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Vangelo di Domenica 28 Agosto PDF Stampa E-mail
Scritto da +V.Bertolone   
sabato, 27 agosto 2011 21:42
ImageDal Vangelo di Gesù Cristo secondo Matteo 16,21-27.  - Da allora Gesù cominciò a dire apertamente ai suoi discepoli che doveva andare a Gerusalemme e soffrire molto da parte degli anziani, dei sommi sacerdoti e degli scribi, e venire ucciso e risuscitare il terzo giorno.  Ma Pietro lo trasse in disparte e cominciò a protestare dicendo: «Dio te ne scampi, Signore; questo non ti accadrà mai».  Ma egli, voltandosi, disse a Pietro: «Lungi da me, satana! Tu mi sei di scandalo, perché non pensi secondo Dio, ma secondo gli uomini!».  Allora Gesù disse ai suoi discepoli: «Se qualcuno vuol venire dietro a me rinneghi se stesso, prenda la sua croce e mi segua.  Perché chi vorrà salvare la propria vita, la perderà; ma chi perderà la propria vita per causa mia, la troverà.  Qual vantaggio infatti avrà l'uomo se guadagnerà il mondo intero, e poi perderà la propria anima? O che cosa l'uomo potrà dare in cambio della propria anima?  Poiché il Figlio dell'uomo verrà nella gloria del Padre suo, con i suoi angeli, e renderà a ciascuno secondo le sue azioni.(nella seconda parte il commento di mons.Bertolone Arcivescovo Metropolita di Catanzaro/Squillace)

XXII Domenica del tempo ordinario

28 Agosto 2011

Non più sofferenza ma amore 

Introduzione

                La parabola discendente di queste due domeniche del tempo ordinario è sorprendente: Pietro, che domenica scorsa, aveva meritato l’elogio di Gesù per la sua professione di fede, in questa XXII domenica del tempo ordinario riceve dallo stesso Maestro una nota di biasimo, un rimprovero forte: “Lungi da me satana!”.

Lo stesso discepolo che aveva ragionato secondo il pensiero di Dio, riconoscendo in Gesù il “Figlio del Dio vivente”, ora si ritrova a pensare secondo la mentalità degli uomini, scongiurando per Gesù la necessità di una morte annunciata.

Come biasimarlo? Gesù inizia a parlare di sofferenza, preannuncia per sé la croce e la morte; Lui che è figlio di Dio, non può soffrire, morire: sarebbe uno scandalo, la sconfessione di quanto sostenuto con convinzione in precedenza: “Tu sei il Figlio del Dio vivente”.

Pietro non può essere condannato per questo errore. Egli ancora non capisce la portata rivoluzionaria della vita e dell’opera del suo Maestro, non ha ancora sentore dell’abisso d’Amore che porta con sé il dono di quel Figlio, da parte di Dio, a tutta l’umanità.

Infatti, sarà proprio in quella sofferenza e su quella croce che Gesù rivelerà l’ultimo ritratto di Dio nel dramma della misericordia che vince il peccato, dell’amore che cancella il tradimento.

                Chi avrebbe mai immaginato, sia pure in sogno, che Dio sarebbe intervenuto nella storia in questo modo? Neppure la più fervida immaginazione avrebbe potuto partorire una simile idea, e quantunque fosse stato possibile, sarebbe stato miracolosamente misterioso per l’uomo immaginare che un Dio entrasse nella storia con quella vita e quella morte, che come scrisse Rousseau veramente furono vita e morte di un Dio.

 

Amare la croce

 

                Per quanto le parole pronunciate da Gesù in questa domenica di fine agosto possano essere dure da capire e accettare, sono quelle che più di ogni altra parola da Lui pronunciata ci rivelano la vera natura dell’amore. Il vero amore che Gesù fa conoscere al mondo, è tale, cioè puro, autentico e divino, perché sempre crocifisso, cioè non è mai separabile dalla sofferenza.

                Del resto ad amare veramente si perde tempo, denaro, tranquillità. Non si è più padroni della propria vita, e come se l’avessimo ceduta ad altri, alla persona che amiamo, che assistiamo, che ha bisogno del nostro tempo e della nostra presenza. Senza dire che l’amore ci mette in una condizione di debolezza anche per il fatto che difficilmente si è capiti, nemmeno da parte di chi ci sta vicino.

                Amare veramente significa, dunque, prima di tutto imparare a rinunciare a se stessi, ai propri sogni, ai propri desideri; significa accettare una condizione di dipendenza. Infatti, la propria esistenza, in forza dell’amore, non la si trattiene più come un possesso esclusivo, ma la si consegna alla persona che si ama per riceverla poi dalle sue mani.

                Questa è la natura dell’amore che Dio ha rivelato agli uomini, prima attraverso i suoi profeti e poi attraverso Gesù.

Geremia (I Lettura), ad esempio, per quanto si ribelli e tenti di fuggire al suo mandato, ormai è stato sedotto dal Signore e da Lui si è lasciato sedurre, quindi, la sua vita non gli appartiene più e, divorato dal fuoco vivo di questo amore, continua tra gli scherni e l’odio dei suoi a far conoscere il volere divino: la sua profezia diventa un dovere, una necessità.

L’amore profondo per il Padre, poi, giustifica il discorso perentorio del Figlio (Mt 16, 21-23), mentre l’amore profondo per il Figlio giustifica l’invito all’uomo di essere discepolo della croce (Mt 16, 24-25).

                Sia per il Figlio che per l’uomo è un “dover fare”: è necessario che il Figlio muoia per salvare l’uomo, è necessario per l’uomo, che voglia diventare discepolo di Cristo, prendere la sua croce. E la necessità nasce da una seduzione: per il Figlio questa seduzione ha il nome del Padre, mentre per noi ha il nome del Figlio, Cristo. Quanto più si ama, tanto più si è pronti a donare e soffrire.

                Così “togliere” la sofferenza al mistero di Gesù significa privarlo della dimensione dell’amore e tornare all’immagine di un Padre disinnamorato dei propri figli; togliere a noi la sofferenza significa prendere le distanze dall’amore e dalla vita vera, in altri termini rinunciare a Cristo. Convinciamoci che la croce è la massima espressione d’amore di Gesù per l’uomo.

                Nel lasciarsi sedurre da Cristo c’è tutto da guadagnare. In forza di questa seduzione si è pronti a condividere il paradosso che Gesù ha proposto con le sue parole e più ancora con la sua vita: la vita si salva soltanto se si è disposti a perderla.

Perdere per guadagnare

                Certo se ci ostiniamo a pensare secondo la mentalità del mondo, non riusciremo mai a capire il senso del paradosso del perdere per guadagnare, ma soprattutto non capiremo il senso della sofferenza. Tante volte infatti ci chiediamo perché si debba soffrire, perché il nostro essere cristiani debba necessariamente identificarsi nell’immagine di chi porta la croce.

Ma se provassimo a sostituire la parola “croce” con la parola “amore”, “Se qualcuno vuol venire dietro a me, condivida il mio amore, e mi segua”, pur non togliendo nulla alla forza di queste parole, avremmo forse dato un senso nuovo alla nostra sofferenza.

                Noi non soffriamo, ma amiamo, amiamo come Cristo ci ha insegnato.

Che cos’è la sofferenza e la croce di Cristo se non  l’espressione dell’amore  appassionata e l’affermazione alta che Dio ci ama. La croce è dunque il segnale massimo dell’amore per l’uomo lanciato da Dio, il punto ultimo in cui tutto si incrocia e si unisce per sempre: le vie del cielo con le vie della terra, le vie del cuore di Dio con quelle degli uomini. E su quella via del dolore che è scritto a lettere di sangue il più bel poema d’amore di tutti i tempi.

                Se la croce di Cristo è la rivelazione dell’amore più grande del Padre, allora le nostre croci non sono le fatiche, le malattie, i piccoli dolori quotidiani, tutte cose inevitabili ma solo da sopportare, le nostre croci, invece, sono i gesti e le parole che sappiamo compiere rinunciando a noi stessi per amore di Cristo. Le nostre croci sono i segni della fiamma ardente che ci pervade e ci consuma per l’Amato. Non si tratta allora di prendere una croce, piuttosto è da scegliere un amore e una strada: l’amore di chi ci ha scelti e ama per prima; e la strada di chi vive senza appartenersi più.

Vivere infatti solo per sé è morire. Uno che non sa donare, che non si espropria un po’ di se stesso, che difende gelosamente tutto quello che ha tra le mani: beni, tempo, affetti e amicizia, si ritrova poi niente. Un giovane che è avaro di generosità è già vecchio a vent’anni. E un vecchio è doppiamente vecchio.

Al contrario, chi dona, perde e ritrova tutto: come Cristo, muore e risorge.

Le persone vive sono gli esseri generosi, appassionati di giustizia, di pace e di solidarietà. Sono questi che ogni giorno ci trasmettono il segreto di un’esistenza più alta e lo stupore di una continua resurrezione.

Nei tanti vuoti delle nostre esistenze, lasciamoci allora sedurre dalla pienezza di questo Amore incommensurabile; lasciamo che in questa desolazione senza nome si affacci il nome dell’Amato e si apra lo spazio necessario per l’azione di Dio, che nell’esperienza definitivamente chiarificatrice di Gesù di Nazaret assumerà i contorni della resurrezione.

La croce è un passaggio obbligato, è il prezzo dell’amore, ma dopo la croce vi è la resurrezione, ed è da quel momento, da quell’alba nuova che abbiamo imparato a non salvarci più da soli. Infatti, chi pretende di mettersi in salvo da solo imbocca la strada della morte; mentre trova vita soltanto chi sa spendere la propria vita affidandola alle mani paterne di Dio.

Perciò non temiamo la croce, ma ricerchiamola come nostra unica speranza di salvezza.  

Conclusione

                Nei versi dedicati alla croce la poetessa A. Merini scriveva: “Non so cosa cercavano gli uomini sotto la mia pelle./Forse il peso di una amore /che non li toccherà mai /se essi rifiutano l’obbedienza.”

Se non lasciamo entrare Dio nella nostra vita, non Lo mettiamo al centro di essa e rifiutiamo che Egli prenda possesso di tutto ciò che ci rende quelli che siamo, desideri, sogni, pensieri e sentimenti, non faremo mai esperienza di quel fuoco ardente che avvampa il cuore e, nonostante le nostre resistenze, ci fa uscire da noi stessi e ci fa compiere atti di risurrezione.

Serena domenica.

+ Vincenzo Bertolone

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mons.Bertolone durante la processione del Corpus Domini a Catanzaro
 

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