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Il Vangelo di Domenica 8 Marzo PDF Stampa E-mail
Scritto da + V.Bertolone   
venerdì, 06 marzo 2009 21:17

trasfigurazione
Icona della Trasfigurazione
Dal Vangelo di Gesù Cristo secondo Marco 9,2-10.
Dopo sei giorni, Gesù prese con sé Pietro, Giacomo e Giovanni e li portò sopra un monte alto, in un luogo appartato, loro soli. Si trasfigurò davanti a loro
e le sue vesti divennero splendenti, bianchissime: nessun lavandaio sulla terra potrebbe renderle così bianche.
E apparve loro Elia con Mosè e discorrevano con Gesù.
Prendendo allora la parola, Pietro disse a Gesù: «Maestro, è bello per noi stare qui; facciamo tre tende, una per te, una per Mosè e una per Elia!».
Non sapeva infatti che cosa dire, poiché erano stati presi dallo spavento.
Poi si formò una nube che li avvolse nell'ombra e uscì una voce dalla nube: «Questi è il Figlio mio prediletto; ascoltatelo!».
E subito guardandosi attorno, non videro più nessuno, se non Gesù solo con loro.
Mentre scendevano dal monte, ordinò loro di non raccontare a nessuno ciò che avevano visto, se non dopo che il Figlio dell'uomo fosse risuscitato dai morti.
Ed essi tennero per sé la cosa, domandandosi però che cosa volesse dire risuscitare dai morti.

(Nella seconda parte il commento di mons. Vincenzo Bertolone)

8 Marzo 2009

II Domenica di Quaresima

 

introduzione

                Questa II Domenica di Quaresima segna una tappa importante nel nostro cammino penitenziale, quasi ci rafforza e incoraggia in vista della dura prova finale: accogliere il Cristo del Calvario. Sembrerebbe un paradosso, pensando alla pagina di Vangelo che risuona oggi nelle nostre Chiese: il racconto della Trasfigurazione (Mc 9, 2-10). Potremmo sintetizzare questo paradosso con una frase: alla Luce per la Croce. Il brano, appare chiaro, presenta non poche complessità d’interpretazione. Ma al di là di qualsivoglia disquisizione esegetica e dottrinaria, il dato immediato da cogliere è che Marco, così attento a non rivelare l’identità messianica del Cristo, raccontando questo episodio segue un percorso diverso, sebbene per un istante: rimosso il velo sull’identità di Gesù, ne svela il segreto messianico, rivelandone la dignità futura.

E come se nel corso di questo cammino quaresimale, prima del momento finale, ma non definitivo, della realtà della passione e morte di Cristo, Lui stesso, in un lampo di luce, ci mostrasse la gloria che ci attende e ci invitasse a piantare, in quella luce, il seme di una speranza capace di resistere anche quando tutto sembra perduto.

                Perciò possiamo dire che tema centrale di questa II Domenica di Quaresima è la fede. Si parte dall’Antico Testamento, con il racconto della storia di fede di Abramo e, passando attraverso l’esortazione alla fede dell’apostolo Paolo, si arriva alla Trasfigurazione di Cristo sul monte Tabor, incoraggiamento alla fede nel momento della prova. Di fatto solo dopo aver visto la luce del Tabor si può affrontare il grande buio del Calvario.

 

la fede

                Credere vuol dire fidarsi di Dio, a occhi chiusi. Troppo rischioso! Certo. Non si sa mai cosa aspettarsi da “Qualcuno” così misterioso e imprevedibile. Eppure Dio ci chiede fiducia oltre ciò che riusciamo a capire di Lui. Ma questo è difficile per noi. Del resto i nostri pensieri non sono i Suoi, le Sue vie non sono le nostre.

                Sicuramente Abramo non avrebbe pensato di suo a lasciare la sicurezza della terra, della casa, degli affetti  se Dio non l’avesse chiamato, afferrato, attirato a Sé. Abramo si abbandona, scommette tutto su Dio, direbbe Pascal. Scommessa rischiosa diremmo noi. Ancora più assurdo l’atteggiamento fiducioso di Abramo di fronte alla richiesta di Dio di sacrificargli il suo unico figlio, Isacco. Ma Abramo scommette per la seconda volta su Dio.

La sua fede ha dell’incredibile: si nutre di una certezza che la sola sicurezza della vita è Dio, le altre sicurezze, se non poggiano su di Lui, sono inganni; egli la vive con una coerenza incrollabile. Non solo. Capisce che l’uomo, pur credendo in Dio, primo o poi si scontrerà col dolore, la prova, il sacrificio: e sarà quello il momento decisivo della fede, perché, quando crollano tutti i motivi umani, resta solo Dio.

                Possiamo dire che il nostro credere si nutra della stessa certezza e viva della stessa coerenza? Possiamo affermare che quando vengono meno tutte le motivazioni umane della fede, il nostro motivo di fede resta solo Dio? Risposte poche, dubbi tanti.

Secondo la Bibbia e la tradizione spirituale, la prova è il segno di predilezione e amicizia di Dio, eppure proprio in queste prove il rischio di dubitare dell’autenticità della “cura” di Dio è forte. “Io tratto così i miei amici”, disse una volta il Signore a Santa Teresa d’Avila. “Per questo ne avete così pochi”, rispose prontamente la Santa. Ora, al di là del curioso aneddoto, va riconosciuto che: grande distanza vi è tra l’essere soddisfatti di sé ritenendosi “buon cattolico” che “fa il suo dovere”, e l’abbandono totale del Figlio di Dio, che ha affidato la propria vita al Padre e cammina con Lui, mano nella mano, tutto aspettando da Lui persino accogliendo il dolore e la morte. (

È facile credere, avere fede quando si è felici, ma è difficile, ma meritoria confessare la fede nel momento della prova. Ne è conferma il fatto che proprio noi cristiani diamo in quel momento l’impressione di essere gente piena di paura: paura dell’inferno, paura della morte, paura del dolore, paura di affrontare la responsabilità della sofferenza, paura di quanto possa chiederci ancora Dio. E la fede, che confessiamo, si scopre non come espressione d’amore obbediente e fiducioso abbandono, di coraggio nello sperare ad oltranza, ma si rivela una religiosità di timorosa cautela. Una specie di “assicurazione” contro quei rischi da cui la società civile e umana non può tutelarci. Così il nostro credere  diventa altalenante.

Per questo atteggiamento è alla radice del nostro malessere e della nostra inquietudine, del nostro vacillare e cadere al primo vento di avversità.

                Il poeta francese G. Peguy scriveva: “è lo sperare la cosa difficile, facile è invece disperare, ed è la grande tentazione”. Infatti è facile nella disperazione allontanarsi da Dio e, spesso, inveire contro di Lui, attribuendogli le colpe del male e rimproverandogli l’assenza. Ma la dinamica della fede esige altro. Essa reclama il silenzio e la consapevolezza che il dolore  può essere  una strada per  raggiungere la luce.

Del resto a questa verità ci portano le parole conclusive dell’episodio della Trasfigurazione: solo chi ha visto la luce del Tabor può avere la forza e il coraggio di superare grandi e dolorose prove. Si procede in esse grazie a quell’ istante di luce, che il Signore ci dona a conforto e garanzia della gioia futura.

                È la memoria di tanti istanti di luce, di amore avuto e donato, a darci la manna nei giorni di abbandono, solitudine e privazione; diversamente il buio sarebbe incomprensibile e insostenibile. Questo il significato della rivelazione abbagliante sul monte Tabor: la certezza che quella Luce, ancora esterna all’uomo sul monte dell’estasi, dopo la Pasqua penetri e risplenda nel cuore stesso delle nostre sofferenze, nel nostro quotidiano  dubitare, nel nostro piccolo o grande  dolore..

 

 

 

La luce del Tabor

                La Trasfigurazione sul monte Tabor non è il punto d’arrivo della fede. La luce che da essa si sprigiona, sebbene anticipi la Luce del mattino di Pasqua, dura un “lampo”. Poi ricomincia la notte. Ovvero riprende il corso regolare della vita, con le sue esperienze di gioia e di dolore, di vita e di morte. Ancora c’è il tempo, non l’Eterno di Dio. Ma dopo il Tabor c’è una parola che risuona: “Questi è il mio figlio prediletto: ascoltatelo”. Portarsi dentro queste parole significa abbandonarsi alla speranza nutrita dalla Parola, che, come luce di una lampada, non elimina la notte, ma rischiara il cammino e consente di procedere.

Consente di continuare a vivere la fede in Cristo immersi nei luoghi del quotidiano, dove si incontrano grandezza e miseria, fatica e pianto, speranze forti e debolezze di ogni genere. Ed è su queste strade basse che noi battezzati siamo chiamati a vivere. L’evasione o l’indugiare in situazioni di “comodo” non sono virtù cristiane.

                Chi ha paura di sporcarsi le mani, trattando le realtà della vita, dalle più nobili a quelle di minor valore; chi vuole restare alla larga dei fatti della storia feriale, preferendo una disinfettata e disincantata contemplazione delle realtà celesti, non conosce la fede. La fede senza la verifica della croce personale è instabile, insicura, rischia il non coinvolgimento di sé, la spersonalizzazione. La fede non è uno stare fermi, ma è un “incarnarsi”. Un credere, un abbandonarsi a Cristo che si è fatto uomo, persona, ha vissuto, sofferto, amato, pianto, morto. Ciò però non deve indurre a ingabbiare il Regno di Dio nelle maglie delle cose, delle ideologie o dei sociologismi. Compito del cristiano è trasferire sulla strada, nelle case della gente la luce che ha visto sul “monte”, perché il cammino di tutti sia illuminato e non resti al buio.

                Noi,  intimi di Cristo, dobbiamo essere quelle mani tese che aiutano a camminare lungo le strade della ferialità. Strade che portano ad ascendere non solo il “monte” della Luce e della Gioia, ma anche quello del Calvario, sulla cui sommità troveremo sempre Cristo, il Signore della vita.

 

conclusioni

                Ci si allontana dal vero se si onora Cristo lasciandolo in un protetto e privilegiato spazio riservato. Egli si onora con la vita e con tutto di essa. Lo si ama camminando nella fatica, lavorando nel quotidiano, soffrendo e morendo se necessario. Non a caso le parole conclusive del brano della Trasfigurazione : questi è il mio figlio prediletto: ascoltatelo ci conducono al Calvario. E sul quel promontorio di fronte al dolore della morte, Cristo ci chiede, ci spinge ad avere fede, perché è lì che vince la morte, e la vince con l’arma dell’amore: la sofferenza.

                Se ci si rifugia nella fede, espressione di quell’amore, come in un sistema di sicurezze, si finisce col restare delusi. La fede non è esente da rischi, non è l’analgesico del dolore. Essa va accettata per la sua indimostrabilità, incommensurabilità, imperscrutabilità. Bisogna solo viverla ponendo incondizionata fiducia, abbandonandosi senza calcoli o ragionamenti di sorta ad una persona, Cristo, l’unica Verità di cui ci si può assolutamente fidare.   “ Il mio desiderio più vivo, il fine più alto di tutte le mie aspirazioni è di credere perdutamente, ciecamente credere, senza più  discutere, senza più criticare”( A.Carrel- parole scritte a Lourdes, la notte della sua conversione).
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