutturazione interna e delle gerarchie molto simili a quelle delle cosche della 'ndrangheta odierna. Lo dimostra la testimonianza resa ai giudici in quel lontano periodo dall'appuntato di pubblica sicurezza Ferdinando Ciaccio, cui fu affidato il compito di studiare il fenomeno. «L'associazione» precisa l'importante teste «ha uno statuto e delle regole rigide, con riti di iniziazione, durante i quali gli aspiranti picciotti devono giurare fedeltà al "saggio capo", impegnandosi a non tradire i segreti del gruppo». Ciaccio, nel verbale indica pure ruoli e gradi degli appartenenti all'organizzazione.

La seconda riflessione: quando Stanislao De Luca viene processato, la difesa propone dei testi a discarico e, come nelle migliori tradizioni della strampalata vita giudiziaria calabrese, vengono in soccorso del "mammasantissima" i notabili del luogo che – more solito – minimizzano la portata delle tesi accusatorie negando l'esistenza della criminalità organizzata. L'onorevole Nicola Spada, parlamentare del Regno, dice ai giudici: «Pur rincasando a tarda ora della notte non ho mai subito molestie da alcuno, ragion per cui, sentendo parlare vagamente della malavita, non ho creduto che a Cosenza simile associazione esistesse nelle vere forme». Un capolavoro di parole uguale a tanti altri capolavori sentiti nell'ultimo mezzo secolo in Calabria e Sicilia. Ancora più significativa (e paradossale) la deposizione resa dal sindaco di Cosenza, Luigi Fera. «Attorno a lui» disse riferendosi a Stano De Luca «si è intessuta una fosca leggenda come d'individuo che viva nel sottosuolo cittadino e dei bassi fondi sociali sia il duce». Le parole di Fera dimostrano dunque come, anche in altri momenti storici, la criminalità organizzata calabrese sia cresciuta forte dei colpevoli silenzi della classe dirigente e politica locale.

La terza riflessione. Dagli articoli pubblicati dagli organi d'informazione attivi nel Cosentino ai primi del Novecento si evince un altro dato significativo. Le forze dell'ordine intervenivano male e in ritardo. Ecco quanto scrisse Il Domani a proposito della malavita. Il testo è eloquente: «A questo nuovo male poteva far remora una pronta e immediata repressione penale sia in sul sorgere, accompagnata con un'oculata prevenzione. Dolorosamente la nostra polizia nicchiò; negò il male quando i reati si succedevano fitti come gragnuola; volle ridurre fatti epidemici a fenomeni sporadici ed intervenne quando il male era esteso e forse inguaribile».

Ultima riflessione. Ci sono delle inchieste recenti della Dda di Catanzaro che descrivono genesi e settori d'interesse della 'ndrangheta attuale. L'analisi è devastante: la pervasività delle cosche appare incontenibile e variegata. Epperò, riesaminando le vicende di Stanislao De Luca e comparandole con le tesi sostenute dai magistrati, ci si rende pure conto di quanto la mafia calabrese, col trascorrere del tempo e nonostante il mutamento dei costumi sociali, sia anche diventato un fenomeno subculturale. Un fenomeno che ha ormai radici talmente profonde da apparire forse come inestirpabile. Gli 'ndranghetisti moderni, infatti, non hanno più il "muffo" al collo, non "tirano" di coltello, non portano la "coppola" e non imbracciano la "lupara", ma siedono comodi e "istituzionalizzati" nei consigli di amministrazione di imprese e società, tra i banchi delle assemblee elettive e delle associazioni di categoria. Occupano di diritto spazi che lo Stato ha colposamente lasciato liberi. Usano valigette ventiquattr'ore e si muovono "infettando" l'Europa e le Americhe per concludere "affari".

 

Arcangelo Badolati

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