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Vangelo di Domenica 5 Settembre PDF Stampa E-mail
Scritto da +V.Bertolone   
sabato, 04 settembre 2010 09:24
ImageDal Vangelo di Gesù Cristo secondo Luca 14,25-33 -  Siccome molta gente andava con lui, egli si voltò e disse: «Se uno viene a me e non odia suo padre, sua madre, la moglie, i figli, i fratelli, le sorelle e perfino la propria vita, non può essere mio discepolo. Chi non porta la propria croce e non viene dietro di me, non può essere mio discepolo. Chi di voi, volendo costruire una torre, non si siede prima a calcolarne la spesa, se ha i mezzi per portarla a compimento? Per evitare che, se getta le fondamenta e non può finire il lavoro, tutti coloro che vedono comincino a deriderlo, dicendo: Costui ha iniziato a costruire, ma non è stato capace di finire il lavoro. Oppure quale re, partendo in guerra contro un altro re, non siede prima a esaminare se può affrontare con diecimila uomini chi gli viene incontro con ventimila? Se no, mentre l'altro è ancora lontano, gli manda un'ambasceria per la pace. Così chiunque di voi non rinunzia a tutti i suoi averi, non può essere mio discepolo. (segue commento di mons. Bertolone)

 

XXIII Domenica del Tempo Ordinario

5 Settembre 2010

 

A scuola  di  radicalità

 

Introduzione

 

                Se molti degli insegnamenti di Gesù, nelle ultime domeniche, ci hanno sconvolto, le parole pronunciate dal Maestro in questa XXIII Domenica del Tempo Ordinario scuotono dalle fondamenta ogni nostra certezza, mettendo in crisi scale di valori comunemente consolidate.

Sono parole, infatti, che si conficcano nella carne come chiodi; parole di cui abbiamo da tempo dimenticato il sapore.

Di fatto, oggi, chi ci parla di radicalità, di totalità? Nessuno. Siamo abituati ormai ai sentimenti “usa e getta”, all’impegno “sì, ma non troppo”, a vivere una vita da “gratta e vinci” e “superenalotto”, in balia di una fortuna oscillante che si dissolve come nebbia al sole.

Nessuna passione per cui valga la pena orientare tutta la vita, scommettere ogni energia; si è felici correndo dietro gioie effimere e, se anche ci si dovesse chiedere se c’è altro, nell’estrema debolezza in cui versa la volontà dell’uomo, si rischierebbe di vendere la propria identità al primo venuto che propaganda tradizioni e religione con svendite promozionali.

                L’uomo merita più di tutto questo, il segreto nascosto nel proprio cuore,  che conferisce alla persona una dignità ben più superiore della mediocrità nella quale affondiamo ogni giorno, si nutre di ben altro. Si nutre di quella verità che rende gli occhi, il cuore e la mente capaci di guardare in profondità, scrutare lontano nell’orizzonte e cogliere quella sapienza che spinge in alto.

                A chi si nutre di profondità, speranza e futuro non fa paura la radicalità di Gesù, anzi le parole, che Egli pronuncia, sono il carburante indispensabile, insieme ai Sacramenti, per vivere secondo la grande passione del tutto, ovvero mettere l’amore di Cristo e per Cristo prima di ogni cosa, al centro della vita per conquistare la pienezza della vita.

 

La radicalità dell’amore

 

                Nelle versioni più recenti dei Vangeli il verbo “odiare”, che pronuncia Gesù nella pagina lucana di questa Liturgia domenicale, è stato sostituito con un più blando “amare di meno”. È una traduzione corretta, ma sicuramente non ha lo stesso spessore dell’ “odiare” semitico, la stessa passione, la stessa radicalità che trasmette la forma e il contenuto di quell’ “odiare”.

                Infatti, quell’ “odiare”, ovvero “amare di meno”, dà la reale percezione di quanto debba essere radicale l’amore per Cristo: Egli esige non “tanto” amore, ma “tutto” l’amore possibile. Addirittura, deve essere più forte di quanto se ne possa provare per una madre, un padre, un fratello o la vita stessa.

Ad una prima lettura questa richiesta sembra assurda e contraddittoria: non è stato forse il Padre a comandare che si “onori il padre e la madre”? E ora il Figlio ci dice di “amarli di meno”! Non è stato forse il Figlio stesso a dire di “amare il prossimo come noi stessi”? E ora ci chiede di amare di meno anche noi stessi!

                In realtà, facendo appello alla sapienza del cuore, ci si rende conto che l’incoerenza iniziale si dissolve di fronte alla verità di una radicalità che nutre e motiva  ogni altro amore. Così, “amare di meno” padre, madre, fratello e figlio significa non restare chiusi nel piccolo cerchio della propria casa, facendone la misura del presente e del futuro, ma è capacità di dilatare i confini angusti del proprio cerchio familiare, amando allo stesso modo ogni padre e madre, figlio e fratello che abbia bisogno di quell’amore. E, poi, “odiare” la propria vita è semplicemente un appello a non essere misura di se stessi: il proprio segreto è altrove, è oltre se stessi. Per questo solo perdendo se stessi si ha la garanzia di saper amare di un amore puro, immotivato.

                Tuttavia, se non si antepone l’amore di Dio a tutto, non si è capaci né di dilatare gli orizzonti dell’amore familiare né di amare in modo puro e immotivato. Infatti, solo amando Dio per prima sapremo amare dello stesso amore noi stessi e gli altri: “L’amore vicendevole non sarebbe autentico senza l’amore di Dio. Uno infatti ama il prossimo suo come se stesso, se ama Dio; perché se non ama Dio, non ama neppure se stesso “ (Sant’ Agostino).

Per amare con purezza e nella radicalità, dunque, è necessaria una scelta radicale: seguire Cristo e amarlo al di sopra di tutto per amare di più, oppure, seguire se stessi e farsi unico riferimento per non amare affatto. 

La fede si gioca sulla radicalità dell’amore: rifugge compromessi, accomodamenti, tiepidezza; e si fa fiume travolgente che inonda fecondando tutto il terreno della vita, è il vertice della scala dei valori sul quale si ordina tutto il resto.

 

La radicalità dell’impegno

 

                Un amore così radicale, che esige non “tanto”, ma “tutto”, porta naturalmente al cambiamento. Infatti, una volta scelta la via che conduce a Cristo, si acquista anche il coraggio della rinuncia, ma non in vista di una perdita piuttosto a favore di un guadagno. E se Cristo chiede tutto, tutto sarà il nostro guadagno a méta raggiunta.

                Se, dunque, ci limitassimo a fissare lo sguardo sul tutto esigente di Cristo – rinuncia agli averi, rinuncia alla vita, rinuncia all’amore - , la proposta di vita alternativa fatta da Gesù, francamente risulterebbe inquietante e spaventosa; e ci sembrerebbe, inoltre, tuttaltro che accattivante e positiva per noi.

In realtà, per vedere realmente quanto accattivante sia l’alternativa di vita proposta da Cristo bisogna guardare con occhi diversi: avere quell’intelligenza del cuore che punta sul vero nucleo centrale della proposta del Maestro. Ed ecco che sequela non significa “rinuncia”, piuttosto “conquista”; non è sul punto di partenza, ma sulla meta, Cristo, verso cui bisogna orientare ogni energia, pensiero, sogno, azione. Cristo è di fatto l’unica alternativa valida che dia già ora e qui sapore di eternità a tutto ciò che di bello portiamo nel nostro cuore.

                La vita va avanti per una passione, non per una o molte rinunce, non a colpi di sacrifici. “Non s’impara se non ciò che si ama” (J. W. Goethe). E l’identità dell’uomo riflette, inevitabilmente, ciò che ama, ciò che contempla con gli occhi. Questa è la via del discepolo animato dalla grande passione per Cristo: egli orienta tutta la sua vita verso la meta finale, nella quale ha riposto la sua totale fiducia.

                Dunque, tutto il cammino di fede è anche radicalità dell’impegno: impegno nel “portare” tutti i giorni la croce, ovvero assumersi il peso delle proprie responsabilità e delle proprie scelte orientate alla scuola di Cristo. E l’adesione alla Sua scuola non è adesione coraggiosa ed entusiastica di un momento, è scelta pesante, continua, quotidiana; è scelta però affrontata con la speranza rivolta ad un futuro di Eternità.

                Allora non cediamo alla tentazione della mediocrità, della ricerca affannosa di trovare risposte di senso in una società che si illude di darle, alla tentazione di accontentarsi di felicità effimere e portatrici di tristezza e morte. Rivolgiamoci, invece, alla ricerca di Colui Che solo può darci un senso, uno scopo, una verità.

Solo Cristo, infatti, può colmare la nostra inquietudine, Lui solo è risposta al desiderio di felicità di cui è pieno il nostro cuore. Mettendoci, poi, alla ricerca della Verità, il cambiamento è inevitabile: non si potrà che migliorare, diventare uomini capaci di vivere sulla terra come se fossero già in cielo.

 

Conclusioni

 

                Tiro le somme di questa breve riflessione domenicale, affidandomi alle parole di uno scrittore e pensatore tedesco H. Hesse, il quale scrisse: “Uno strano, ma semplice segreto della saggezza di tutte le epoche ci dice che ogni sia pur minima altruistica dedizione, ogni atto di simpatia, ogni atto d’amore ci arricchisce, mentre ogni sforzo di conquistare proprietà e potere ci debilita e ci impoverisce […] Potete schierarvi con Gesù o con Platone, con Schiller o con Spinosa: ovunque la suprema saggezza dice che non sono il potere né la proprietà né la conoscenza a rendere felici, ma esclusivamente l’amore”.

                Sintonizziamo le nostre vita sulle frequenze dell’unico Amore che possa renderci veramente felici e ricambiamo il dono di tanto Amore donandoci con la totalità della nostra vita.          

 

Serena domenica

 

                                                                                                              + Vincenzo Bertolone

 

 

 

La Scelta

XXIII Domenica del Tempo Ordinario (Anno C) (05/09/2010)
Vangelo: Lc 14,25-33   

Gesù si accorge che sono tante le persone che lo accompagnano verso Gerusalemme. Ed è proprio a questa grande folla, discepoli inclusi, che il Maestro decide di indirizzare alcuni suoi insegnamenti. La catechesi che rivolge loro è legata alla sequela; il tutto è finalizzato a renderli edotti sul significato profondo dell'essere discepoli, per evitare di aver corso o correre invano nella vita. Le parole riportate dal vangelo sembrano essere molto crude e distruttive, e anche una lettura sociologica potrebbe avvalorare ciò: Gesù vorrebbe l'annientamento della famiglia, cellula fondamentale di ogni società. Ma di per sé non è così. Gesù annuncia che ci devono essere delle rinunce per vivere bene il proprio discepolato e di conseguenza la propria fede. Nella vita di fede non deve prevalere il legame di sangue; ma l'amore per Gesù e il Vangelo deve essere anteposto a tutto ciò che ci contorna.
Al discepolo i legami familiari devono servire da trampolino di lancio per la realizzazione della propria vita e delle scelte che la stessa comporta, ma non devono trasformarsi in legacci che vincolano, non fanno respirare e portano la persona a vivere in un clima di eterna infelicità. Succede molte volte che alcune scelte non vengono fatte, o fatte male, perché così vogliono i genitori o familiari. Gesù non mette in discussione il ruolo della famiglia, ma dice che la stessa è chiamata a preparare le persone a stare in piedi da sole per poter fare delle scelte che mirano a stare bene con se stessi. Alcune volte capita di assistere, e non solo in passato, ad alcune forme di soffocamento da parte delle famiglie perché sì dà più importanza ai principi e alle cose terrene che a quelle eterne e durature. Si può dire che nella vita bisogna "amare di meno (odiare)" ciò che appartiene alla terra e "stimare" di più ciò che viene dall'alto… perché la nostra vita è una chiamata ad andare verso l'Alt(r)o.
A questo punto Gesù rincara la dose dicendo che bisogna anche "odiare" se stessi.
Altro rischio che si può correre, e Gesù ci mette in guardia, è quello dell'autocelebrazione. Bisogna entrare nell'ottica che noi siamo solo "servi inutili" e che il Padrone della messe è un Altro. La vita deve essere vissuta come un continuo servizio a Dio e a i Fratelli… e solo in questo modo riusciamo a realizzarla e darle un significato. La sequela serve a rafforzarci nella lotta contro il proprio egoismo e i propri interessi; se non ci fosse questa lotta gli altri sparirebbero dal nostro orizzonte. Gesù insegna che gli altri sono la nostra ancora di salvezza e senza quest'ancora saremmo come un'orchestra che suona in modo scoordinato, non amalgamato. Bisogna evitare di attribuirsi i meriti, perché davanti a Dio nessuno ha meriti, e pensare a come impostare la propria vita. È in questa visione che va collocato il significato delle due parabole: è necessario riflettere, pensare, fermarsi, saper attendere prima di intraprendere qualsiasi cammino o iniziativa. Non bisogna essere temerari, superficiali, frettolosi etc.
Le parole del vangelo dicono che al primo posto ci deve stare la fedeltà alla propria missione di uomini e di cristiani, e che una volta fatta la scelta non ci deve essere spazio ad un eventuale ripensamento legato a motivi inconsistenti o a vecchie nostalgie che albergano in qualche angolo recondito del nostro cuore. Iniziata l'opera deve essere portata a compimento. Oltre a tutto ciò, c'è da sottolineare un ulteriore insegnamento: a Gesù non interessano i numeri, e noi siamo abituati a ragionare con il criterio quantitativo, ma la qualità. Quindi, altro luogo comune da sfatare è che la riuscita delle nostre iniziative, di qualsiasi genere, non deve essere misurata dalla quantità dei partecipanti, ma dalla qualità… perché quei "pochi" potrebbero avere un cuore più grande di tutti i "molti" messi insieme. È questa una pagina che ci invita a prendere in mano la nostra vita e a non essere cristiani di quantità, ma di qualità.

Buona Domenica!!!
(da La Parrocchia.it)

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