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Due interventi di Mons. Bertolone PDF Stampa E-mail
Scritto da administrator   
sabato, 14 giugno 2008 07:54
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mons. Bertolone
Abbiamo già avuto il piacere di ascoltare diversi interventi del nostro Vescovo, in occasione di convegni e meetings ai quali è stato invitato come ospite importante, ma si sa, ciò che viene detto in queste occasioni, soprattutto dagli ospiti, spesso viene ascoltato senza grande interesse, quasi come se fosse da parte dell'ospite un fatto dovuto. Non è sempre così! Lo dimostrano questi due interventi che vi proponiamo, pronunciati da mons. Bertolone in occasione di due diverse manifestazioni, a Trebisacce il 2 giugno e a Sibari il 3 dello stesso mese. Sappiamo che i webnauti gradiscono letture brevi, ma vi garantiamo che vale la pena dedicare qualche minuto alla lettura dei due testi che seguono nella seconda parte.

TREBISACCE 2 GIUGNO 2008“Il rispetto di sé e degli altri come condizione essenziale della società democratica e dell’idea stessa di uomo-persona” Carissimi fratelli e sorelle,                                                    nel salutare con  affetto voi tutti e gli organizzatori di questa manifestazione, avvio questa mia riflessione interrogandomi sulle ragioni di una scelta: che cosa esprime, che cosa evoca il porre il rispetto a fondamento della democrazia e della persona? Partendo dal significato della parola stessa, che vuol dire considerazione, vi invito a prestare attenzione ad un principio elementare: in democrazia ciascuno ha diritto ad eguale considerazione. Questo è l’insegnamento dei greci. E’ il dettato normativo esplicitato con lessico europeo nella Carta di Nizza. È il senso delle parabole, ad esempio, della tradizione giudaica: gli uomini, servendosi di una sola matrice, coniano tante monete, che si assomigliano pur essendo diverse. Loro stessi sono coniati dal Re dei re con la matrice di Abramo. Tuttavia, poiché nessuno mai troverà se stesso in un altro, potrà dunque esclamare: il mondo è stato creato per me. Ma questo, si badi bene, è pure il monito che risuona nell’invito di Cristo ad amare il nostro prossimo come noi stessi, manifestazione della massima estensione del concetto di rispetto: l’altro non come nemico, ma come proiezione di noi stessi. Non si tratta solo del fatto che l'amore è comandato, quindi situato nell'ambito delle opere e non dei sentimenti: quanto davvero turba è che tale precetto ha avuto ed ha nella storia, accanto a conferme grandiose, pure smentite atroci. Le realizzazioni attuate in nome dell'amore del prossimo segnano le pagine più alte del cammino umano, ma innumerevoli, a tutte le latitudini e in tutte le epoche, sono stati e sono i frutti perversi dell'odio dell'uomo contro l'uomo. Indagare su questo nodo e cercare di far prevalere le ragioni della comprensione e della solidarietà, allora, è compito di perenne attualità. Lungi da valutazioni di natura religiosa, il dato ci suggerisce che le politiche e le leggi devono, o dovrebbero, essere coerenti con il riconoscimento dell’eguale considerazione a ciascuno dovuta. Questo semplice assioma genera un gran numero di teoremi di scelta sociale. In parole povere, da esso derivano importanti conseguenze che riguardano i fini collettivi. Si consideri il celebre discorso di Pericle alla cerimonia per i caduti, come ce la narra con spirito di veridicità Tucidide nel secondo libro di La guerra del Peloponneso. “Il nostro governo”, dice Pericle, “favorisce i molti invece dei pochi: per questo è detto una democrazia. Le leggi assicurano una giustizia eguale per tutti nelle loro dispute private, ma noi non ignoriamo i meriti dell’eccellenza. Quando un cittadino si distingue, allora esso sarà, a preferenza di altri, chiamato a servire lo stato, non come un atto di privilegio, ma come una ricompensa al merito, e la povertà non costituisce un impedimento; riconoscere la propria povertà non è una disgrazia presso di noi; ma riteniamo deplorevole non fare alcuno sforzo per evitarla”. Meditiamo sui punti principali del discorso di Pericle: i molti, e non i pochi; la giustizia eguale; il riconoscimento del merito, entro un quadro di egualitarismo democratico per cui non devono contare le differenze in termini di risorse sociali; l’eguale competenza nel giudizio e nella valutazione delle politiche; il valore prezioso della deliberazione come processo inclusivo e non escludente, che porta alle decisioni e alle scelte collettive. Sono queste le prime implicazioni dell’assioma dell’eguale rispetto, dalle quali trae linfa il principio, esso pure fondamentale, della equa eguaglianza delle opportunità, che ci deve guidare in tutte quelle circostanze, di iniquità distributiva o di ingiustizia sociale, in cui le persone sono svantaggiate rispetto ad altre, senza loro responsabilità. Nel caso più severo, le persone sono svantaggiate semplicemente perché è accaduto loro di nascere da una parte o dall’altra del mondo; in una determinata famiglia, in nessuna famiglia, con un sesso o un certo colore di pelle, piuttosto che un altro. Anche in siffatte evenienze, l’equa eguaglianza delle opportunità deve scardinare i cancelli della nostra società, purtroppo sempre più ingessata e bloccata dal privilegio dei pochi, chiusa e castale.Al riguardo, resta insuperato il contributo dato dal filosofo Bernard Williams nei primi anni Sessanta del Novecento, “L’idea di eguaglianza”: è inaccettabile che la sorte naturale e sociale, alle spalle delle persone, condanni come un destino inesorabile la qualità della loro vita, i loro obiettivi e i loro progetti. È inaccettabile perché, come ha sostenuto un altro filosofo, John Rawls, “la distribuzione naturale non è né giusta né ingiusta; né è ingiusto che gli esseri umani nascano in alcune posizioni particolari entro la società. Questi sono semplicemente fatti naturali. Ciò che è giusto o ingiusto è il modo in cui le istituzioni sociali trattano questi fatti”.Nel nostro Paese, detti concetti sono stati ripresi dalla Costituzione repubblicana, di cui quest’anno si celebra il sessantesimo anniversario e che mi pare doveroso ricordare proprio oggi, festa della Repubblica. Recita l’articolo 3, a voi noto: “Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali. E’ compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese”.Non intendo commentare la norma e le sue implicazioni. Mi limito, piuttosto, ad evidenziare i principi da essa desumibili. In particolare, mi interessa richiamare il succo del contrasto essenziale fra due diverse ed antitetiche prospettive, generato dalla distinzione fra altrettante, opposte offerte culturali, politiche ed economiche in competizione fra loro, nelle democrazie costituzionali dell’angolo ricco del mondo: da una parte, il liberismo; dall’altra, l’egualitarismo democratico. Supponiamo che entrambe le prospettive condividano la priorità della libertà, della libertà eguale delle persone su qualsiasi altro valore ed obiettivo. E che, a partire da questa convergenza, divergano. I libertari sostengono che è compito della politica assicurare e tutelare gli spazi di libertà e di scelta individuale delle persone e che, quindi, il pieno sviluppo della persona umana richiede una riduzione di quanto è determinato dalla scelta collettiva: eventuali ostacoli saranno risolti al meglio dagli esiti del mercato. E nelle ipotesi di esclusione sociale o economica delle persone, dei perdenti sociali, potrà esercitarsi la virtù della compassione. Per contro, i sostenitori dell’egualitarismo democratico sono convinti che, per onorare la solenne promessa della priorità dell’eguale libertà, la politica debba produrre scelte collettive che rendano meno ineguale il valore che la libertà ha per le persone. Un contrasto evidente, che diventa poesia nell’ode ironica e pungente che Trilussa, da par suo, dedica all’eguaglianza così scrivendo: “Fissato ne l'idea de l'uguajanza, un Gallo scrisse all'Aquila: Compagna, siccome te ne stai su la montagna, bisogna che abbolimo 'sta distanza: perché nun è né giusto né civile ch'io stia fra la monnezza d'un cortile, ma sarebbe più commodo e più bello de vive ner medesimo livello. L'Aquila je rispose: Caro mio, accetto volentieri la proposta: volemo fa' amicizzia? So' disposta: ma nun pretenne che m'abbassi io. Se te senti la forza necessaria spalanca l'ale e viettene per aria: se nun t'abbasta l'anima de fallo, io seguito a fa' l'Aquila e tu er Gallo”.Al di là degli spunti di riflessione e dei sorrisi che questi versi insitillano in chi ascolta; al di là dell’opzione per il sistema libertario o per quello di eguaglianza democratica, sempre più spesso, e con sempre maggiore ansia ed incertezza, soprattutto tra i cristiani, ci si chiede come, ed entro quali limiti, possa esercitarsi la libertà senza che essa snaturi l’uomo stesso, vanificando qualsivoglia tentativo di dare un assetto, quale che sia, alla società alla quale egli appartiene. A questo dubbio esiste, da almeno duemila anni, una risposta certa, fin qui l’unica: Cristo. Mi piace evidenziare questa verità ripescando nella letteratura del pensiero filosofico un brano di Jean Paul Sartre: “L’uomo è condannato ad essere libero: condannato perchè non si è creato da se stesso, e pur tuttavia libero, perché, una volta gettato nel mondo, è responsabile di tutto ciò che fa”. Chiaro il senso: Dio mette nelle nostre mani la vita, affidandoci la responsabilità di rispettarla come dono, consapevoli di essere figli di un grande Padre dal quale riceviamo in regalo anche le potenzialità di ognuno, i talenti. Tutti siamo chiamati a riconoscerli, accrescerli, e porli al servizio della comunità. Nella quotidiana ricerca del meglio di sé, nel costante percorso di studio e arricchimento, l’uomo impara a riconoscere il proprio valore. La consapevolezza di sé diventa chiave di lettura dell’altro, al quale l’uomo, immagine di Dio, volge lo sguardo con la certezza di riconoscere un altro se stesso. E nella ricerca di sé trova l’altro, che è uguale ma anche terribilmente diverso. Nell’uguaglianza di dignità è il principio della democrazia. Nella differenza è il contributo personale ed arricchente che ognuno offre nella costruzione della famiglia umana e della civiltà, e ciò non solo all’insegna del progresso, ma anche della fratellanza universale, della solidarietà, dell’uguaglianza, poiché, come scriveva il filosofo Francis Bacone, “se un uomo è gentile con uno straniero, mostra d’essere cittadino del mondo, e il suo cuore non è un’isola staccata dalle altre, ma un continente che le riunisce”. Oggi, spazzata via ogni ideologia, gli abitanti del pianeta terra sembrano ritrovarsi vuoti di prospettive ideali per il futuro, ostaggi di un’endemica mancanza di rispetto verso il prossimo. È tale l’atteggiamento di chi non mette freni e rigore al suo pensiero, non è consapevole dei limiti della ragione umana e cade nel rischio, evocato da Pico della Mirandola, di parlare de omnibus rebus et quibusdam aliis, cioè di tutto e di qualcos’altro, assegnandosi una cattedra di tuttologia comparata. Una vera filosofia della persona, allora, è la sola via per non naufragare dentro a quel riduzionismo materialista che pare dominare la visione occidentale dell’uomo e della società. Al contrario, come bene evidenziato da un altro apprezzato filosofo, Nicola Abbagnano, “per scoprire l’autentica oggettività del mondo, l’uomo non deve pensare al mondo come parte di sé, ma deve sentire se stesso come parte del mondo”. È in questo cambio di mentalità che è insito l’equilibrio tra dignità e libertà dell’uomo. Il rispetto deve tornar ad essere idea preminente, da anteporre persino alla rivendicazione della libertà, di quella propria e di quella altrui. “E’ questa – sottolineava in uno dei suoi scritti il cardinale Carlo Maria Martini – la verità fondamentalissima che rimette in sesto l’esistenza umana”, rendendola capace, aggiungo io, di operare nel mondo per migliorarlo non solo negli aspetti naturali ed antropici, ma anche in quelli culturali, attraverso il riconoscimento di valori quali la giustizia, l’uguaglianza e la pari dignità, il rispetto reciproco. È necessario, insomma, imparare ad amare, perché amare significa pensar bene degli altri, non giudicare il prossimo, non offenderlo, non procurargli alcun male, non ostacolarlo nel suo bene, non procurargli dolore, non tradirlo, non insultarlo, non condannarlo, non renderlo schiavo della propria passione, non chiacchierare contro di lui, non inventar calunnie, non ammazzare il suo onore, non diffamarlo, ma volentieri aiutarlo, soccorrerlo, consigliarlo in bene, difenderlo dal male, fargli la caritàL’uomo onesto, dunque, il cristiano giusto, temperante e forte, ha in sé uno splendore che ne esalta la dimensione morale e la avvicina alla santità. E noi non saremo forse santi, ma da cristiani siamo comunque chiamati ad essere, con fierezza, testimoni di Cristo e dei suoi insegnamenti, perché chi segue Cristo non conosce razze di padroni e razze di schiavi, ma solo creature di Dio. Per costui, è uomo tanto il nero dell’Africa quanto l’europeo, il re nel palazzo regale quanto l’ultimo poveraccio e lo zingaro sotto la tenda. E se stima qualcuno più degli altri, questi è colui che ha il cuore più nobile e non il pugno più forte. E’ un cristiano. È l’alfiere della vera democrazia, informata al rispetto del prossimo. Facciamone il nostro modello di vita.Grazie.

 +  Vincenzo Bertolone  Vescovo

Marina di Sibari, Convegno sulla disabilità, Villaggio MARLUSA, 3 giugno 2008

La moderatrice del dibattito era l'on. Pivetti, ex-presidente della Camera dei deputati. 

Onorevole Presidente, signor sindaco, esimi relatori, amici ed amiche tutti,                                                                                                                        la mia prima parola è di saluto: un saluto sincero, fraterno, caloroso a ciascuno di voi ed a quanti fanno parte del vostro impegno professionale, lo sport, ovvero il mondo della vostra fatica quotidiana, ma penso anche della vostra consolazione e della vostra gioia.La seconda parola è il grazie, in particolare ai promotori di questa nobile iniziativa, perché mi avete offerto l'occasione di riflettere sulle molteplici sfaccettature di un ambito, quello sportivo, all’apparenza patinato, ma in realtà segnato da difficoltà, crisi e ferite: il doping; le violenze e varie forme di razzismo, dentro e fuori gli stadi; l'agonismo delle tifoserie degenerato in fanatismi e antagonismi esasperati; l'eccesso di affarismo; la sovraesposizione mediatica; lo sfruttamento di giovani campioni sin dalla più tenera età, senza rispetto della loro infanzia, spesso provenienti da paesi stranieri; la cronica insufficienza di investimenti per promuovere lo sport di base e le sue infrastrutture.Come affrontare queste ferite? È un non facile problema, che però trova già una sua soluzione nel fatto che il mondo stesso dello sport, in tantissime persone che lo compongono, e voi tutti siete tra queste, sente questi fenomeni come inaccettabile contraddizione con l'autentico senso dello sport, del suo esercizio umano e di quella passione nobile e alta che lo deve animare e sostenere.In questo senso, vorrei rivolgervi un invito: dobbiamo parlare non solo di speranza, ma anche e soprattutto con speranza, perché ci sono, nello sport in particolare, semi promettenti e frutti concreti di speranza. C'è un mare di bene, nel quale confluiscono le acque fresche e dissetanti di persone, di istituzioni, di attività, di volontariato, di impegno educativo, di competenza e di generosità: spesso nell'umile ma preziosa quotidianità dei rapporti personali, al riparo della voce rumorosa dei media.In questo cammino, pure la Chiesa vi è compagna, dal momento che per essa lo sport è una dimensione profondamente umana e umanizzante. Sottolineo questo secondo importante aggettivo, perché è compito anche dello sport suscitare e sviluppare il meglio di ogni persona nei suoi molteplici e diversificati talenti di mente, volontà, cuore, corpo, come pure di fantasia, coraggio, audacia. E' uno stile nuovo. È espresso con parole d'estrema semplicità e insieme quanto mai coinvolgenti e impegnative. Certo, hanno valore per il cristiano, ma possono e devono interessare la persona umana come tale, se vuole essere fedele alla propria dignità e dunque alla propria grandezza morale e spirituale, così come dovrebbero trovare una loro applicazione anche tra tutti gli sportivi, a prescindere dal loro credo religioso. E ciò soprattutto in un contesto quale quello di cui si occupa con impegno e dedizione degni di ammirazione lo Special Olympics, che da anni ormai rivolge le sue cure, in modo particolare e meritevole, ai giovani diversabili.                 Voi tutti, cari amici diversabili, genitori, operatori e volontari, siete un esercito di pace, che distribuisce a larghe mani amore a tutta la nostra società, che sembra spesso così indifferente e poco attenta al tesoro prezioso che in essa voi rappresentate. Ma la vostra presenza e il vostro servizio producono lo stesso amore per tutti, anche per chi non ne vuole sapere o non se ne interessa. E’ questo il messaggio che mi piace trarre dal vostro esempio quotidiano e lanciare a chi oggi non è con noi in questi saloni:  attingere alla fonte del vostro amore e lasciarsene investire riconoscendo e valorizzando ciò che siete in tutta la ricchezza di valori umani, spirituali, sociali che portate con voi e mettete a disposizione dell’intera comunità.Accoglienza, integrazione, partecipazione attiva sono traguardi che interpellano ogni comunità nei confronti dei diversabili e delle loro famiglie, delle varie associazioni e cooperative che se ne occupano, ma sono anche obiettivi che debbono partire da una profonda convinzione che questi nostri fratelli e sorelle rappresentano una risorsa di amore, che rinnova la Chiesa e la società, liberandole da tante schiavitù che le legano a situazioni di egoismo, chiusura ed indifferenza, violenza e divisione.C’è bisogno, dunque, di una inversione di marcia, di un sussulto di moralità di cui tutti si sentano responsabili. C’è bisogno di liberarsi da tutte quelle forme indotte di schiavitù che dominano  la scena del mondo, quali la sete di denaro, di piacere, di sfruttamento dei più deboli, di violenza omicida, di rifiuto degli altri perché diversi o diversamente abili. Solo il gesto gratuito del dono di sé rompe queste schiavitù e rende liberi davvero. La persona di ogni fratello e sorella diversabili va aiutata ad esprimere tutta la ricchezza della sua umanità, spiritualità e socialità, mettendola sempre al centro di ogni progetto, percorso di ricupero o di sostegno, struttura e programma. Tutti, allora, siamo chiamati a comportarci «con ogni umiltà, mansuetudine e pazienza, trattandoci l’un l’altro con amore, cercando di conservare l'unità dello spirito per mezzo del vincolo della pace» (Efesini 4,2-3). È una sfida ambiziosa, ma nessuno può sottrarsi ad essa come alle grandi sfide che la contemporaneità pone: la promozione della vita, della dignità di ogni persona e del valore della famiglia; l'attenzione al disagio e al senso di smarrimento che avvertiamo attorno e dentro di noi; il dialogo tra le religioni e le culture; la ricerca umile e coraggiosa della santità come misura alta della vita cristiana ordinaria; la comunione e la corresponsabilità nella comunità cristiana; la necessità per le nostre Chiese di dirigersi decisamente verso modelli e stili essenziali ed evangelicamente trasparenti.Sono convinto che questi concetti, applicati anche allo sport, possano offrire un ricco e stimolante contributo a quel necessario e urgente rinnovamento del grande areopago sportivo, a cominciare dagli spazi e dalle politiche pensati per i giovani, per tutti i giovani. E' un rinnovamento che auspichiamo vivamente e del quale vogliamo essere, con l'aiuto del Signore, umili e coraggiosi protagonisti e testimoni.

Grazie.

+ Vincenzo Bertolone

 
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