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Bertolone
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Il Papa in Terrasanta - 2009/05/17 16:18 La diplomazia della speranza

Un atto di speranza e fiducia, una bella testimonianza di riconciliazione in una terra divisa dall’incomprensione e martoriata dalla violenza.
Questo è stato il viaggio in Terrasanta di papa Benedetto XVI, conclusosi venerdì dopo otto giorni trascorsi, tra l’altro, facendo tappa in Giordania, auspicando l’instaurarsi d’un sereno confronto interreligioso; visitando il memoriale dello Yad Vashem e pronunciando parole di condanna nei confronti del razzismo; raccogliendosi in preghiera davanti al Muro occidentale e chiedendo, poche ore dopo, la scomparsa di ogni muro, anche di quelli che ancora esistono nel cuore degli uomini.
Una missione di altissimo profilo, per un viaggio che, più di ogni altra cosa, è stato pellegrinaggio ai luoghi sacri della salvezza e, soprattutto, dell’incarnazione, passione, morte e resurrezione di Cristo. Sulle orme di papa Paolo VI e di Giovanni Paolo II, che a Gerusalemme si erano recati, rispettivamente, nel 1964 e nel 2000, quello di Benedetto XVI è stato un cammino e***enico, ispirato da una visione teologica di sicuro valore spirituale, senza alcuna sfaccettatura di carattere politico. Neppure quando, riferendosi al conflitto tra israeliani e palestinesi, il Pontefice ha affermato l’esigenza d’un negoziato sulla base della formula “due popoli, due Stati”, o ha riproposto la soluzione cara al suo predecessore, Paolo VI, d’una internazionalizzazione di Gerusalemme, città venerata e contesa da ebraismo, cristianesimo e islam. In continuità con il Concilio Vaticano II, ed in particolare con la dichiarazione “Nostra aetate”, che mirava a superare il secolare antigiudaismo della Chiesa romana, papa Ratzinger ha infatti improntato al dialogo ogni sua parola, col dichiarato intento di «creare spazi, oasi di pace e di riflessione profonda, in cui si possa udire nuovamente la voce di Dio». Così, a Betlemme, ha chiesto ai cristiani di essere «un ponte di collaborazione costruttiva nell’edificare una cultura di pace che superi l’attuale stallo della paura, dell’aggressione e della frustrazione». Allo Yad Vashem ha definito la Shoah «una tragedia che non si può né sminuire né dimenticare», condannando le risorgenti forme di antisemitismo. Ribadendo «un profondo rispetto per l’islam» e l’esistenza di «legami particolari» con l’ebraismo, ha quindi proposto una paziente tessitura tra le religioni «per proclamare con chiarezza ciò che esse hanno in comune».
Sembrano dunque lontani i tempi in cui l’intellettuale ebreo André Chouraqui, in una lettera all’amico Jacques Maritain, scriveva: «La voce del nostro popolo non è sentita a Roma, dove il tumulto di coloro che non amano gli ebrei è spesso grande». In una terra di cementate diffidenze, il Pontefice ha insistito sulla fiducia. Le critiche, in più d’una circostanza app*** strumentali e infondate, non sono mancate, ma esse pure sono state superate dal significato di un viaggio che ha scritto una pagina di storia contemporanea. A captare meglio di chiunque altro l’importanza della visita apostolica papale è stato il presidente israeliano Shimon Peres, che nell’indirizzo di benvenuto all’augusto ospite ha affermato: «I leader spirituali possono spianare la strada ai leader politici. Possono liberare i campi minati che ostacolano la via per la pace. I leader spirituali riducono l’animosità, così che i leader politici possano evitare il ricorso a mezzi distruttivi. E noi non abbiamo più bisogno di veicoli blindati, ma di una leadership spirituale ispirata». Una descrizione veritiera e sincera di ciò che Benedetto XVI ha espresso in Terrasanta e testimonia ogni giorno nel mondo.
+ Vincenzo Bertolone
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