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Vangelo di domenica 11 luglio PDF Stampa E-mail
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domenica, 11 luglio 2010 08:15
Samaritano
il buon Samaritano
Dal Vangelo di Gesù Cristo secondo Luca 10,25-37 - Un dottore della legge si alzò per metterlo alla prova: «Maestro, che devo fare per ereditare la vita eterna?». Gesù gli disse: «Che cosa sta scritto nella Legge? Che cosa vi leggi?». Costui rispose: «Amerai il Signore Dio tuo con tutto il tuo cuore, con tutta la tua anima, con tutta la tua forza e con tutta la tua mente e il prossimo tuo come te stesso». E Gesù: «Hai risposto bene; fa' questo e vivrai». Ma quegli, volendo giustificarsi, disse a Gesù: «E chi è il mio prossimo?». Gesù riprese: «Un uomo scendeva da Gerusalemme a Gerico e incappò nei briganti che lo spogliarono, lo percossero e poi se ne andarono, lasciandolo mezzo morto. Per caso, un sacerdote scendeva per quella medesima strada e quando lo vide passò oltre dall'altra parte. Anche un levita, giunto in quel luogo, lo vide e passò oltre. Invece un Samaritano, che era in viaggio, passandogli accanto lo vide e n'ebbe compassione. Gli si fece vicino, gli fasciò le ferite, versandovi olio e vino; poi, caricatolo sopra il suo giumento, lo portò a una locanda e si prese cura di lui. Il giorno seguente, estrasse due denari e li diede all'albergatore, dicendo: Abbi cura di lui e ciò che spenderai in più, te lo rifonderò al mio ritorno. Chi di questi tre ti sembra sia stato il prossimo di colui che è incappato nei briganti?». Quegli rispose: «Chi ha avuto compassione di lui». Gesù gli disse: « Va' e anche tu fa' lo stesso ».

 

Meditazione di  San Severio di Antiochia (circa 465-538), vescovo
Discorsi,  89

« Discese dal cielo » (Credo)

 «Un uomo scendeva da Gerusalemme a Gèrico». Cristo... non ha detto «uno scendeva», bensì «un uomo scendeva», perché il brano concerne tutta l'umanità. Questa, in seguito alla colpa di Adamo, ha lasciato il soggiorno elevato, calmo, senza sofferenza e meraviglioso del paradiso, a buon diritto chiamato Gerusalemme – nome che significa «La Pace di Dio» – ed è disceso verso Gèrico, regione bassa e cava, dove il caldo è soffocante. Gèrico, è il ritmo febbrile della vita di questo mondo, vita che allontana da Dio... Una volta che l'umanità ha imboccato quella vita, lasciando la via retta... il branco dei demoni selvaggi viene ad attaccarla come una banda di briganti. La spogliano del vestito della perfezione, non le lasciano nulla della sua forza d'animo, né della purezza, della giustizia o della prudenza, nulla di ciò che caraterizza l'immagine divina (Gen 1,26), ma dopo averla colpita con i colpi ripetuti dei diversi peccati, la atterrano e la lasciano finalmente mezza morta...
La legge data da Mosè è passata..., ma le è mancata la forza, e non ha potuto condurre l'umanità alla piena guarigione, non ha potuto rialzare l'umanità che giaceva in questo modo... Infatti la Legge offriva dei sacrifici e delle offerte che «non hanno il potere di condurre alla perfezione coloro che si offrono a Dio»... perché «è impossibile eliminare i peccati con il sangue di tori e di capri» (Eb 10,1-4)...
Infine, un Samaritano passò accanto. Apposta Cristo dona a se stesso il nome di Samaritano. Infatti... egli è venuto in persona, compiendo il disegno della Legge e mostrando con le sue opere «chi è il prossimo» e cosa significa «amare gli altri come se stesso».

 

 

Commento di mons. Vincenzo Bertolone, vescovo di Cassano All'Ionio:

 

XV Domenica del tempo ordinario

11/07/2010

Noi cristiani dell’ “ approssimazione”

 

 

Introduzione

 

                È sicuramente bello lasciarsi scaldare dai raggi del sole, è come fare un bagno di luce salutare all’anima e alla mente, dopo il grigiore di tante giornate inquiete e stanche, passate a svolgere movimenti ripetitivi o a prendere decisioni di una certa responsabilità.

Ma non dimentichiamoci che ci sono altri raggi più potenti e benefici di quelli solari, i quali recano un sollievo all’anima e alla mente ben più duraturo di quello dei raggi solari, non solo, ma provvedono a creare riserve di luce e di calore pronte all’uso durante tutto l’anno. Perciò anche quando le nuvole coprono il cielo e non si riesce a trovare riparo dal freddo, persino in quei giorni grigi, stanchi e inquieti l’anima e la mente continuano ad abbronzarsi, a riscaldarsi, a ricevere luce da questa fonte immagazzinata anzitempo. Alludo naturalmente ai raggi della Parola di Dio che nessuno ombrellone di spiaggia riesce a schermare, neppure se si manda in vacanza nostro Signore.

Così la Parola continua a provocarci sul senso profondo della nostra identità cristiana e in questa XV domenica del tempo ordinario, sempre dalle pagine del Vangelo di Luca, ci stimola a porci due interrogativi, chi sono i destinatari  della missione e fino a che punto spingersi nell’azione missionaria? In altri termini, chi sono gli altri per il bene dei quali siamo stati scelti, chiamati e inviati da Cristo e fino a che punto arrivare perché questo bene si realizzi compiutamente?

                Straordinario processo di esemplificazione quello messo in atto da Gesù in questa pagina del Vangelo di Luca: nel giro di poche e semplici righe, nel breve tempo di un racconto in parabola, ha focalizzato i punti essenziali del discorso missionario, rispondendo agli interrogativi più ricorrenti verso chi andare, ovvero farsi prossimi? Come rendere visibile l’invisibile di Dio? Fino a che punto spingersi? Per rispondere e capire non ci resta che contemplare la scena lucana.

 

Verso chi?

 

                A questa prima domanda, la risposta che troviamo nella pagina lucana è una semplice parola, non determinata: “un uomo”. Non c’è un nome, non è riportata l’età, né è chiara la nazionalità o la professione. Non ci sono aggettivi che lo qualificano: non si sa se è buono o cattivo se è un ricco o un povero, un giusto o un ingiusto, un colto o un ignorante. Non si specifica neppure il credo o se addirittura creda. Ciò che importa veramente è che si tratta di una creatura umana, il resto non conta. Conta la sua situazione, per cui se volessimo identificarlo dovremmo farlo nel suo stato attuale: è spogliato, colpito, solo, lasciato morire sul ciglio della strada.

La realtà di quel uomo è tale da situarlo necessariamente entro i confini dell’ altrui responsabilità. Di fatto, ciò che deve essere veramente importante è l’ uomo in quanto tale. Il punto di riferimento essenziale per ogni discorso sull’uomo deve essere dunque l’ uomo stesso, ogni uomo indipendentemente dal suo status, dalla sua identità, è l’ uomo in qualsiasi situazione egli si trovi.

Ma per avere l’ uomo come punto di riferimento di ogni propria azione è indispensabile spostare il proprio baricentro: non più verso se stessi ma verso l’ altro. In altri termini non si deve cominciare da se stessi per capire verso chi andare, piuttosto, invece di chiedersi verso chi andare, ci si deve fare prossimi di chiunque ci venga incontro e abbia comunque bisogno di noi.

Del resto così ha amato, e ama, il Signore: è Lui che è venuto, e viene, dentro la situazione di ogni uomo; è Lui che si è fatto prossimo, e si fa prossimo, di chiunque abbia avuto, e abbia bisogno; è Lui che si è preso, e prende, cura dell’ umanità intera, guarendola dalle sue malattie.

E a commuovere Dio fin dalle profondità delle sue viscere, dandogli la possibilità di potersi rivelare come Dio nell’amore, Dio nell’espansione infinita dell’amore, è un’umanità indistinta con il suo grido di dolore e sofferenza. Dunque, all’uomo in quanto tale, soprattutto all’ uomo del dolore e della povertà assoluta, il discepolo di Cristo, seguendo i passi del suo Maestro, deve avvicinarsi e non passare oltre, perché in quell’ oltre certo non troverà per sé e per il bene dell’ altro l’ amore profondo di Dio.

                E arriviamo alla prima conclusione di questa riflessione: in ciascuno di noi quando ci facciamo prossimi si espande l’ amore di Dio e così facendo rendiamo vivo e presente, lungo le strade del nostro tempo, Cristo e, soprattutto, ne realizziamo l’ azione di salvezza, rivelando il volto misericordioso di un Padre che non esclude nessuno dal suo amore.

 

Fino a che punto?

 

                E se ci chiediamo fino a che punto è bene spingersi, la risposta è una sola: finché il sapere coincida con il fare. Ovvero se diciamo di amare il prossimo, è perché lo facciamo non perché sappiamo tutto di lui. Conosciamo l’altro, il vicino o il lontano, il diverso da noi, quando impegniamo la nostra vita per lui, ci compromettiamo per lui.

Conosciamo l’altro e ci facciamo suoi prossimi quando non stiamo al nostro posto, ma muovendoci, ci avviciniamo, superiamo le distanze e iniziamo ad occuparci di lui, lasciandoci provocare dalle sue esigenze, facendoci coinvolgere dalla sua vicenda, immedesimandoci nella sua situazione, anzi molto di più, lo corichiamo sulle spalle.

                Un verbo solo della pagina lucana sintetizza tutto questo: avere compassione, ovvero compatire. Detta e scritta così la parola forse non ci dice più nulla, o tutto al più ci rimanda ci rimanda ad una idea di pietismo che svilisce il significato vero e profondo del verbo. Infatti, il “compatire” è molto di più di un semplice sentire pietà, è un “cum- patior” , in altri termini un soffrire con l’altro: un prendersi sulle spalle la croce dell’altro, proprio come Gesù ha fatto con le nostri croci. È un sentire lo stesso dolore dell’altro per condividerne il peso, allegggerendone la sofferenza, il dramma, dando anche però la speranza che non si è da soli nell’affrontare la prova.

                Ma “compatire” è anche amare. È provare un fremito nelle viscere, uno struggimento nel cuore; è un sussulto che scuote e pervade l’essere al punto da spingerlo a chinarsi sull’altro. E così la ragione, abbandonati i pensieri sottili, i calcoli di valutazione, gli argomenti dotti, si abbandona totalmente al cuore, rendendo visibile ciò che erroneamente si crede invisibile: il volto amorevole di Dio. L’ha fatto Gesù nella sua esperienza terrena, continuiamo a farlo noi oggi.

                Infatti, è solo sul metro dell’amore che è possibile costruire la nuova architettura del mondo e della storia, perché è l’amore che rende l’uomo veramente umano, veramente divino.

E veniamo alla conclusione di questa seconda parte della nostra riflessione: se vogliamo dare un nome alla speranza futura, scegliamo un verbo, “amare”, coniughiamolo poi al futuro, perché esprima una azione mai conclusa, e che duri quanto durerà il tempo. diventi, inoltre, per ogni generazione futura il progetto, il solo veramente necessario alla vita.

                Al centro del vangelo di Luca è questa parabola, e al centro di essa vi è un uomo e il suo verbo, “amare”. Certo, è una centralità non casuale, ma voluta per uno scopo preciso, per dirci che se vogliamo essere veri cristiani, non dobbiamo vivere il vangelo come una serie di leggi da rispettare o norme da seguire, dobbiamo amare e agire come il “samaritano”: mettendo in gioco tutto per l’altro. Così facendo mostreremo al mondo il volto di Cristo, Samaritano dell’umanità.

 

Conclusioni

 

                Verso chi? Fino a che punto? Due domande per gettare ponti verso gli altri, per tessere relazioni. Due domande per iniziare un dialogo in cui l’azione, il movimento “verso”, è più importante di qualunque parola.

Quando poi inizieremo a preoccuparci seriamente degli altri, allora riusciremo a fare di tutta l’umanità il campo d’azione della nostra missione, facendoci prossimi di ogni uomo. E diventando prossimi dell’uomo, inoltre, inizieremo anche ad “approssimarci” a Dio, divenendo suoi intimi, e perciò, partecipi della sua stessa compassione per l’uomo.

Questo rende attraente il cristiano: l’agire per gli altri, il movimento verso gli altri, la sua vita evangelica, il suo amore per l’umanità a misura di Dio. Tutto questo rende credibile la fede. Tutto questo rende visibile Dio. E quando sceglieremo lo stile del Samaritano, anche noi potremo sentirci rivolgere le stesse parole che un giorno udì l’Abbé Pierre: “Io non so se esiste Dio. Ma se esiste, è quello che lei sta facendo”.   
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