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Vangelo di domenica 26 settembre PDF Stampa E-mail
Scritto da +V.Bertolone   
venerdì, 24 settembre 2010 21:53
ImageDal Vangelo di Gesù Cristo secondo Luca 16,19-31 - C'era un uomo ricco, che vestiva di porpora e di bisso e tutti i giorni banchettava lautamente. Un mendicante, di nome Lazzaro, giaceva alla sua porta, coperto di piaghe, bramoso di sfamarsi di quello che cadeva dalla mensa del ricco. Perfino i cani venivano a leccare le sue piaghe. Un giorno il povero morì e fu portato dagli angeli nel seno di Abramo. Morì anche il ricco e fu sepolto.
Stando nell'inferno tra i tormenti, levò gli occhi e vide di lontano Abramo e Lazzaro accanto a lui. Allora gridando disse: Padre Abramo, abbi pietà di me e manda Lazzaro a intingere nell'acqua la punta del dito e bagnarmi la lingua, perché questa fiamma mi tortura.
Ma Abramo rispose: Figlio, ricordati che hai ricevuto i tuoi beni durante la vita e Lazzaro parimenti i suoi mali; ora invece lui è consolato e tu sei in mezzo ai tormenti. Per di più, tra noi e voi è stabilito un grande abisso: coloro che di qui vogliono passare da voi non possono, né di costì si può attraversare fino a noi. E quegli replicò: Allora, padre, ti prego di mandarlo a casa di mio padre, perché ho cinque fratelli. Li ammonisca, perché non vengano anch'essi in questo luogo di tormento. Ma Abramo rispose: Hanno Mosè e i Profeti; ascoltino loro. E lui: No, padre Abramo, ma se qualcuno dai morti andrà da loro, si ravvederanno. Abramo rispose: Se non ascoltano Mosè e i Profeti, neanche se uno risuscitasse dai morti saranno persuasi».

XXVI Domenica del Tempo ordinario

26 settembre 2010

 

Una storia da vivere

 

Introduzione

 

                La riflessione, iniziata con le letture di domenica scorsa, si arricchisce e si  conclude con la Parola di questa XXVI Domenica del Tempo ordinario. Infatti, prosegue la profezia di Amos con il peso della sua sconcertante attualità; continua, anche, la sollecitudine dell’apostolo Paolo rivolta a tutti i cristiani perché diventino uomini migliori, del tutto conformi al sentire, all’agire e al parlare di Cristo Signore.

E né si ferma il richiamo del Maestro, che, attraverso l’immagine molto suggestiva della parabola “del ricco cattivo e del Lazzaro povero”, invita i credenti a compromettersi nella storia, con la forza della verità del Vangelo.

 

Il coraggio delle scelte

 

                Una delle tendenze più diffuse di pensatori, ma anche di certi politici, del nostro tempo, paladini di una ambigua laicità dello Stato e della vita sociale, è di mettere il “bavaglio” alla Chiesa, etichettando tutti i Suoi interventi, sulle questioni relative alla vita, alla dignità dell’uomo, alla difesa dei diritti più elementari della persona, come inaccettabili ingerenze.

Ma come abbiamo ricordato domenica scorsa, la Chiesa, e tutta la comunità cristiana, non può disinteressarsi delle questioni riguardanti l’uomo, perché l’uomo è il fine ultimo di Dio, dunque della Chiesa stessa.

                Così, anche in questa domenica dalle parole del profeta Amos si leva coraggiosa la denuncia contro la corruzione dei “notabili”, i moderni governanti, del popolo di Israele. Essi si arricchivano senza scrupoli e incuranti della sofferenza e della miseria del proprio popolo.

Una denuncia simile non può dirsi ad esclusivo appannaggio di questa o quella categoria di persone, deve invero partire da tutti, perché offende e viola i diritti di tutti.

Cicerone scriveva nel De officiis: “Non vi è dunque vizio più odioso dell’avidità, specialmente nei cittadini più autorevoli e che sono a capo dello Stato. Considerare, infatti, lo Stato come una fonte di guadagno, è non solo una cosa turpe, ma anche scellerata e nefanda” (6,77).

Ciò che è “scellerato” e “nefando” deve necessariamente essere condannato da tutti. Non si può tacere, quando a danneggiare i più deboli sono proprio quelli che ne dovrebbero garantire e tutelare i diritti.

                Anche in una società in cui dominante è il pensiero relativista,  si deve ribadire che il buon governo deve avere come fine ultimo il raggiungimento del benessere e della pace sociale a beneficio di ogni uomo, in una parola il bene comune. Questa è una verità che non ha colori o etichette; è valida a prescindere dal definirsi laici o credenti, dalla militanza politica o dalla fede che si professa, ed è, soprattutto, il motore d’azione di quanti intendono amministrare la cosa pubblica.

Il fine ultimo, dunque, di ogni azione politica, legislativa e giuridica deve essere la persona e non la soddisfazione della propria bramosia di ricchezza e di potere. Anzi di fronte a casi, palesi e nascosti, di arrivismo spietato, egocentrismo assoluto e corruzione, da tutti si dovrebbe avere il coraggio di denunciare l’ingiustizia, il torto commesso; chiunque dovrebbe vanificare i tentativi criminosi di chi governa per il proprio tornaconto.

Il primato dell’uomo va salvaguardato a qualsiasi latitudine e a qualunque prezzo.

Non occorre essere necessariamente credenti o atei per condannare l’indifferenza e la sperequazione dei pochi che contaminano il mondo e avvelenano le relazioni umane; è necessario piuttosto essere uomini di buon senso, amanti del giusto, del bene, del vero e dell’uguaglianza fra gli uomini.

                Certo a quanti fra i cattolici scelgono di servire i fratelli nella politica, si chiede qualcosa in più. Prima di tutto si chiede l’impegno e il coraggio di non sporcarsi le mani né di contaminare la coscienza e il cuore, anche se trattato affari della cosa pubblica, ovvero pensare e agire nelle situazioni concrete senza scendere a compromessi, ma avendo come unico criterio di valutazione e scelta Dio stesso e il bene dell’uomo. In altri termini, partecipare alla vita sociale e civile sforzandosi di trovare soluzioni secondo la logica evangelica che capovolge la scala dei valori dell’opinione comune di turno.

In secondo luogo si chiede la forza di resistere e la prontezza nel reagire. Oggi, i cattolici impegnati in politica devono iniziare a muoversi con urgenza e serietà nella linea del Vangelo, senza indugiare, senza cercare compagni sui quali appoggiarsi, se intorno non se ne trovano; senza perdersi nelle chiacchiere ripetitive che poco si può fare e che a volte è necessario scendere a compromessi. Senza aspettare, infine, proposte di soluzioni globali, giacché anche la goccia d’acqua ha il suo peso. L’iniziativa personale ha il suo valore.

                 E Gesù, poi, non chiede di essere oceani, ma gocce d’acqua; chiede solo una vita spesa per promuovere la giustizia, la verità, la misericordia e l’amore a partire dalla propria realtà. Infatti, solo facendo bene, con amore per Dio e i fratelli, ciò che si è chiamati a fare nel proprio piccolo c’è speranza di salvezza per tutto il mondo.

“Se quando si immerge la mano nel catino dell’acqua, se quando si attiva il fuoco col soffietto, se quando si allineano interminabili colonne di numeri al proprio tavolo di contabile, se quando scottati dal sole, si è immersi nella melma della risaia, non si realizza la stessa vita religiosa di quando ci si trova in preghiera in un monastero, il mondo non sarà salvo” (Gandhi).

 

Una vita al cospetto di Dio

 

                La citazione di Gandhi introduce il secondo punto della nostra riflessione: non solo chi riveste ruoli di responsabilità è chiamato a impegnarsi nella storia per amore del Vangelo, ma tutti i cristiani, singolarmente e nel proprio specifico, sono chiamati a farlo, giacché formano l’anima della società in cui vivono. Nostra è infatti la coscienza e la responsabilità di discernere di volta in volta ciò che è evangelico nella concretezza delle situazioni.

                Perciò, di fronte ai drammi della società non ci si può nascondere dietro l’alibi dell’impotenza; e né ci si può rifugiare nel caloroso rapporto intimo con Dio: se la nostra fede non valica la nostra devozione e convinzione personale e non diventa servizio al fratello, impegno solerte per costruire una società rigenerata, illuminata e inabitata da Dio, resta una fede sterile, non incarnata.

Là dove viviamo siamo chiamati ad amare nella concretezza. Siamo chiamati a vivere una cittadinanza consapevole, che si fa carico del povero vicino, che riconosce il “Lazzaro” presente in mezzo a noi.

                Dunque, “la buona battaglia della fede”, come la definisce san Paolo, va vissuta nel concreto della nostre situazioni, conducendo una vita non superficiale, ma profondamente radicata nel presente e al contempo protesa verso quel giorno ultimo, nel quale prevarrà per tutti la giustizia di Dio, che è misericordia per chi ha scelto la misericordia ed è condanna per chi l’ha rifiutata.

È qui che costruiamo il nostro domani eterno. Esso è fatto delle scelte che prendiamo ogni giorno, per cui se nel nostro presente scaviamo un abisso tra noi e il fratello nella sofferenza, tra noi e Dio, non solo finiremo per vivere già da ora il nostro inferno da separati nel mondo, ma lo troveremo anche nel nostro domani. Mentre se ascolteremo il grido del povero e ne avremo compassione, ci avvicineremo a Dio e troveremo nel nostro domani la gioia piena nell’abbraccio del Padre.

Sul domani si gioca, quindi, la vita di oggi, per questo non si può vivere senza fare i conti con questo domani, con la profondità del tempo, con l’esterno, con la morte, con “la manifestazione del Signore”. Infatti, il vivere in prospettiva di queste realtà finali rende la vita cristiana realmente differente e autentica la testimonianza della fede professata.

Il cristiano, di fatto, è uomo di fede quando vive in mezzo ai suoi stando sempre al cospetto di Dio. E vivere al cospetto di Dio, qui e ora, è preparare le basi del Regno del domani; è far risaltare nella propria quotidianità il volto santo del Padre; è essere luce che, con le proprie povere forze, riflette in qualche modo la luce e la santità di Dio.

          Certo, nessuno assicura che essere cristiani è facile, le tentazioni sono tante, si presentano a volte con l’aspetto della benignità o del non voler provocare alcun male, ma sono subdole, affascinano e trascinano. Né è una giustificazione dire che siamo deboli e che necessariamente dobbiamo cedere e cadere, perché questo ragionamento condurrebbe alla conclusione che non si può essere santi.

Tuttavia, radicati nel Padre, uniti al Figlio e fortificati dallo Spirito, possiamo vivere i nostri tempi immersi nella storia, trasmettendo e testimoniando il lieto annuncio del Vangelo che è realtà di vita bella, buona e ci rende felici.

 

Conclusione

 

                La fede non è il modo più sicuro per fuggire dal mondo, anzi è il modo più sicuro per entrare nella storia, partecipando alla vita sociale e civile secondo lo stile del servizio e non dell’abuso. È la fede, in altri termini, che ci consente di coinvolgermi nei diversi spazi dell’agire umano senza pregiudicare la verità del Vangelo. É infine la fede che apre alla consapevolezza di essere uomini differenti perché impastati di terra e di cielo.

“I cristiani […]. Dimorano nella terra, ma hanno la cittadinanza nel cielo. Obbediscono alle leggi stabilite, e con la loro vita superano le leggi […]. A dirla breve, come è l’anima nel corpo, così nel mondo sono i cristiani. L’anima è diffusa in tutte le parti del corpo, ma non è del corpo; i cristiani abitano nel mondo, ma non sono del mondo […]. Dio li ha messi in un posto tale che ad essi non è lecito abbandonare” (Lettera a Diogneto 2-6)  

 

Serena domenica.

 

                                                                                                                             + Vincenzo Bertolone

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