Skip to content

Sibari

Narrow screen resolution Wide screen resolution Increase font size Decrease font size Default font size    Default color brown color green color red color blue color
Advertisement
Vi Trovate: Home
Skip to content
Alfabeto Civile: E come Europa tra terrorismo e migrazioni PDF Stampa E-mail
Scritto da G.Costantino   
mercoledì, 17 agosto 2016 16:33
ImageCome e quanti stranieri integrare - Il testo che si propone è un abstract dell’editoriale dell’ultimo numero di Limes, il prestigioso mensile di geopolitica diretto da Lucio Caracciolo. Per chi voglia approfondire il tema dell’integrazione e il dibattito  sui modelli di integrazione-accoglienza dei migranti rimando al mio articolo su questo link del 6 marzo 2016 dal titolo La scuola nelle società multietniche, mentre è  del 24 novembre 2015 l’articolo  dal titolo Identità e scelta di appartenenza che tratta della possibilità dell’identità come scelta e non come destino

1. La questione identitaria dilania l’Italia e l’Europa. A rendere più intrattabile l’angoscia del “chi siamo?”, lo iato tra fatti e percezioni, moltiplicato dai media. Tra i vettori della crisi da identità minacciata, ne spiccano due: terrorismo e migrazioni. Ora nel pianeta da sette miliardi e mezzo di anime, il primo colpisce una frazione quasi impercettibile dell’umanità, l’altro ne mobilita un’esigua minoranza. Nel 2015, le vittime dei terroristi sono state 28.328, concentrate soprattutto in Africa e in Asia – quelle da influenza di stagione tra 250.000 e mezzo milione. Lo stesso anno, secondo l’ONU, i migranti erano 243,7 milioni, pari al 3,3% della popolazione globale.

Certo, la recente sequenza di attentati terroristici di matrice jihadista in Europa, concentrati in Francia e in Germania e la persistenza dei flussi migratori diretti verso il cuore del Vecchio Continente via Italia, deformano ai nostri occhi il quadro globale. Sicché nella vulgata, terrorismo e migrazioni ricorrono come due facce dell’identica minaccia alla nostra identità.

2. La paura di perdere identità, dunque controllo sulla propria vita, non si nutre solo di percezioni smodate. Specie in Europa, dove la crisi economica, innestandosi sul declino demografico e sull’impoverimento strutturale dei ceti medi, potrebbe assumere i tratti di una stagnazione secolare. Dove la lotta per preservare i residui privilegi di welfare produce il rifiuto di includere lo straniero nella comunità nazionale. Dove quindi la cittadinanza assurge a bene indivisibile, che gli europei non intendono spartire con gli immigrati, financo con i loro figli e nipoti. Dove infine la consuetudine, ovvero l’indisponibilità a contaminarsi con chi proviene da culture diverse, prevale sulla curiosità per l’altro.

  La prevalenza delle percezioni catastrofiche sui freddi dati tocca il cuore dell’Occidente. Nel referendum che ha appena avviato la secessione del Regno Unito dall’Unione Europea, il 47% dei sostenitori del Leave ha denunciato l’immigrazione, in massima parte proveniente da paesi comunitari, come attacco al benessere economico, malgrado augusti studiosi ne avessero dimostrato il contributo alla ricchezza nazionale e alla riduzione del costo di sanità e pensioni, con relativo calo delle tasse.

3. L’Italia sta cambiando pelle. Per la prima volta in novant’anni, nel 2015 la popolazione residente è diminuita (-130,061 unità), malgrado il leggero aumento degli stranieri (+ 11,716). Al 31 dicembre scorso eravamo 60.665.551 residenti, di cui oltre 5 milioni non italiani (8,3% su scala nazionale, 10,3% nel Centro-Nord), anzitutto romeni (22,5%9 e albanesi (9,3%). Il saldo migratorio positivo è stato di 133 mila persone. Continuiamo peraltro a invecchiare. Seguendo le tendenze attuali, compresa un’immigrazione netta intorno alle 100 mila unità annue, nel 2050 ci ridurremo a circa 57 milioni. Senza immigrazione – ipotesi di pura scuola – perderemmo 8 milioni di abitanti, calando a 52 milioni. Come gran parte dei paesi europei, Germania in testa, gli italiani del futuro prossimo saranno di meno, più vecchi e culturalmente più diversi.

   Image Immaginare che mutamenti tanto profondi possano impattare sull’Italia senza produrre strappi, al tessuto sociale e politico-istituzionale costante, implica l’uso di sostanze stupefacenti. Eppure sembra proprio questa la postura della nostra classe dirigente. Refrattari a riconoscere il mutamento, quando affrontarlo produrrebbe tangibili costi politici e di immagine, i governi italiani, a prescindere dal colore, procedono per inerzia, aggiustamenti, reazione retorica alle emergenze.

  Certo non possiamo invertire a comando il movimento naturale della popolazione, nemmeno se fossimo una dittatura. Ma non è consigliabile esimerci dal disegnare una strategia di sviluppo fondata sulla gestione sistemica del flussi migratori, sull’integrazione di una quota determinante degli immigrati – soprattutto delle seconde, presto terze generazioni – e sulla correlativa necessità di stabilire relazioni speciali con le terre di origine dei nuovi italiani, su quest’ultimo punto non dovremmo avere difficoltà dal momento che l’Italia non è vissuta da questi paesi come colonizzatore (il corsivo è mio).

   Sul fronte migratorio, la novità di quest’anno è che da paese di transito siamo diventati paese obiettivo. Chi sbarca  nella penisola, sopravvivendo al canale di Sicilia, tende a restarvi, non tanto per volontà quanto per assenza di alternative. Ciò per il convergere di costanti flussi migratori da sud e più duri controlli alle frontiere alpine, con cari saluti allo spirito di Schengen.

  Contrariamente alla retorica dell’”invasione”, quest’anno il numero dei migranti sbarcati in Italia è analogo a quello del 2015 (84.052 contro 84.026, al 21 luglio. La differenza sta nella crisi dell’accoglienza. Considerando che per lassismo, inefficienza o empatia per chi cerca di ricongiungersi con i familiari nel Nordeuropa, prima che si chiudessero le frontiere alpine le nostre autorità avevano lasciato filtrare migliaia di migranti verso i loro obiettivi scandinavi, germanici o britannici, alle cifre ufficiali dobbiamo aggiungere un numero imprecisabile ma rilevante di persone allo sbando nel territorio nazionale. Secondo stime informali del nostro governo, la soglia di collasso, oltre la quale si prevedono gravi problemi di ordine pubblico, sarà toccata quando il numero dei nuovi arrivati accolti in Italia si aggirerà attorno ai 200 mila. Siamo prossimi al punto di rottura, considerando anche il picco dei richiedenti asilo, cresciuti del 63% nel giro dell’ultimo anno.

La composizione degli sbarchi è poi eloquente: le prime due nazionalità sono la nigeriana (17%) e l’eritrea (12%). Da aree di instabilità endemica non possono che provenire flussi permanenti.

Aperti i varchi da sud e chiusi gli sfoghi verso nord, scatta l’effetto “pentola a pressione”. L’esplosione prodotta da tale combinato disposto potrebbe essere questione di pochi anni. Di qui l’urgenza di un piano di medio termine che ci consenta di evitare che la mala gestione dei migranti, sommata al terrore degli attentati, al senso di deprivazione e all’impoverimento degli italiani minaccino ordine e pace sociale.

Non possiamo tornare quel che fummo, né restare quel che siamo. Il primo scenario prevede un’impensabile epurazione di massa, concepibile solo da un folle e/o da un neonazista (la cronaca informa che ce ne sono). Il secondo, quasi altrettanto improbabile, significa erigere formidabili barriere ai valichi terrestri e affondare i barconi in arrivo. Entrambe le ipotesi sono insostenibili. Non solo se vogliamo restare un paese abbastanza civile, ma anche per salvare la nostra economia e quel che resta del welfare: stime conservative indicano in duecentomila ingressi annui lo standard minimo necessario alla manutenzione della nostra macchina produttiva e del sistema pensionistico.

Resta la terza e ultima ipotesi:gestire gli immigrati in modo da avviarne l’integrazione della quota maggiore. L’obiettivo ottimale per riconnettere immigrazione e inclusione consiste nella circolarità della prima e nella profondità della seconda. E in un grado accettabile di selettività di entrambe. Nel mondo reale, e nell’Italia attuale, tali utopie possono essere avvicinate a patto di considerare insieme i vincoli e le opportunità seguenti. 

A)    Investire nello sviluppo a medio termine dei paesi africani, a partire dall’energia, dalle infrastrutture, dalla sanità e dalla’educazione, attraverso una collaborazione che incorpori i loro interessi. O i poveri diventano meno poveri a casa loro, o proveranno a trasferirsi dai ricchi.

B)    Aprire selettivamente il nostro sistema formativo ai paesi della sponda Sud, anche delocalizzandone alcune antenne nel continente nero, a condizione che la maggioranza dei giovani laureati in Italia rientri nel suo paese per elevarne il capitale umano. E per costruirci sponde di influenza fra i futuri decisori africani. (forse non avevano la stessa funzione le scuole dei Gesuiti post Concilio di Trento quando istruivano i figli dei principi che avrebbero retto i governi dei nascenti stati nazionali e con i quali la Chiesa di Roma avrebbe stabilito i “Concordati?”) Il corsivo è dello scrivente. Questo aprirebbe le porte all’emigrazione circolare di giovani italiani in terra d’Africa, medicina contro la nostra chiusura emotiva e intellettuale verso un mondo al quale siamo inestricabilmente connessi, L’Euroafrica non è fantageopolitica: per molti versi è dato di fatto.

 

C)    Non si può dare circolarità che non sia anche europea. Il gioco allo scaricabarile destabilizza i paesi europei, compresi i presunti furbi, convinti di accollare agli altri i guai propri. La solidarietà non sarà quindi spontanea, ma frutto di un negoziato al quale approcciarsi con la ferocia pretesa dall’altezza della posta. Se per riaprire le frontiere e stabilire un abbozzo di strategia migratoria comune a noi servisse minacciare di far saltare l’euro – poiché siamo anello debole e insieme sistemico della catena – non dovremmo esitare a ventilarlo.

D)    Quanto all’integrazione, deve puntare alla formazione di nuovi italiani. Cittadini non solo di bracca. Ci avviamo a convivere con una percentuale di popolazione allogena a due cifre, estremamente mista (fattore che ostacolando l’affermazione di un’etnia dominante facilita l’integrazione). Integrazione non significa schiacciare gli altri su un peraltro inesistente modello nostrano. Si offre quindi l’occasione di avviare insieme, italiani vecchi e aspiranti nuovi, un patto sociale e politico quale non abbiamo mai avuto. 

         Tutto è contro questo scenario. Il nostro governo si tiene alla larga dalla questione migratorio/identitaria perché convinto di perdere voti. Media e imprenditori della paura evocano l’apocalisse. Apprendisti stregoni si aggrappano alla speranza che di fronte alla estrema emergenza – una sequenza di attacchi terroristici accompagnata dal collasso del sistema di accoglienza e da disordini di piazza – finalmente qualcosa si muove (tesi che preferiremmo non verificare). Restiamo in balìa degli eventi. Conviene gettare uno sguardo al contesto euro mediterraneo, per capire dove ci trascinerà la corrente, se non saremo in grado di affrontarla. 

4. Non c’è potenza senza integrazione. La demografia da sola non crea una nazione o un impero. Da Roma all’America, ogni protagonista della storia universale si distingue per il talento di trasformare parte degli alieni in propri cittadini. L’integrazione è segno di suprema egemonia. Per integrare servono confini certi e difendibili, valori forti, condivisi in patria e attraenti fuori; lavoro e status per chi produce, protezione per chi è fuori dal circuito economico; disponibilità al sacrificio per il bene comune; istituzioni legittimate e regole rispettate.

Chiunque contempli il panorama geopolitico dell’Unione Europea converrà che le condizioni per integrare gli stranieri, specie se musulmani, difficilmente potrebbero essere peggiori.

Decisive per il futuro dell’immigrazione europea sono le partite francese e tedesca. La Francia ospita oltre 12 milioni tra immigrati e loro discendenti diretti. Il modello assimilazioni stico sta mostrando la corda, specie dopo gli attentati terroristici di Parigi, Nizza e Saint-Etienne-du Rouvray, nei quali figli non molto francesizzati di immigrati arabi e musulmani hanno svolto ruoli cruciali.

  In Germania, secondo paese d’immigrazione al mondo dopo gli Stati Uniti, dove 16 milioni di residenti sono di origine straniera, la questione identitaria sta agitando l’opinione pubblica.

  Merkel ha deciso di affrontare l’emergenza con un’ambiziosa legge per l’integrazione. La cancelliera dell’austerità si è scoperta una vera keynesiana, investendo circa 94 miliardi di qui al 2020 – 25 già quest’anno – per includere una consistente quota di richiedenti asilo nel corpo della nazione, in grave deficit demografico. Dall’aspirante nuovo immigrato in Germania si esige l’apprendimento della lingua, dei valori e della cultura tedesca. Sforzo promosso con la creazione di centomila posti di lavoro (remunerati da 1 a 2,50 euro l’ora, cumulabili ai sussidi), oltre a corsi di formazione professionale. Sanzioni severe, sino all’espulsione, per chi devia dalle regole dovrebbero tranquillizzare i tedeschi che temono l’eccesso di liberalità nei confronti dei rifugiati. 

Nel contesto del “fai-da-te”, in cui ogni paese europeo si ritaglia su misura l’approccio al migrante senza curarsi né dei proclamati valori umanitari né tantomeno degli interessi dei vicini, le analisi che dimostrano come l’attuale flusso di profughi e altri migranti sarebbe gestibile se fossimo davvero europei, ovvero praticassimo al riguardo una politica comune, lasciano il tempo che trovano. L’utopia dell’Unione Europea per i rifugiati sembra destinata a restare tale.

Giuseppe Costantino

< Precedente   Prossimo >