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Sette inediti di pittura napoletana PDF Stampa E-mail
Scritto da A.Della Ragione   
lunedì, 08 febbraio 2016 18:11
ImageContinuamente antiquari e collezionisti  mi inviano foto di dipinti di scuola napoletana, chiedendomi un parere sull’attribuzione e questa circostanza mi permette di visionare una cospicua mole di inediti, alcuni di notevole qualità, come nel caso di questo superbo San Pietro di Francesco Fracanzano appartenente ad una famosa collezione straniera.
Il dipinto trasuda un inconfondibile afrore napoletano, per cui siamo certi che sia stato realizzato in quella straordinaria officina di talenti che per anni fu costituita dalla bottega di Ribera e per quel che riguarda la tela in esame riteniamo di trovarci davanti ad uno dei massimi raggiungimenti di Francesco Fracanzano, uno dei suoi allievi più dotati.

ImageLa rappresentazione di mezze figure di santi e filosofi, investigati con crudo realismo, fu una moda nata nella bottega del valenzano a Napoli ed affermatasi poi anche in provincia grazie ai suoi discepoli, tra i quali si distingue Francesco Fracanzano, che nel 1622, dalla natia Monopoli, si trasferisce con la famiglia nella capitale, entrando giovanissimo nell’ambiente artistico partenopeo, grazie anche al matrimonio, celebrato nel 1632, con la sorella di Salvator Rosa.

Lavorando con il Ribera ne recepì la stessa predilezione per la corposità della materia pittorica e ripropose spesso i soggetti più richiesti dalla committenza: studi di teste e mezze figure di filosofi e profeti.

Si tratta di poderosi personaggi vestiti di rudi panni,  a volte distinguibili grazie agli attributi iconografici, come nella tela in esame(fig. 2)

San Pietro assume l’aspetto di un filosofo e dalla tela trasuda una profonda umanità che comunica allo spettatore un messaggio di poderosa forza morale, senza indulgere ad un formalismo decorativo: una figura, severa e bonaria allo stesso tempo, realizzata con una pennellata generosa, grassa e pastosa, quella che sarà definita tremendo impasto, piena di impeto e pregna di una luce rigorosa che penetra nelle pieghe della fronte e nelle mani, forti e nodose (fig. 3).

I colori smaglianti del San Pietro e la ridondante materia pittorica colloca cronologicamente l’opera intorno o poco dopo al 1635, in consentaneità con le austere figure presenti nelle Storie di San Gregorio Armeno, il vero capolavoro dell’artista.

Trovandoci tra santi e filosofi segnaliamo un monumentale dipinto del van Somer(fig. 4), di proprietà dell’antiquario Febbraio di Napoli.

Hendrick Van Somer è un altro degli allievi del Ribera ricordati dal De Dominici, un artista dalla forte anche se disordinata personalità. La definizione del suo catalogo è particolarmente difficile per la contemporanea presenza a Napoli di due artisti con uguale nome e cognome, uno, figlio di Barent ed un secondo, figlio di Gil. Il primo nato nel 1615 e morto ad Amsterdam nel 1684, il secondo, nato nel 1607 e scomparso forse durante la peste del 1656, presente in città dal 1624.
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Dai santi passiamo alle sante, partendo da una tela conservata in collezione Spiga: una languida figura femminile(fig. 5) ritratta mentre impugna una croce volgendo lo sguardo al cielo, dal volto in estasi e dal seno ben esposto, eseguita da Niccolò De Simone, un geniale eclettico, che oggi la critica conosce più che bene per i caratteri distintivi del suo stile pittorico: anatomie sommarie, tipica concitazione delle scene, caratteristico volto delle donne, tutte mediterranee dai pungenti occhi scuri, assenza di profondità spaziale con bruschi passaggi di scala, folle in preda ad un’intensa agitazione, cieli tempestosi e baluginanti, squisita sensibilità da espressionista nordico, ripetitività nella costruzione dell’impianto generale della scena, personalissima resa cromatica nell’uso di colori stridenti ed incarnati rossicci
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Molte sono anche le sue piccole telette a mezzo busto di donne, molte ancora da identificare ed attribuire con precisione, in cui palese è il modulo di riferimento a Vaccaro, Stanzione e Cavallino; tra le quali particolarmente importante una S. Caterina d’Alessandria nei depositi di Capodimonte, siglata NDS, che ha permesso di raggruppare sotto il suo nome altri dipinti simili, come quello in esame nel quale l’artista raggiunge uno dei vertici della sua produzione.

Un’altra santa notevole(fig. 6) è quella di Andrea Vaccaro della collezione Tedesco a Salerno, con i caratteristici occhi volti verso al cielo e dalla foltissima capigliatura fluente.
Il Vaccaro fu artista abile nel dipingere donne, sante che fossero, pervase da una vena di sottile erotismo, d’epidermide dorata, dai capelli bruni o biondi, di una carnalità desiderabile sulle cui forme egli indugiò spesso compiaciuto col suo pennello, a stuzzicare e lusingare il gusto dei committenti, più sensibili a piacevolezze di soggetto, che a recepire il messaggio devozionale che ne era alla base.
Dopo aver girato e rigirato attorno a tematiche chiaroscurali di derivazione caravaggesca, senza sentirle profondamente e dopo aver assimilato dal plasticismo riberiano quanto gli era necessario per modificare il suo stile pittorico, nel pieno della sua attività si ispirò ai modi pittorici di Guido Reni, da cui derivò, oltre al piacere delle immagini dolciastre, anche la padronanza di schemi compositivi di sicuro successo.
Egli si ripeté spesso su due o tre modelli femminili ben scelti, di lusinghiere nudità, che gli servirono a fornire mezze figure di sante martiri a dovizia tutte piacevoli da guardare, percepite con un’affettuosa partecipazione terrena, velata da una punta di erotismo, con i loro capelli d’oro luccicanti, con le morbide mani carnose e affusolate nelle dita, con le loro vesti blu scollate, tanto da mostrare le grazie di una spalla pallida, ma desiderabile. I volti velati da una sottile malinconia e con un caldo languore nei grandi occhi umidi e bruni, che aggiungono qualcosa di più acuto alla sensazione visiva delle carni plasmate con amore e compiacimento.
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L’ultima santa che esaminiamo, più antica delle precedenti, è quella(fig. 7) della collezione Ferorelli di Bari, esito ragguardevole del delicato pennello di Francesco Guarino.

L’artista nei quadri raffiguranti sante recepisce con sempre maggiore evidenza la maniera stanzionesca e le languide dolcezze pittoriche del miglior Pacecco De Rosa, come pure è permeato dagli impreziosimenti vandychiani e neoveneti, al pari di tutto l’ambiente artistico napoletano.

Nello stesso tempo  sceglie sempre più spesso il piccolo formato, che era stato portato al successo dal Cavallino e dialoga alla pari con il Vouet, con il Domenichino e persino con Francesco Cozza.

Grazie al progredire degli studi la personalità del Guarino è riemersa come quella di uno dei massimi pittori napoletani del secolo. Napoletanissimo come pochi altri per discepolato, per stile, per committenza e per le tematiche affrontate e napoletano anche per il modo di morire, almeno a prestare fede al racconto del De Dominici: infatti, mentre il solofrano era nel pieno della maturità, a soli 43 anni, la sua vita ebbe un epilogo improvviso, non per la peste, come avvenne per tanti suoi colleghi nel 1656, bensì per un’esplosione di gelosia in cui sarebbe stato coinvolto alla corte di Ferdinando Orsini a Gravina in Puglia. Sulle cause del decesso vi possono essere dubbi, tenuto conto della fertile fantasia del biografo settecentesco, mentre sulla data, fornitaci da un documento, non vi è incertezza: 13 luglio 1654.
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Per le ultime due opere che presentiamo, due capolavori del De Matteis, ci portiamo tra la fine del Seicento e l’inizio del secolo successivo.

Per la prima, una Madonna col Bambino (fig. 8), appartenente alla più celebre raccolta privata italiana: quella dell’avvocato Fabrizio Lemme di Roma, ci riserviamo di leggere la dotta scheda predisposta dal professor Riccardo Lattuada per il volume che celebrerà ad aprile i 50 anni di collezionismo dell’illustre proprietario.

Un libro alla cui stesura partecipano i direttori dei più importanti musei del mondo ed i più prestigiosi studiosi a livello internazionale. E per il sottoscritto è stato un onore incommensurabile partecipare a questo aureo consesso, compilando una scheda per un dipinto di Giovan Battista Spinelli.

La seconda tela, dal soggetto originale: una Esposizione del Bambino, (fig. 9) della collezione Murena di Napoli fa da copertina all’ultima edizione della mia monografia sul pittore: Paolo De Matteis opera completa.
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Nella composizione è possibile riscontrare, oltre al sostrato giordanesco, una forte ispirazione dallo stile del Maratta, anche se il De Matteis tende ad equilibrare le due componenti, raggiungendo un equilibrio nella rappresentazione della scena, con il Bambinello in primo piano, immerso nella luce, che fa da protagonista della narrazione.

Achille della Ragione
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