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Vangelo di domenica 1° Agosto PDF Stampa E-mail
Scritto da Fènelon   
sabato, 31 luglio 2010 06:56
François Fènelon
François Fènelon
Dal Vangelo di Gesù Cristo secondo Luca 12,13-21
.- Uno della folla gli disse: «Maestro, di' a mio fratello che divida con me l'eredità». Ma egli rispose: «O uomo, chi mi ha costituito giudice o mediatore sopra di voi?». E disse loro: «Guardatevi e tenetevi lontano da ogni cupidigia, perché anche se uno è nell'abbondanza la sua vita non dipende dai suoi beni». Disse poi una parabola: «La campagna di un uomo ricco aveva dato un buon raccolto. Egli ragionava tra sé: Che farò, poiché non ho dove riporre i miei raccolti? E disse: Farò così: demolirò i miei magazzini e ne costruirò di più grandi e vi raccoglierò tutto il grano e i miei beni. Poi dirò a me stesso: Anima mia, hai a disposizione molti beni, per molti anni; riposati, mangia, bevi e datti alla gioia. Ma Dio gli disse: Stolto, questa notte stessa ti sarà richiesta la tua vita. E quello che hai preparato di chi sarà? Così è di chi accumula tesori per sé, e non arricchisce davanti a Dio». (Nella seconda parte anche il commento di mons. Bertolone, vescovo della diocesi di Cassano Ionio)

 

Commento di Fénelon (1651-1715), arcivescovo di Cambrai

Accumulare per sè, o arricchirsi davanti a Dio ?
        Fratelli, qualunque sia l'età, qualunque sia lo stato in cui la morte ci prenda, essa ci sorprende, ci trova sempre nei disegni che suppongono una lunga vita. La vita, data soltanto perché ci prepariamo al termine al quale essa deve condurre, trascorre tutta intera in un profondo oblio di questo fine. Uno vive come se dovesse vivere sempre. Pensa soltanto a lusignare se stesso con ogni sorta di piaceri, quando la morte viene a fermare improvvisamente il corso di queste folli gioie. L'uomo, saggio ai propri occhi ma stolto agli occhi di Dio, si preoccupa in mille modi di accumulare beni di cui la morte sta per spogliarlo... Tutto dovrebbe avvertirci, e tutto ci diverte... Dalla nostra nascita, sono come cento mondi nuovi che si sono eretti sulle rovine di quello che ci ha visto nascere...
    Il cristianesimo invece ci insegna con chiarezza e forza ad aspettare la morte come il compimento delle nostre speranze. Eppure misconosciamo questo come se non fossimo mai stati cristiani. « O amabile Salvatore, che dopo averci insegnato a vivere, ti sei degnato di insegnarci a morire, ti supplichiamo, per i dolori della tua morte, di farci sopportare la nostra con umile pazienza, e di cambiare questa pena, imposta a tutto il genere umano, in un sacrificio pieno di gioia e di zelo. Sì, buon Gesù, sia che viviamo sia che moriamo, siamo tuoi (Rm 14, 8). Ma vivendo, lo siamo, purtroppo, con il triste timore di non esserlo più il momento seguente. Invece, morendo, saremo tuoi per sempre, e anche tu sarai tutto nostro, purché l'ultimo respiro della nostra vita sia un sospiro di amore per te.

 

mons Bertolone
Mons. Vincenzo Bertolone

XVIII domenica del Tempo ordinario – Anno C

1° agosto 2010

Arricchirsi di Dio

Introduzione

 

                Un filo rosso collega le letture di queste domeniche fra loro e con il momento che stiamo vivendo.

Domenica scorsa siamo stati esortati a dialogare con il Padre chiedendogli ciò che veramente serve alla nostra vita. Oggi, XVIII domenica del Tempo ordinario, ritorna l’appello accorato  a mettere al centro della nostra vita Dio, con il quale riscoprire il giusto valore di ogni cosa.

                Quanto al legame con il momento attuale, giacché proprio in questo periodo estivo, quando la sola regola da seguire è riporre ogni preoccupazione, affanno e fatica per godersi una parentesi di tranquillità e spensieratezza, ci viene incontro la saggezza antica e l’insegnamento nuovo: senza Dio anche la vacanza è un’illusione. Gesù, a fronte di questa felicità illusoria, offre una felicità eterna, da ricercare però non tra i beni che si possiedono o tra le disponibilità che si hanno per poterla raggiungere, ma da costruire vivendo, sempre in funzione di Dio, una vita che sa dare valore a tutto.

                In questo “tutto” includiamo l’esistenza intera, con le sue categorie di essere ed avere, ovvero ciò che si è e si ha. Ma è soprattutto all’essere che spetta il primato e la cura, giacché davanti a Dio questo conta veramente. Evidente è la carica “dirompente” di questo messaggio. Stride, infatti, il promuovere l’essere in mezzo ad una cultura che predilige, nutre e rafforza il mito dell’ avere, e tuttavia per essere autentici testimoni della nostra fede non possiamo fare altrimenti. Cominciamo da questa prima domenica di agosto a riflettere, illuminati dalla sapienza della Parola e guidati dalla mediazione della Chiesa, non tanto su ciò che dovremmo fare, o “avere”, ma su quello che dobbiamo essere.

 

Il nulla delle cose

 

                Tema caro al pensiero orientale e occidentale in ogni tempo è quello della vanità delle cose. Non c’è poeta, filosofo o scrittore che non abbia dato il proprio contributo ad incrementare il patrimonio di riflessioni, aforismi, aneddoti, semplici annotazioni sulla dimensione della vanità delle cose, del tempo, della vita.

Dal Testo Sacro alla filosofia, alla poesia, ai romanzi, le variazioni sul tema della vanità non si contano. Ma probabilmente il testo più sconcertante, per il senso di vuoto abissale che suscita nell’animo del lettore, è questo di Qoelet, con un ritornello “ossessivo”: “Vanità, tutto è vanità…vanità delle vanità”. Non semplice “vanità”, come la conosciamo grazie ai filosofi e ai letterati, ma una sensazione impalpabile, instabile che può spiegarsi solo grazie al valore semantico evocato dal termine havel, usato per indicare la nebbia sottile che si alza al mattino, al primo baluginare del primo sole, per poi sparire senza lasciare alcuna traccia. Ma il popolo eletto usava havel anche per indicare la rugiada, (invocata in mancanza di pioggia), la quale vive al massimo un’ora, per poi scomparire anch’essa al sopraggiungere del sole. Infine, per havel intendevano la scìa che lascia la nave quando solca l’acqua: uno spumeggiare biancastro che velocemente viene inghiottito sotto il pelo dell’acqua.

Tre immagini, tre esempi, che esprimono un solo concetto: l’assoluta inconsistenza, la brevità, l’instabilità. Ed è proprio a questa forte immagine dell’havel  che Qoelet va paragonando, ridimensionandola per riqualificarla, la fatica dell’uomo, l’affanno degno di miglior causa con il quale spera di realizzare i propri  progetti ed i dolori e le preoccupazioni penose che non lo fanno riposare neppure di notte.

Visto con la cultura contemporanea, ad havel si potrebbero associare la consistenza delle cose,  i falsi valori attorno ai quali costruiamo una intera vita. Sono havel, anche, i bisogni fittizi che il nostro mondo suscita nella nostra coscienza.

Dunque, se riporremo la nostra speranza, il nostro domani in queste cose, resteremo senza futuro giacché ogni cosa sparirebbe al primo raggio di sole.

Lo dice chiaramente la parabola lucana che abbiamo ascoltato: il ricco agricoltore, illudendosi di trovare il senso della propria vita, il motivo della propria felicità nelle sue cose, nella sua ricchezza, nella prosperità dei suoi granai, inganna se stesso. Infatti, catturato dal fascino dell’“io” e del “mio”, va incontro alla solitudine ed alla morte.

L’insegnamento è grande e sorprendente: Gesù non disprezza i beni della terra, e le buone gioie, ma punta il dito contro i miti ricorrenti elevati a rango di “beni” primari e bisogni, assolutamente da soddisfare se si vuole essere felici. Per esempio, la ricchezza come fonte di felicità, il profitto come filosofia di vita, ed il potere dei soldi. Ebbene, ci dice Gesù, questi sono tutti miti che non solo svaniscono di fronte alla Verità, ma non danno la felicità perché spengono la vita, la privano della possibilità di costruire quei ponti verticali, verso Dio, ed orizzontali, verso gli altri, che danno valore e sapore all’esistenza cristiana.

Gesù ammonisce di guardarsi dalla cupidigia (pleonexia = ricerca avida di denaro) in quanto l’attaccamento al denaro è la radice di tutti i mali (cf 1 Tm 6,10).

Ci rammenta Gesù che solo Dio può soddisfare i veri bisogni del nostro cuore.

 

Il tutto di Dio

 

                  Per attingere alla sorgente della vita non ci vuole il secchio dell’avere, ma a quello dell’essere. La vera ricchezza, da presentare a Dio infatti,è la riserva di acqua che abbiamo costituito donando noi stessi generosamente sempre e a tutti.

                Lo so che tutto ciò è assurdo per la logica del mondo, ma a noi deve interessare la logica di Dio. Per capacitarcene dobbiamo fare un po’ per volta esercizio di essenzialità, per non lasciarci sedurre dalle tante fiere delle vanità e puntare all’essenziale.

Il “veramente importante” non fa rumore, non attinge al pozzo del tanto, ma ricerca ciò che è infinitamente piccolo; non ci spinge ad arricchirci davanti agli uomini, ma ad essere ricchi davanti a Dio.

                Questa è la sapienza del cuore che relativizza, ridimensiona, demistifica la logica dell’uomo e quanto egli crede assoluto, erroneamente essenziale alla sua vita: denaro, successo, potere, posizione, titolo, il proprio “orticello”. Ma la sapienza del cuore la conseguiremo solo se vivremo di Dio già qui e ora.

Conclusioni

 

                Nello scrivere le poche riflessioni di questa domenica, ho pensato all’opera dello scrittore siciliano Giovanni Verga. Ho tratto due immagini emblematiche e significative del peso drammatico della vanità delle cose e del senso di disperazione e morte che l’accompagnano: La roba, che è una novella, e il romanzo Mastro don Gesualdo.

                Nella prima leggiamo: “Tutta quella roba se l’era fatta lui – allude al protagonista Mazzarò -,   colle sue mani e colla sua testa, col non dormire la notte, col prendere la febbre dal batticuore o dalla malaria, coll’affaticarsi dall’alba a sera e andare in giro, sotto il sole e sotto la pioggia, col logorare i suoi stivali e le sue mule – egli solo non si logorava pensando alla sua roba, ch’era tutto quello ch’ei avesse al mondo; perché non aveva né figli, né nipoti, né parenti; non aveva altro che la sua roba. Quando uno è fatto così, vuol dire che è fatto per la roba”.

                In Mastro don Geusaldo troviamo la stessa situazione: il protagonista per tutta la vita ha accumulato “roba”, facendone il fine ultimo. Ma, come leggiamo nel penultimo capitolo del romanzo, vivere così lo porterà ad una morte di disperazione. Infatti, quando il protagonista verrà a sapere la gravità della sua malattia, contemplando la propria “roba”, si mette a “bastonare anatre e tacchini, a strappar gemme e sementi. Avrebbe voluto distruggere d’un colpo tutto quel ben di Dio che aveva accumulato a poco a poco. Voleva che la sua roba se ne andasse con lui, disperata come lui”.

                Cari fratelli, “è la roba che ci divide, è la roba che ci fa uccidere, è la roba… la bestia”. Per la roba, per i soldi, c’è gente disposta a tutto, a calpestare la sua e l’altrui dignità, a vendersi ed a vendere anche gli affetti più cari. Il problema allora non sono i soldi, ma siamo noi! I beni, pochi o tanti, sono mezzi non il fine della vita. E’ Dio la ricchezza inattaccabile da ladri, tignuola e ruggine (Mt 6,19).

Altra immagine forte. Altro monito chiaro: il nostro bene, la nostra felicità non risiede nei beni che possediamo, ma in quello che siamo e doniamo, giacché solo questo avrà il suo peso sulla bilancia di Dio e non sarà altro che havel che in pochi attimi sparisce senza lasciare traccia di sé.

Ogni ricchezza che non sei tu, o Signore, è miseria per me. Dinanzi a te, o Signore, possiederò solo ciò che avrò donato.

Serena domenica.

 +Vincenzo Bertolone

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