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Vangelo di Domenica 23 ottobre PDF Stampa E-mail
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sabato, 22 ottobre 2011 21:25

ImageDal Vangelo di Gesù Cristo secondo Matteo 22,34-40.
Allora i farisei, udito che egli aveva chiuso la bocca ai sadducei, si riunirono insieme e uno di loro, un dottore della legge, lo interrogò per metterlo alla prova:  «Maestro, qual è il più grande comandamento della legge?».  Gli rispose: «Amerai il Signore Dio tuo con tutto il cuore, con tutta la tua anima e con tutta la tua mente.  Questo è il più grande e il primo dei comandamenti.  E il secondo è simile al primo: Amerai il prossimo tuo come te stesso.  Da questi due comandamenti dipendono tutta la Legge e i Profeti». (In coda il commento di mons.Bertolone)

Amare, ma per davvero

Ci risiamo: farisei e sadducei, dopo un paio di figuracce, ci riprovano.
A tutti i costi vogliono incastrare il Rabbì e gli tendono un tranello.
Poverini…

La domanda che viene sottoposta all'attenzione di Gesù, riguarda l'ordine e la gerarchia dei comandamenti, un tema di moda per i rabbini del tempo. Dalle Scritture Sacre erano stati estratti ben 613 comandamenti ed era quindi necessario stabilire una gerarchia. Ogni buon maestro dava la sua interpretazione e Gesù viene chiamato a fare lo stesso.
Bisogna però osservare che la domanda non vuole semplicemente introdurre un dibattito tra esperti della Legge, ma è un tentativo subdolo di cogliere Gesù in errore o in contraddizione. Ciò che le autorità religiose vogliono saggiare è l'atteggiamento del Rabbì Gesù verso il Decalogo.
Farisei e sadducei vogliono verificare l'ortodossia del Figlio di Dio…
La risposta - loro… - la sapevano benissimo: il comandamento più importante è senza ombra di dubbio il riposo del sabato, l'unico osservato da Dio stesso (Es 20,11; Gen 2,3). L'osservanza di questo precetto equivaleva all'adempimento di tutta la legge e la sua trasgressione era punita con la morte (Es 31,14). Infatti, la prima volta che in Matteo i farisei stabiliscono di condannare Gesù a morte, è proprio in conseguenza della violazione del comandamento del sabato (Mt 12,14).
Ma il Rabbì di Nazareth, come sempre, lascia tutti senza parole. Il Suo atteggiamento è diverso, la Sua risposta scardina il sistema legalista in cui sono imprigionati i Suoi interlocutori. Quello che Gesù propone non è semplicemente il primo comandamento a cui seguono tutti gli altri, ma è quel comandamento a partire dal quale tutto il resto prende forza, direzione e significato.
Gesù unisce due notissimi testi dell'Antico Testamento (Dt 6,4-8 e Lv 19,18), che in questo accostamento geniale rappresentano la dimensione verticale e orizzontale dell'amore.
Il cuore del vero discepolo è in tensione fra queste due direzioni: Dio e il fratello. Ma ciò che rende fecondo e irrinunciabile questo incrocio è l'amore.

L'altra mattina stavo andando in bici a fare la spesa. In Piazza San Martino ho incrociato una signora, una di quelle che hanno sempre una parola buona e sanno tradurre il Vangelo in piccole frasi ricche di saggezza e di profonda umanità. Non ricordo più per quale motivo ci siamo messi a parlare della fatica di stare vicino ad una persona malata, dei sacrifici che questa attenzione richiede. E dopo un attimo di silenzio, la saggia signora mi disse: "E' vero, si fa fatica, ma se si ama per davvero bisogna dimenticarsi di se stessi".

Che il nostro cuore abbia questa passione.
Che l'amore per Dio e per il fratello ci faccia dimenticare di noi.
Che il Cristo, Dio e fratello, riempia la nostra vita di bellezza.

don Roberto Seregni  

 

XXX Domenica del Tempo Ordinario

23 ottobre 2011 

Due volti per un solo amore

Introduzione 

                “Amore”, “amare” non ci sono parole più usate al mondo di queste. Sono le parole preferite dalle note dei cantanti e dalla penna dei poeti. Sono parole che il solo evocarle suscitano meraviglia e commozione.

È difficile immaginare un discorso umano senza di esse: diciamo “amore”, diciamo “amare” e ci sembra di aver detto tutto. Eppure, nonostante la loro concretezza, pienezza e ovvietà, “amore” e “amare” sono estremamente complesse e misteriose, impalpabili, così aperte e traditrici, da costituire insieme una gioia e un dramma. Una gioia perché quando c’è l’amore vero tutto ciò che è intorno a noi migliora, rinnova il suo aspetto; un dramma perché in assenza dell’amore tutto è destinato a morire.

                Così l’ “amore” e l’ “amare” sono anche capaci di compiere miracoli. Perché ciò che nascondono sotto la semplicità della loro veste formale è una forza illimitata, incontenibile e indomabile: “… forte come la morte è l’amore,/tenace come il regno d’amore è la passione:/le sue vampe sono vampe di fuoco,/una fiamma divina!/le grandi acque non possono spegnere l’amore/né i fiumi travolgerlo” (Ct 8, 6-7).

Tanti volti per due sole parole: un orizzonte troppo ristretto per una realtà tanto complessa, un cuore troppo piccolo per contenere una forza così prorompente. Il lessico che usiamo infatti non ammette distinzioni: la stessa parola, “amore”, è usata per esprimere il rapporto con Dio o con l’altro da sé, sacrificando a questo modo l’esigenza di chiarire le varie modalità e intensità con cui si esprime l’amore.

Allora, bisogna impossessarsi di un verbo e di una parola greca, “agàpe” e “agàpao”: che traducono la ricchezza dell’amore che va ben oltre ogni misura umana, di quell’ amore che ha la pienezza, la profondità, la sconfinata grandezza dell’amore di Dio.

Quello stesso amore, di cui ci parla Gesù nell’appello evangelico di questa XXX domenica del tempo ordinario. L’invito di Gesù, meglio l’appello che Egli rivolge a noi dalle pagine del vangelo di Matteo è semplice e complesso proprio come l’amore: è appello alla totalità, all’impossibilità; è appello ad amare come ama Dio, con radicalità.

 

Un amore verticale

 

                Dalla provocazione alla lezione del Maestro sull’amore. Una lezione espressa sotto forma d’invito dal sapore antico, “Amerai Dio e amerai il tuo prossimo”, ma dal contenuto fortemente innovativo, per potenza e radicalità: amerai il prossimo come Dio. Dunque, il prossimo diventa simile a Dio, perché l’amore per lui sarà simile all’amore per Dio.

                Questo è il vero scandalo del Vangelo, la grande rivoluzione portata da esso: amare Dio con tutto il cuore, ma amare anche il prossimo, il marito e la moglie, il figlio, il padre e la madre, l’amica e il vicino di casa, lo sconosciuto che s’incontra per strada e persino il nemico, tutti amarli con la stessa intensità dell’amore per Dio.

Impossibile ciò se pensiamo al cuore dell’uomo: troppo piccolo per raggiungere tali latitudini. Eppure, se pensiamo ad un cuore abitato da Dio tutto è possibile, perché Dio in noi moltiplica lo spazio del cuore, rendendolo più grande di tutte le cose create tutte insieme.

                Dio diventa parte di noi se ci lasciamo prima di tutto amare da Lui. Se lasciamo che sfondi le nostre certezze e come acqua impetuosa inondi di tenerezza infinita il nostro cuore, inebriandolo di quel profumo di santità e misericordia che ci fa piangere di gioia e consolazione, scopriremo quanto l’amore di Dio sia sempre più grande del nostro peccato e della nostra piccolezza. E serbare il ricordo di questa emozione ci fa vivere e amare, e, soprattutto, ci fa dilatare i confini del nostro cuore verso: Dio, il prossimo e noi stessi.

                L’orizzonte che si apre a noi, dunque, è quello di un cuore capace di intonare splendide “polifonie”, in cui “l’amore di Dio è l’amore principale, il canto fermo, attorno al quale può dispiegarsi il contrappunto degli altri amori. E nasce la polifonia della vita”. (D. Bonheffer).

L’amore per Dio e l’amore per il prossimo, poi, non possono essere separati: essi si intrecciano diventando una grandiosa e luminosa croce che è piantata nella terra, ha il vertice in cielo e ha le braccia che avvolgono il mondo intero.

                Ecco il simbolo della radicalità e dell’intensità dell’amore cristiano: l’amore crocifisso, l’amore di Cristo. Un amore, quello di Cristo, ardente, tenero e intelligente, non una forza oscura e misteriosa, ma  forza manifestata attraverso altre espressioni d’amore tipicamente umane: nuziale, materno e paterno. Basterebbe, infatti, sfogliare le intense pagine di Osea, la cui drammatica vicenda matrimoniale diventa l’emblema dell’amore divino che vince i tradimenti, supera i deserti e anela a risorgere; la stupenda celebrazione dell’amore di due fidanzati, sullo sfondo smaltato dalla primavera fiorita e profumata, contenuta nel Cantico dei Cantici, segno dell’amore supremo di Dio, che parla ad Israele col linguaggio degli innamorati. Un amore nuziale, materno e paterno che si schiude nel silenzio dell’essere e ci fa esistere, sboccia nelle tenebre del nostro peccato e ci salva.

 

Un amore orizzontale

 

                Simile all’amore di Dio e per Dio deve essere il nostro amore per il prossimo. Molte sono le immagini bibliche che rappresentano l’amore per il prossimo, tutte convergono su quattro lineamenti fondamentali: l’universalità; la totalità, la radicalità e l’assolutezza, nel senso che non risparmia neppure se stessi e la propria vita. Infine, la reciprocità: è, infatti, un arricchimento reciproco, è contemporaneamente un dare e un ricevere, è un prendere solo apparente perché in realtà si ottiene molto di più di quanto si doni. Infatti, è nel dare che si manifesta tutta la potenza dell’amore: nello stesso atto del dare si esprime tutta la propria forza, la propria ricchezza, il proprio potere. Questa sensazione di vitalità e di potenza non può che riempire di gioia, non può che far sentire traboccanti di vita e felicità. Da più gioia il dare che il ricevere, non perché è privazione, ma perché nell’atto dell’amare ci si senti più vivi.

                Nel dare tutto se stesso nell’amore e per amore, Gesù, non solo è andato incontro alla vera vita, ma ha donato a noi la possibilità di partecipare a quella stessa vita. Ecco perché l’amore crocifisso è amore risorto.

Tutto ciò ci fa capire il vero senso dei due inviti di Gesù, amare Dio e amare il prossimo: essi non si presentano come precetti fondamentali da seguire per metterci in pace con Dio, ma vogliono piuttosto offrire la prospettiva di fondo con cui vivere l’intera legge di Dio; non vogliono imporre un contenuto particolare, pur nobile, ma suggerire un atteggiamento generale costante; vuole indicare un’atmosfera in cui ogni gesto e ogni risposta umana e religiosa devono essere collocati; non propone uno schema o una scala dei valori, ma l’impostazione di un’intera esistenza.

                Un’esistenza tutta animata dall’amore completo verticale per Dio, e orizzontale per l’uomo. Due aspetti che sono espressione di un amore unico e inscindibile, e che nel loro incrociarsi e vivificarsi reciprocamente costruiscono “ l’essere cristiano” totale e genuino.

Se vogliamo, allora, recuperare l’integrità dell’uomo, dobbiamo ritornare alle sorgenti dell’amore: il nostro essere strutturalmente creature amanti, perché Amante è il nostro creatore. È nell’amore che si ritrova l’uomo nella sua unità, perché tutto se stesso è coinvolto nell’esperienza dell’amore: “il cuore”, cioè la coscienza, “l’anima”, cioè l’essere vitale fisico e interiore, pensiero ed azione, il sé a tutto tondo.

                L’amore per Dio e per il prossimo, quindi, non è una generica e nebulosa semplificazione dell’impegno molteplice quotidiano, ma ne è l’architrave e l’anima; è la chiave di volta di tutta l’esistenza umana.

 

 

Conclusione

 

                Il sociologo tedesco E. From, nel suo saggio L’arte d’amare, esordisce scrivendo: “Ogni teoria d’amore dovrebbe incominciare con la teoria di un’esistenza umana”, convinto del fatto che l’amore è la sola risposta al problema dell’esistenza umana.

Non è forse questo il significato profondo di quell’invito a lasciarsi amare e ad amare, che sotto forme e specie diverse, ha caratterizzato ogni intervento divino nella storia dell’uomo?

Sì, il linguaggio e l’immaginario biblico non lascia dubbi: ciò che si manifesta è la storia di un amore divino e umano da cui tutta l’esistenza ricava senso. Ciò significa che l’uomo di ogni tempo e luogo più è capace di amare e donarsi, più dà senso pieno alla propria vita.

                E questa verità, soprattutto oggi, non può che riempirci di speranza perché, usando le parole di H. Hesse, alla fine: “Ovunque la suprema saggezza dice che non sono il potere né la proprietà né la conoscenza a rendere felici, ma esclusivamente l’amore. Ogni altruismo, ogni rinuncia dettata dall’amore, ogni compassione attiva, ogni donazione di sé sembra uno spreco, una privazione, e invece è un arricchimento e una crescita, ed è anche l’unica via che conduce in avanti e verso l’altro” meglio: verso Dio e verso il vero uomo.         

 

Serena domenica.

+ Vincenzo Bertolone

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