Bertolone
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Figli di un dio minore - 2010/01/19 07:19
«Occorre ripartire dal cuore del problema, dal significato della persona, per risolvere le questioni aperte e dare un futuro all’umanità». I fatti di Rosarno, ed il commento che ad essi ha riservato papa Benedetto XVI, s’impongono come attuali non solo alla luce delle cronache, ma anche della celebrazione, in data odierna, della giornata mondiale del migrante e del rifugiato. Del resto, quanto accaduto nel cuore d’una delle più fertili pianure calabresi si presenta come storia nata dal sonno della ragione e della totale assenza di pietas cristiana: per giorni si è tornati alla guerra per bande, all’occupazione del territorio con la clava, pur di riaffermare da un lato ragioni a volte incompatibili con il diritto e, dall’altro, le aspettative di chi diritti non ha perché negati dai fratelli dalla pelle di altro colore o usurpati dalle mafie che infestano la terra di Calabria e contro le quali, ha sottolineato lo scrittore Roberto Saviano, «gli immigrati lottano con un coraggio che gli italiani hanno perso poiché per loro contrastare le organizzazioni criminali è questione di vita o di morte». Quanto basta per capire che gli eventi rosarnesi andrebbero assunti come sintomo di un cancro che divora l’umanità, ad iniziare però da casa nostra, con Cosa Nostra. Quanto basta per cominciare a cercar terapie, finché c’è tempo. Nella società fondata sul dominio assoluto del danaro, anche sporco, anche nero, non possiamo non essere tutti neri. È il soldo la divinità che si è impossessata delle nostre anime e dei nostri corpi e ci ha sfrattati da noi stessi. La società del benessere è ridotta a una fortezza assediata, ma è un’illusione difendersi alzando mura e rovesciando barconi. Il futuro in cui siamo già immersi comincia proprio nei campi di Gioia Tauro, sui quali i grandi problemi della civiltà contemporanea si addensano come nubi: le fughe di intere popolazioni dalla povertà e dalle guerre spesso scatenate dagli occidentali; le vaste paure che s’insediano come nebbie, intossicando la vita di indigeni e migranti; le cruente cacce al diverso; il dilagare d’una mafia ormai mondializzata e specializzata anche in caporalato. Gli esperti continuano a ripetere che il nostro popolo, aprendosi a chi viene da lontano, smarrisce la sua identità. In realtà, siamo già cambiati: non perché incomba il meticciato, ma perché non siamo più accoglienti come una volta, quando ad emigrare eravamo noi e spesso incontravamo violenza. È emblematico, al riguardo, l’ultimo libro di Gian Antonio Stella, “L’eterna guerra contro l’altro”. A leggerlo, si scopre che la mutazione è già avvenuta, ed è simboleggiata dalla disinvoltura con cui si accettano segregazioni che trasformano l’uomo in non uomo. Un nuovo umanesimo, dunque, si impone. I tratti caratteriali che abbiamo perduto possono essere recuperati soltanto tramite una seria riflessione che porti ad un zoliano j’accuse introspettivo: la battaglia per l’affermazione del riconoscimento dei diritti umani non ha colore, né di pelle, né di ideologia. Il vero problema è nel valore che si dà all’uomo: senza di esso, sarà l’inferno descritto dal poeta Arthur Rimbaud, «l’Inferno antico, quello di cui il figlio dell’uomo aperse le porte». E se non avremo la coscienza pulita, non potremo gridare ai trafficanti di braccia, a coloro che si credono eternamente impuniti: «Pentitevi, finché siete in tempo! Non abusate della pazienza di Giobbe e della misericordia di Dio!»
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