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p. Vincenzo Bertolone
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Chiamati alla vita - 2015/06/28 09:32 Domenica XIII del tempo ordinario anno B
28 giugno 2015

Introduzione
Se la tempesta è la condizione normale del cristiano, la morte segna per l’uomo l’ultimo traguardo e per il credente la verifica della nostra vita. Due miracoli
compongono il brano del vangelo odierno. Vengono messi insieme, con un
procedimento non insolito in Marco, detto “a incastro”. Vengono sottoposti alla
nostra attenzione il caso disperato della figlia di Giairo e la guarigione della donna. È
la fede che lega i due miracoli e viene messo in evidenza che Gesù è il Signore della
vita. In questa tredicesima domenica del tempo ordinario, ciò che risuona nelle
nostre Chiese è un canto di gioia al Dio della vita: il nostro Dio è un Dio amante della
vita, non signore o padrone, ma amante della vita. È ancora più dolce sentire che Dio
non ha creato la morte, Dio ha creato tutto per l’esistenza, ci ha destinati alla Sua visione beatifica. E insistente si fa strada una voce, un fiducioso sussurro: Io ti ho
creato per l’eternità, il tuo tempo finisce o meglio è assunto dall’eternità, matura
nell’eternità. Eppure ogni giorno sperimentiamo il dolore per la malattia e per la morte: il cuore, sorretto dalla parola di Dio, dice “vita”; l’esperienza risponde “morte e sofferenza”. E inizia così la ricerca del modo migliore per sanare questo stridente
contrasto. Ma non dobbiamo cercare altrove ciò che ci viene dato già ora: una
risposta, una parola al dramma angoscioso della morte, alla difficoltà di
comprenderne il perché. Il Vangelo ci parla di fede.
Proprio quando il dolore del distacco, la sofferenza per la perdita di una
persona cara, o la paura della malattia, impedisce il ripetersi del canto trionfale al Dio
della vita, la fede, ovvero la totale fiducia nella parola di Dio, Cristo Gesù, fa
recuperare il senso vero del dolore e della morte, collocandoli nella prospettiva di una
vita nuova, trasformata, rifiorita. Di fronte a questa capacità di credere in Cristo nulla
è impossibile all’uomo, neppure continuare a vedere la prospettiva del futuro quando
sembra che parlare di futuro sia assurdo.
È una presa di coscienza diversa, orientata a un futuro che ha sapore di eternità,
per cui la vita è vista come cammino verso questo futuro, e la morte come tappa
conclusiva del viaggio, lungo o breve che sia; anzi la morte è la fine del viaggio,
passaggio obbligato per portare a termine il cammino il cui compimento acquisterà il
sapore di senso che gli abbiamo dato nel nostro presente.
E se abbiamo vissuto di Cristo, sentiremo alla fine dei nostri giorni sussurrarci:
giovane vita, figlia dell’eterno, alzati! Tu sei fatta per la beatitudine
eterna, per l’immortalità.
Il Dio della vita
La malattia e la morte ci lasciano sgomenti, ammutoliti, doloranti. Alla mente
si affaccia poi timido un pensiero: se solo Gesù volesse…, sarebbe bello se Gesù…;
ugualmente forte è anche la tentazione di dare a Dio la colpa del male, attribuirgli la
responsabilità della morte. Eppure il Vangelo di oggi ci comunica una verità del tutto
diversa, rivelandoci il volto di un Padre che non vuole il dolore, ma lotta con noi per
la liberazione dal dolore e dalla morte.
In Gesù infatti si delinea l’immagine del Dio della vita, il quale ha creato
l’uomo per l’immortalità, e perciò non può godere nel vedere la rovina delle sue
creature, anzi si adopera, quale Padre affettuoso, affinché dal dolore, dalla malattia,
dalla morte esse siano liberate.
Per questo ha mandato il suo Unigenito Figlio, Gesù Cristo. Egli non è venuto certo a
spargere il male e il dolore, ma spargendo il suo sangue li ha estirpati; non è venuto
per restare prigioniero della morte, ma offrendo la vita ha vinto la morte; non è
venuto per fare il Crocifisso permanente, ma il Risorto per sempre; non è venuto per
rendere più pesante il Venerdì Santo, ma a rendere più luminosa la Pasqua.
La fede in questo Cristo risorto è dunque la strada da seguire per vivere nella
prospettiva del Dio della vita: incontrando Cristo, venendo a contatto con Lui,
riceviamo da Lui e dalla Sua parola la capacità di intendere in modo nuovo la realtà
della malattia e della morte; ci permette di “sentire” una voce che viene di lontano e
che apre prospettive più grandi e decisamente diverse rispetto ai tanti luoghi comuni
dei nostri discorsi umani. Prospettive dove il futuro è d’obbligo, perché tutta la vita
dell’uomo e la storia del mondo è vista come un cammino in avanti verso Dio, realtà
ultima e definitiva al di là di tutte le vicende terrene.
Il vero miracolo allora è l’incontro personale con Cristo, è il coraggio di restare
saldi nella fede in Lui, anche quando la barca della vita si appresta ad affrontare
l’ultimo viaggio.
Dalla morte alla vita
La fede in Cristo è dunque la radice stessa della nuova prospettiva. Non a caso
Gesù stesso, in ogni miracolo, insiste sulla fede, che è umiltà, coscienza di povertà,
abbandono fiducioso e totale al Dio della vita. Di per sé il miracolo allora non riveste
l’importanza che noi gli tributiamo, anzi Gesù di fronte all’atto di fede minimizza il
prodigio. Questo avviene perché il miracolo diventa possibile se c’è la fede, esso è
frutto della fede: argomento per credere e attuare il compimento della vita che è già
nota nell’anima.
Il vero miracolo è dunque saper vivere la vita nell’attesa dinamica e fiduciosa
della luce, del nuovo giorno, dell’ultimo giorno, dell’incontro definitivo con l’Eterno.
E dall’attesa matura un nuovo modo di vivere: la vita come cammino, come esodo,
come pellegrinaggio. Dall’attesa nasce un nuovo modo di morire: la morte come
arrivo, come incontro. Morte e sofferenza allora non recheranno dolore, non faranno
paura, perché Cristo li ha vinti e la fede in Cristo ci rende partecipi della stessa
vittoria. Questo è il vero miracolo.
Il miracolo di riconoscersi figli dell’Eterno, la cui eredità non è la terra, ma il
cielo, la cui vocazione non è il compimento della vita terrena, ma nella vita terrena
gettare i pilastri del ponte, che conduce al cielo, vero compimento della vita
dell’uomo: “Occorreva, per l’uomo: anzitutto che fosse creato; che, essendo stato
creato, crescesse; che, essendo cresciuto, divenisse adulto; che, essendo divenuto
adulto, si moltiplicasse; che, essendosi moltiplicato, si fortificasse; che, essendosi
fortificato, fosse glorificato; e che, essendo stato glorificato, vedesse il suo Signore.
Infatti (…) la visione di Dio procura la liberazione dalla morte” (Ireneo di Lione).
Conclusioni
Lasciamo che Gesù entri nella nostra storia e lasciamo che al nostro cuore
dolorante ripeta quelle parole di vita: giovane vita, alzati! La tua vita non è finita, si è
assopita, dorme. Il tuo cuore non è morto, solo dorme. L’evidenza della morte
diventerà allora una speranza della visione beatifica di Dio.
Bellissime parole che fanno fiorire speranze concrete, sentimenti di vita, disposizioni
d’amore, quello di un Padre premuroso che rende felici i suoi figli facendoli partecipi
della sua eternità beata; che essi a loro volta fanno fiorire moti di coraggio, nel
persistere nella fede al di là di tutto e nonostante tutto; e infine che fanno fiorire
sentimenti di libertà, nel non lasciarsi imprigionare nella spirale del dolore e della
sofferenza.
Nutriti dalla fede nei germi di eterno che ci appartengono, continuiamo il nostro
viaggio nella vita, sapendo che viverla in pienezza non è sempre facile. Ma anche il
fiume ha le sue anse e le sue curve, ma come sempre arriva al mare. Così la nostra
vita: alla fine scorre come fiume per raggiungere il mare dell’eternità.
Serena domenica.
+ Vincenzo Bertolone

Post composto da: bertolone, alle: 2015/06/28 09:33
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Chiamati alla vita
p. Vincenzo Bertolone 2015/06/28 09:32