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Veronesi, pensiero sulla Medicina(2.a parte) PDF Stampa E-mail
Scritto da Staff.redazione   
lunedì, 21 novembre 2016 08:26
ImageIl mio percorso scolastico iniziale è stato disastroso, sono stato bocciato due volte in tronco. Per il mondo contadino di cui  facevo parte, la scuola era una perdita di tempo, perché portava via braccia dai campi. Da ragazzini si andava a tagliare l’erba, a fare il fieno, e io mi divertivo molto a lavorare nei campi. Non ero affatto motivato ad andare: da un lato tutti i parenti che dicevano «la scuola non serve a niente, vai a lavorare», dall’altro la scuola dell’epoca fascista, che non concedeva nessuna libertà di opinione, di pensiero.

E io sono sempre stato un ribelle, per cui sono anche orgoglioso di essere stato bocciato da quella scuola, fascista e autoritaria. Insomma, il percorso fino alle superiori è stato a dir poco accidentato. Poi c’è stata la cesura della guerra: è stata un’esperienza molto traumatica, che mi ha fatto maturare molto rapidamente, sono stato catturato dai tedeschi, che mi hanno costretto ad andare al fronte con loro dopo l’8 settembre, sono saltato su una mina, sono rimasto 3 mesi in ospedale, ho subito cinquanta interventi chirurgici. Diciamo che ho avuto una vita avventurosa. Poi mi sono unito alla Resistenza, dalla metà del ’44 all’aprile del ’45, il mio compito era tenere i contatti tra le varie formazioni del Fronte nazionale di liberazione a Milano. Mi sono trovato a 17-18 anni di fronte alla mostruosità della guerra, alla violenza per la violenza, alle persone impiccate solo perché avevano un opinione diversa, persone prese con un uncino sotto il mento e attaccate a un albero, una crudeltà che non riuscivo a capire: perché? Da dove nasce questa brutalità, questa violenza? Per questo mentre ero in guerra avevo deciso che, se fossi sopravvissuto a quella follia, avrei studiato psichiatria: volevo capire qualcosa di più di come funziona il nostro cervello, ero convinto che ci fosse qualcosa da approfondire. Finita la guerra, quindi, mi sono iscritto a Medicina, e lì le cose andarono decisamente meglio che a scuola: ero il migliore del corso, laureato con 110 e lode. La svolta è arrivata per caso. A un certo punto del percorso universitario dovevo decidere dove fare il tirocinio obbligatorio, e scelsi l’Istituto tumori di Milano esclusivamente perché era a due passi da casa. Una scelta di pigrizia. Fin dai primi giorni, però, ho avuto una specie di folgorazione, perché la vista di tanto dolore, tanto accanimento, tanta sofferenza, tanta rassegnazione, tanto fatalismo, non solo tra i malati ma anche tra i medici, mi faceva montare la rabbia. «Il cancro è il cancro, se ti capita devi morire oppure, ben che vada, ti tagliamo via qualche parte di corpo, una gamba, un seno, quello che più possiamo, ma certamente non riusciremo a vincerlo»: questo era l’approccio dominante quando per la prima volta mi sono accostato al cancro. Io pensavo che questo approccio non fosse accettabile in un paese che voleva diventare civile e decisi allora che avrei dedicato tutta la mia vita alla lotta contro il cancro.

 I miei professori, che mi consideravano il loro pupillo, avevano già pronte per me varie possibilità: il viaggio a Houston per studiare cardiochirurgia, o a Stoccolma per la neurochirurgia con Olivecrona. Quando seppero di questa mia scelta mi guardarono come fossi fuori di testa: «Il cancro è una malattia che non vinceremo mai, ricordati Umberto: la ricerca sul cancro è una ricerca perdente». Io risposi: «Forse avete ragione, ma ormai l’ho promesso a me stesso». E con questo ho abbandonato ogni idea di carriera universitaria e ogni contatto con quei professori. I primi dieci anni all’Istituto tumori li ho vissuti in completa solitudine, ignorato da tutti, lavorando in quello che era considerato la cenerentola degli ospedali. Dedicarsi al cancro non dava lustro, non era di moda, certamente non era il modo migliore per fare carriera.
Io però trovavo aberrante l’idea delle mutilazioni, che era praticamente l’unico trattamento allora utilizzato per il cancro: tagliare l’organo colpito. Ma io non potevo tollerare la vista di quelle mutilazioni. All’Istituto tumori c’erano molti casi di tumori al seno, che allora venivano trattati con la mastectomia, ossia con la rimozione totale del seno malato, insieme ai muscoli pettorali e ai linfonodi ascellari anche per tumori molto piccoli: un vero e proprio massacro. Per me il corpo femminile ha sempre avuto un’aura di sacralità e vivevo quello scempio come un oltraggio. Sono cresciuto orfano di padre, mia madre è stata la mia guida, il mio mito, è stata madre, sorella, compagna affettuosissima. Era anche una bella donna e il rispetto reverenziale che avevo nei suoi confronti si è poi tradotto in un rispetto assoluto per le donne in generale, e per il loro corpo in particolare. Il corpo femminile è simbolo della procreazione, della continuazione della specie, in altre parole, è simbolo dell’umanità e lo scempio di questo simbolo era per me inaccettabile.

Per questo ho iniziato a studiare, a parlare, a discutere e a sperimentare interventi ridotti di conservazione del seno: l’idea era che, togliendo il tumore e irradiando il resto della mammella, si potesse bloccare il cancro e allo stesso tempo salvare quasi completamente il seno. Un’idea che ho sviluppato e tradotto in uno studio vero e proprio che ho presentato in occasione di una grandissimo convegno dell’Organizzazione mondiale della sanità, a Ginevra nel 1969. C’erano tutti i maggiori esperti mondiali di tumore al seno ai quali ho presentato la mia idea di un intervento ridotto, che ho chiamato lobectomia, perché il seno è fatto di dieci lobi diversi e l’idea era di asportare i singoli lobi colpiti dal cancro. La prima reazione di tutti quei grandi luminari fu molto violenta: «Come si può anche solo immaginare una sciocchezza del genere!». I più agguerriti erano gli americani, che erano i chirurghi più aggressivi, perché in America la medicina è un business per cui più tagli più fai soldi. Io sono persona mite ma ostinata e allora in quei giorni ho cominciato a parlare con tutti a pranzo, a cena, a colazione e alla fine si sono arresi e mi hanno concesso di fare uno studio di confronto, ossia uno studio randomizzato: si prende una popolazione omogenea, la si divide in due gruppi esatti con scelta casuale, un gruppo fa la cura tradizionale e l’altro quella sperimentale. Io ho preso 700 donne con un tumore al seno più o meno allo stesso grado di sviluppo, le ho divise in due gruppi: 350 hanno fatto la mastectomia e 350 la chirurgia conservativa. Trovare queste 700 donne fu un’impresa difficilissima perché ovviamente all’inizio tutte mi guardavano come se fossi un marziano. Poi a metà dello studio le donne cominciavano a capire, vedevano che i primi casi operati andavano bene, l’estetica era conservata, il tumore era sotto controllo e la felicità sprizzava dagli occhi. Con questo intervento conservativo il seno operato rimaneva lievemente più piccolo dell’altro, ma in un modo del tutto accettabile e non erano necessarie protesi. Lo studio è durato dieci anni, dal ’71 all’80, anni per me molto difficili – soprattutto i primi – in cui non dormivo per la paura di aver preso la strada sbagliata. Ma ormai non potevo più tornare indietro. E alla fine dello studio i risultati erano chiari: nessuna differenza fra i due gruppi. Quindi ho pubblicato i risultati sul New England Journal of Medicine, che è la più famosa e autorevole rivista al mondo in materia. Ero però convinto che, nonostante i risultati lampanti, lo studio sarebbe stato ignorato: la reazione dei chirurghi era sempre molto diffidente – avrebbero sempre potuto dire: «Hai sbagliato qualcosa nello studio, non hai tenuto conto di questo o di quest’altro» – e poi ero italiano, e all’epoca il nostro paese non godeva di molta stima nel campo della ricerca medica. Oggi è diverso, ma allora l’America era l’America, e l’Italia era l’Italietta. Ci fu però una circostanza singolare che mi ha aiutato. Una giornalista americana, Jane Brody, che si occupava di medicina per il New York Times, scrisse sul suo giornale un articolo sul mio studio che uscì il 2 luglio 1981. In seguito a quell’articolo, ricevetti centinaia di telefonate da amici e colleghi da tutto il mondo. E da allora cambiarono le cose, quell’articolo diede un impulso decisivo, anche alle donne stesse, che in America erano già molto attive e che iniziarono, attraverso associazioni e gruppi, a fare pressioni sui chirurghi americani perché anche loro adottassero la nuova tecnica. Così è nata la chirurgia conservativa, la tecnica ormai standard per affrontare il tumore al seno. Inutile dire che conservo una copia di quell’edizione del New York Times come una reliquia.

Così è iniziato il percorso, che ha portato ad abbandonare del tutto la mastectomia totale e che ha inaugurato un nuovo approccio al trattamento del cancro. È chiaro che la strada da percorrere è ancora lunga, perché l’obiettivo finale rimane sempre quello di sconfiggere definitivamente la malattia. Oggi, per esempio, al nostro Istituto europeo di oncologia di Milano stiamo studiando degli strumenti raffinatissimi di diagnosi precoce con i MiRna: le cellule tumorali mettono in circolo delle frazioni minime del proprio dna, che si possono individuare con un semplice prelievo di sangue. È possibile già oggi fare una diagnosi precoce di un tumore al polmone con una semplice analisi del sangue. Stiamo portando avanti proprio in questi mesi uno studio, Cosmos 2, in cui cerchiamo di individuare in un gruppo di fumatori, attraverso l’analisi del sangue, la loro predisposizione a sviluppare il cancro. Non siamo ancora alla certezza assoluta, ma stiamo lavorando per rendere questa tecnica la più precisa possibile. Questo per quanto riguarda la diagnostica. Sul fronte della cura, possiamo dire che i tumori presi nel loro stadio iniziale ormai guariscono nella quasi totalità dei casi. Il cancro non è più una condanna a morte. Quando ho iniziato io la percentuale di guarigione del cancro al seno era del 9 per cento, oggi siamo al 90... Per questo molti pensano che io sia un uomo di successo, ma quando ho deciso di dedicare tutta la mia vita al cancro pensavo che avrei visto la vittoria finale contro il cancro. Questo non è avvenuto, quindi ho fallito. Dentro di me sono un uomo infelice.

da Micro Media

 (a cura di Cinzia Sciuto)

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