Vangelo di domenica 24 Ottobre |
Scritto da +A.Riboldi | |
sabato, 23 ottobre 2010 16:59 | |
Dal Vangelo di Gesù Cristo secondo Luca 18,9-14. Disse ancora questa parabola per alcuni che presumevano di esser giusti e disprezzavano gli altri: «Due uomini salirono al tempio a pregare: uno era fariseo e l'altro pubblicano. Il fariseo, stando in piedi, pregava così tra sé: O Dio, ti ringrazio che non sono come gli altri uomini, ladri, ingiusti, adùlteri, e neppure come questo pubblicano. Digiuno due volte la settimana e pago le decime di quanto possiedo. Il pubblicano invece, fermatosi a distanza, non osava nemmeno alzare gli occhi al cielo, ma si batteva il petto dicendo: O Dio, abbi pietà di me peccatore. Io vi dico: questi tornò a casa sua giustificato, a differenza dell'altro, perché chi si esalta sarà umiliato e chi si umilia sarà esaltato». (seguono commenti di mons. Vincenzo Bertolone e di mons. Antonio Riboldi) XXX Domenica del Tempo Ordinario 24 Ottobre 2010 Oro ergo sum Introduzione - La lezione di Gesù sulla preghiera, iniziata domenica scorsa, continua in questa XXX Domenica del Tempo Ordinario. Certo, due domeniche non possono essere esaustive per un tema così fondamentale per la vita del cristiano. La preghiera, infatti, costituisce il respiro stesso dell’anima del discepolo, aprendo a Dio la propria verità di essere. Tuttavia pochi insegnamenti del Maestro bastano per schiudere orizzonti sconfinati di riflessione e meditazione attraverso i quali esaminare il proprio modo di vivere ed esprimere la fede e, se occorre, raddrizzare la rotta. E se domenica scorsa Gesù ci ha invitato a riflettere sulla necessità della preghiera “insistente”, oggi prosegue il suo insegnamento su “come” il cristiano debba pregare e per porsi in dialogo con Dio. Il metodo di insegnamento è lo stesso di domenica scorsa: una parabola. Cambia il contenuto, cambiano anche gli attori – Gesù mette a confronto il modo di pregare di un fariseo e quello proprio di un pubblicano -, ma l’impressione è la stessa: non un quadro ideale, ma un bozzetto di vita vissuta, che per la sua forte adesione alla realtà interpella le nostre coscienze e fa presa sulle nostre anime. Accanto alla preghiera, oggi affrontiamo indirettamente un secondo tema: quello della missione. L’occasione la fornisce il bilancio finale che Paolo fa della propria vita e missione. Preghiera e missione non sono separate fra loro, ma complementari: un’ attività missionaria coerente, umile, coraggiosa, spinta sino al sacrificio totale è riflesso di una spiritualità feconda, che trova nell’amore di Dio la sola ragione di operare e di osare; e dal dialogo ininterrotto con il Padre deriva la forza necessaria per restare fedele anche nella prova.
Questione di dettagli Se facessimo un gioco di ruoli sarebbe curioso sapere quanti di noi indosserebbero i panni del pubblicano e quanti quelli del fariseo. Sicuramente a parole tutti diremmo di sentirci dei pubblicani, ma poi il nostro modo di essere e pregare rischierebbe di smascherare l’ipocrisia del nostro modo di vivere e testimoniare la fede. Certo, potrebbe attribuirsi ad un atto involontario della mente credere che il nostro modo di essere e pensare sia giusto; invece volontario è scegliere il parametro di confronto: se sia giusto davanti agli uomini o giusto davanti a Dio. Forte infatti è la tentazione di mettersi davanti a Dio come davanti “ad un notaio”, che registri l’elenco dei nostri meriti e per quelli ci giustifichi. Seducente anche presentarci migliori rispetto a tanti altri, che invece, secondo noi non lo sono. Ma non si può pregare e disprezzare: cantare Dio e avere un “super- Io”; sentirsi buoni e inebriarsi dei difetti altrui. Ma al di sopra di tutto non si può ricercare il colloquio intimo con Dio, dichiararsi suoi familiari e poi dimenticare la parola più importante del cosmo: “Tu”. Non è una dimenticanza da poco, giacché venendo meno quel “Tu” si innesca una reazione a catena in seguito alla quale viene meno il bisogno di Dio; il dialogo con Lui non apre più l’animo alla sete di mistero, ma lo ripiega in una sterile autoreferenzialità; si conosce la distinzione tra bene e male, ma solo agli altri si attribuisce il male; si conosce il giudizio di Dio, ma si ha la presunzione di esserne giustamente esentati. La preghiera, allora, diventa un monologo dove al centro dell’universo sono due vocali magiche e seducenti: “io”. E l’ “io” è così pieno e orgoglioso di sé da non lasciare spazio a Dio. Perciò, alla fine, bisogna accettare che non è Dio a prendere le distanze dal fariseo che fa capolino in noi, ma siamo noi a prendere le distanze da Dio. Infatti, quando nella preghiera prende il sopravvento l’ “io”, Dio è di troppo, è solo una muta superficie su cui far scivolare la nostra vanagloria. Questi possono essere “dettagli”, ma sono decisivi, giacché stabiliscono la nostra posizione davanti a Dio. Se viceversa consideriamo il “dettaglio” antitetico del pubblicano, la situazione cambia decisamente, giacché proprio quel piccolo particolare fa la differenza, determinando cioè la salvezza del “meno meritevole” agli occhi degli uomini ma “più meritevole” agli occhi di Dio. Il “dettaglio” del pubblicano è il timore di fronte alla Santità e alla infinita misericordia di Dio, ovvero l’umiltà nel riconoscersi profondamente peccatore e, dunque, indegno della familiarità di Dio. Qui è il pubblicano a prendere le distanze da Dio, ad abbassare capo e sguardo, a mettersi in fondo al tempio, nella penombra, per accusare i propri peccati e invocare il perdono divino. Il pubblicano ha bisogno di Dio. mette al centro della sua preghiera non se stesso ma la pietà divina, non si ferma all’ “io”, ma ricerca il “Tu” della salvezza. Anche questi possono essere “dettagli”, ma sono “dettagli” che salvano, liberano, aprono la porta del cuore a un Dio più grande del proprio peccato, a un Dio più grande del proprio cuore, all’amore di un Dio che non si merita per diritto di nascita, per giustizia o virtù, ma si accoglie con fiducia e totale abbandono. “Gli umili saranno esaltati”, la loro preghiera si eleverà leggera oltre le nubi e arriverà all’orecchio di Dio. Pregare è, quindi, ben altra cosa che autocelebrarsi, vantarsi, mostrarsi meritevoli e perfetti nella prassi religiosa. Pregare è consapevolezza umile della propria indegnità, di fronte alla quale non si può fare altro che invocare la misericordia di Dio, l’unica nostra salvezza. Grande lezione abbiamo ricevuto in questa domenica: se vogliamo essere uomini di preghiera autentici, dobbiamo partire dalla nostra mediocrità, dobbiamo riscoprire il senso dell’essere peccatori. Infatti, è solo quando si è caduti in basso che si crede nella spinta in alto; ma se si è già in alto difficilmente ci si scomoda per salire ancora più su. Si impara a dipendere totalmente da Dio, a puntare tutto su di Lui, solo quando si rinuncia a contare su se stessi e tale rinuncia arriva quando si prende coscienza della propria pochezza. Diversamente, chi ha la presunzione di essere perfetto, di avere tutto, di bastare a se stesso, non avrà di certo bisogno di Dio. Un uomo nuovo Nel momento in cui ci si scopre bisognosi di Dio tutto cambia. Infatti, frutto maturo e dolce di una preghiera autentica è la trasformazione, perché il desiderio di avvicinarsi a Dio scuote corpo e anima, e l’incontro intimo con Lui purifica come fuoco e immerge nel Suo Mistero. È quanto accaduto all’apostolo Paolo sulla via di Damasco: da rigido osservante e “guardiano” della Legge e infaticabile ricercatore di verità, alla fine la Verità gli si è fatta incontro e tutto in lui è cambiato. La giustizia dell’uomo cede il passo alla giustizia di Dio, riconosciuta nella verità assoluta di Cristo, Figlio unigenito e Messia. Paolo ammette di aver confuso la verità delle cose e dinnanzi all’impatto con la Verità, capisce che è tutto da rifare, da ribaltare. Nel momento stesso in cui gli fa capire di aver sbagliato tutto, Gesù chiama Paolo e lo manda come apostolo. Dunque, la lezione di Paolo è chiara: “Il Dio del Vangelo e della misericordia è Colui che nell’istante in cui mi fa capire che ho sbagliato tutto su di Lui, perché ho messo me stesso al suo posto”, non solo “mi dimostra la sua misericordia nel perdonarmi” ma “mi dà fiducia nel chiamarmi al suo servizio, affidandomi la sua stessa Parola” (C.M. Martini). Proprio in virtù di questo perdono e di questa consegna Paolo potrà dire alla fine della vita: “Ho combattuto la buona battaglia” della fede, “ho terminato la corsa, ho conservato la fede” (2Tm 4,7). Può dire ciò non con la superbia di chi ha fatto tutto da solo, contando esclusivamente sulle proprie forze; ma con l’umiltà di chi un giorno ha sperimentato la caduta nell’abisso del peccato ed è stato rialzato da una mano paterna alla dignità del perdono. Paolo, ancorato saldamente a questa esperienza di fede, si spenderà sino alla fine affinché quanto conosciuto e vissuto sia diffuso. Dunque l’intimità di Paolo con Cristo, attraverso la ricchezza di un dialogo intenso e ininterrotto, lo porta a spingersi coraggiosamente in territori “ostili”; a farsi provocare dai lontani; ad affrontare la solitudine nella prova e ad offrirsi in l’olocausto. Paolo supera tutti questi momenti grazie alla preghiera. Nella sua preghiera, troviamo l’angoscia, la paura, il timore che si provano quando ci si offre e si è pronti ad affrontare la realtà. In definitiva, ciò che in noi è tumultuosamente conflittuale, e perciò ci impedisce di agire, ci paralizza nella paura e ci porta a rimandare le decisioni, se messo a fuoco nella preghiera, ci unifica e ci permette di riprendere in mano la nostra capacità di decidere e ci fa, alfine, dire: “Sia fatta la tua volontà”, “si compia in me ciò a cui sono chiamato”. Conclusione Due lezioni, un solo messaggio: l’uomo orante è uomo di missione. La preghiera, infatti, non è rinuncia, inerzia, mancanza di responsabilità, assenza di scelta, ma è tensione verso un “Tu” che dilata, incoraggia ad andare oltre e spinge a percorrere una strada d’amore, dando la forza necessaria di osare nell’impegno. Serena domenica + Vincenzo Bertolone
E' una diffusa abitudine tra noi uomini, decantare quello che 'appariamo', quasi in una gara di meriti e virtù, nella ricerca di apparire il migliore. Ma altro è quello che appariamo ed altro è quello che siamo. Difficile conoscere l'intimità di ciascuno e quindi la verità. Sfugge a ciascuno di noi. Io vi dico: questi tornò a casa giustificato, a differenza dell'altro, perché chi si esalta sarà umiliato e chi si umilia sarà esaltato" (Lc.18,9-14). Stupenda la figura del pubblicano, un termine che stava ad indicare allora tra i farisei una persona che non era perfettamente ligia alle consuetudini dei farisei. Consuetudini che non riflettevano la bontà interiore e che Gesù bollava come ipocrisia, ossia una maniera di nascondere la realtà interiore, facendo sfoggia di esterità che erano vere maschere dell'anima. E ci vuole una bella faccia tosta di mettersi davanti a Dio – e davanti anche a noi uomini – a raccontare le nostre virtù e i nostri meriti! Stupendo invece l'atteggiamento del 'pubblicano', che sa perfettamente di essere un povero peccatore e mette nelle mani di Dio la sua immensa povertà, chiedendogli solo 'pietà'. Forse non sapeva neppure che era proprio questa umiltà che è la verità di noi stessi, ciò che è tanto cara a Dio ed attira la Sua misericordia che ci riveste di divina bellezza, vera bellezza del cuore. Così come forse non sapeva il fariseo, accecato dalla sua superbia, che in Dio, perfettissimo, suscita disgusto la superbia dell'uomo. E la superbia è farsi belli davanti agli uomini ed essere 'considerati': un modo insomma per fare sentire piccoli gli altri, come fossimo dei, e quindi umiliare chi deve essere amato. Perché qui è la differenza tra superbia e umiltà: il superbo umilia sempre chi gli passa vicino fino a considerarlo cosa di poco conto o nessun conto. L'umile invece ha un atteggiamento così buono e disponibile che tende ad elevare tutti quanti vede, anche i peccatori: ossia innalza gli altri. Un grande poeta che davvero aveva tutte le caratteristiche del santo, Padre Clemente Rebora, che fu anche per un tempo mio padre spirituale, aveva sempre un atteggiamento che ti faceva sentire a tuo agio accanto a lui. Gli parlavo dei romanzi russi che leggevo, li commentavo e lui assentiva, senza sapere che lui era un grandissimo conoscitore della letteratura russa. A volte amavo strimpellare sull'organo: un vero disastro come musicista: e poi chiedevo a lui se piaceva ciò che avevo suonato. Non fosse stato umile mi avrebbe chiamato 'somaro!' Invece no: lui che conosceva bene la musica ed era un amante del pianoforte, sorrideva come a compatire la mia stupida voglia di vantare ciò che non ero. Di sé diceva: "Io amo reputarmi 'concime', perché solo così posso essere utile per fare crescere il seme che Dio getta nel campo della Chiesa. Purtroppo il Vangelo di oggi è sempre più una realtà che incontriamo. Auguro ai miei amici di Internet di avere l'animo del 'pubblicano' e non quello del fariseo. Perché la gente, noi, abbiamo bisogno di gente umile che accoglie ed innalza e non di superbie che ti mortificano. +A.Riboldi |
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