Le poesie di Michele Miani |
Scritto da A. Cavallaro | |
mercoledì, 16 aprile 2008 19:45 | |
Cari internauti, oggi voglio presentarvi un amico che non sentivo da tanto tempo e che ho ritrovato scoprendolo poeta. La colpa è mia che non seguo sempre con la dovuta attenzione gli avvenimenti del nostro comune, così mi è sfuggito che qualche anno fa un suo libro di poesie è stato presentato con successo proprio a Cassano. Attraverso un comune amico di Napoli recentemente ci siamo ritrovati ed ecco che oggi ho potuto avere il piacere di scoprire nel vecchio amico d’infanzia un poeta fine, delicato, dai concetti chiari, facilmente comprensibili, scorrevoli come solo un’anima gentile che ha provato il peso della sofferenza può esprimere.
Il suo nome è Michele Miani, cassanese, anche se da una vita vive in Campania, non ha tradito, come tanti altri, il legame profondo con la sua terra d’origine dove ha vissuto i primi anni della fanciullezza e dove ogni tanto ritornava per incontrare i familiari. Proprio durante queste rare visite io lo conobbi, anche se di qualche anno più anziano di me, era sempre disponibile, affabile e particolarmente attento alla vita che noi conducevamo molto diversa dalla sua, che per una serie di gravi vicissitudini era costretto a trascorrere lontano dal paese e dagli affetti che gli erano rimasti. Proprio quel suo modo di osservare e di ascoltare con attenzione i nostri giochi e le nostre chiacchiere me lo resero particolarmente simpatico, poi anch’io presi una strada che mi portò per un paio di decenni lontano dal mio paese e non c'incontrammo più.. Ora che ci siamo ritrovati, caro Michele non voglio più perderti di vista, le due raccolte di poesie che mi hai carinamente inviato le ho letteralmente divorate, mi sono ripromesso di farne una seconda lettura con maggiore calma per poterle gustare fino in fondo; nei tuoi versi c’è la tua vita, le tue sofferenze, i tuoi affetti, le tue speranze, sono flash che si accendono e che mi fanno rivivere in alcuni di essi momenti del tempo della fanciullezza. Di seguito ne pubblico qualcuna di quelle che mi hai inviato e mi auguro che anche i miei affezionati visitatori possano averne le stesse emozioni che la loro lettura ha regalato a me. Vestiva di biancoVestiva di bianco Il suonatore che gote gonfie soffiava con forza nell’ottone lungo, curvo della tromba ripetendo triste e lamentoso il suono che si fondeva con i colpi sordi e cupi dei tamburi. Si allontanava nel buio delle strade nella notte del tempo. Mi vergognoUn treno era partito. Viaggiava carico di morti. Su binari morti. Invisibile fantasma. Correva, fermava per carichi speciali Solo vittime sacrificali. Salivano lunghe file Donne, uomini, bambini con il battito frenetico aritmato fortemente scompensato. Ciechi privi di pupille Altri uomini sostavano In stazioni senza nomi Immobili appartati apatici non interessati Non volevano Guardare Non amavano Pensare Non sentivano L’acre odore Dei cadaveri ammassati che un locomotore trascinava in avanti Non un grido. Non un volto bianco. Non un viso nero. Non un rosso Colorato sulle guance. Non esisteva nessun buon samaritano fra tutti quei cristiani. Erano tutti un corpo solo la fattezza di Pilato. Demandavano, comandavano come Caifa, come tutti i scribi, i Farisei. Il treno fantasma sui binari fantasmi strisciava, scivolava oleato, lubrificato dal sangue dei vivi di già morti. Spariva con il carico per i forni, i crematori, le stanze di gas, gli scudisci, gli spari, lo zoo della follia oltre le porte di Dachau. Auischwitz. Birkenau. Bobrek. tanti altri nomi di lager anche italiani. mi vergogno d’essere uomo. La chiamataLa sera in piazza al bar, lungo il corso il bracciante attendeva la chiamata impegno di lavoro mal pagato. Scelta non fatta a caso parlavano a difesa colore del partito amicizia di compari non ultimo la forza quella di zappare la velocità, potenza continua a rompere la crosta dura della terra. Passava la parola il caporale “Domani in mattinata, alle quattro davanti al muro dell’arcivescovado”. A casa tornava il contadino, un boccone di pane una minestra, un bicchier di vino, lesto a letto. Prima dell’alba stanco, stonato dalla sveglia mattutina, la zappa sulla spalla, la “spesa” per il pranzo in un telo colorato quadrato legato ai “pizzi” appeso impalato sulla zappa. Al buio del mattino, al duomo appoggiata la schiena al muro, seduto sul gradino del portone fermo stava, quasi dormendo, il bracciante zappatore arrotolava del povero tabacco in una bianca cartina velina. Il fumo riscaldava l’anima dando coraggio al corpo a vincere l’empio sopruso al corpo, all’anima. Insieme nella massa c’era sempre chi sperava nell’ultima chiamata, nella assenza forzata di un amico già chiamato. Chi poteva sperava. Sperava in una fuga. Fuga lontana dal paese. Fatti di Cassano del 1900 e rotti anni che ancor oggi si ripetono simili o quasi. |
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