Vangelo di Domenica 19 Ottobre |
Scritto da don Michele | |
sabato, 18 ottobre 2014 07:32 | |
Dal Vangelo di Gesù Cristo secondo Matteo 22,15-21. In quel tempo, i farisei, avendo udito che Gesù aveva ridotto al silenzio i sadducei, ritiratisi, tennero consiglio per vedere di coglierlo in fallo nei suoi discorsi. Mandarono dunque a lui i propri discepoli, con gli erodiani, a dirgli: «Maestro, sappiamo che sei veritiero e insegni la via di Dio secondo verità e non hai soggezione di nessuno perché non guardi in faccia ad alcuno. Dicci dunque il tuo parere: E' lecito o no pagare il tributo a Cesare?». Ma Gesù, conoscendo la loro malizia, rispose: «Ipocriti, perché mi tentate? Mostratemi la moneta del tributo». Ed essi gli presentarono un denaro. Egli domandò loro: «Di chi è questa immagine e l'iscrizione?». Gli risposero: «Di Cesare». Allora disse loro: «Rendete dunque a Cesare quello che è di Cesare e a Dio quello che è di Dio». (Nella seconda parte, in coda all’Omelia, pubblichiamo il foglio informativo settimanale della Parrocchia di San Giuseppe in Sibari e il commento di mons. Bertolone) Riflettiamo “insieme” sulla Parola di Dio della Domenica 19 ottobre 2014 XXIX Domenica del Tempo Ordinario – A (Is 45,1.4-6; Sal 95(96); 1Ts 1,1-5a; Mt 22,15-21) In questa domenica, legata ormai da anni alla preghiera alla riflessione e alla solidarietà per la missione ad gentes potremmo soffermarci a riflettere non solo sulle letture che ci vengono proposte dalla liturgia, ma anche su alcuni “fatti” che, come Chiesa, viviamo in questi giorni. Il Signore, infatti, ci parla non solo attraverso la Sua Parola, ma – come ha insegnato il Concilio Vaticano II – “attraverso parole e avvenimenti intimamente connessi”. Un fatto di particolare rilevanza ecclesiale è sicuramente la beatificazione di papa Paolo VI, che proprio oggi viene elevato agli onori degli altari. Beatificare e/o canonizzare un uomo significa proporre alla Chiesa un modello sicuro da imitare, un uomo che – nel tempo in cui è vissuto e nel servizio che ha svolto – ha saputo riproporre, far “rivivere” il Signore Gesù. Papa Paolo è stato sicuramente un’immagine chiara di Gesù Buon Pastore. Egli si è trovato a guidare la Chiesa in un momento storico certo non facile e lo ha fatto con totale amore e dedizione. È lui che ha ereditato il testimone del Concilio Vaticano II da san Giovanni XXIII, lo ha portato felicemente alla conclusione e ne ha promulgato tutti i documenti. Papa Paolo è stato un’immagine chiara di Gesù, Sposo della Chiesa: l’ha amata incondizionatamente e visceralmente. Per Essa ha gioito, ha pianto, ha silenziosamente sofferto. È stato anche un ineguagliabile missionario: ha compiuto numerosissimi viaggi apostolici, scegliendo il nome di Paolo proprio per esprimere il suo desiderio di evangelizzare. E proprio sull’evangelizzazione ha scritto uno dei più bei documenti della storia della Chiesa, l’enciclica Evangelii nuntiandi, a cui Papa Francesco più volte si richiama e vi fa riferimento. Paolo VI è stato l’artefice del Sinodo dei Vescovi, uno degli strumenti più importanti nati dal Concilio Vaticano II, attraverso cui si esprime la collegialità episcopale e attraverso cui il successore dell’Apostolo Pietro esercita collegialmente il proprio ministero di pastore universale. Che bello: una “Chiesa sinodale”, capace di impegnarsi e faticare per “camminare insieme”! Attraverso la sua beatificazione oggi siamo invitati a proseguire spediti lungo il cammino da lui tracciato. Una seconda riflessione, in questa giornata missionaria mondiale, è opportuno farla a partire dalla seconda lettura che ci viene proposta dalla liturgia. Ascoltiamo l’inizio della prima lettera ai Tessalonicesi, il primo testo scritto del nuovo testamento. Innanzitutto è da sottolineare lo stile “comunitario” dell’evangelizzazione. San Paolo non è stato un “battitore solitario”! Egli si rivolge alla comunità di Salonicco insieme ad altri apostoli, che con lui condividono la fatica dell’evangelizzazione: Silvano e Timoteo. Questo è un fatto particolarmente importante! Gesù stesso aveva inviato i suoi discepoli a predicare “a due a due” … l’amore reciproco, infatti, è il più chiaro annuncio e la più efficace testimonianza di Dio che è Amore! È chiaro che “lavorare insieme”, che collaborare costa più fatica … perché ognuno è diverso dall’altro, ognuno ha la propria storia … ciascuno ha i propri limiti! Ma l’annuncio comunitario del Vangelo, il “sopportarsi a vicenda con amore”, il “gareggiare nello stimarsi a vicenda” rendono le comunità cristiane “icone” di Dio-Trinità … le divisioni, le invidie, le maldicenze non hanno nulla a che fare con l’annuncio del Vangelo e non si possono tollerare in una comunità che si dice “cristiana”! Sicuramente anche i tessalonicesi facevano fatica a vivere l’amore fraterno, ma l’esempio di Paolo, Silvano e Timoteo li avrà sicuramente incoraggiati e spronati ad impegnarsi un po’ di più. Non per nulla ascoltiamo che Paolo, Silvano e Timoteo “rendono grazie a Dio” per ciascun membro della comunità di Salonicco e li ricordano nella preghiera “tenendo ben presente l’operosità della loro fede, la fatica della loro carità, la fermezza della loro speranza”! Se le nostre comunità cristiane saranno caratterizzate da fede “operosa”, speranza “ferma” e carità “faticosa” sicuramente saranno comunità missionarie, capaci di dare testimonianza al mondo che Dio è Amore! Chiediamo questo nella preghiera al Signore per tutte le nostre comunità!
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IL COMMENTO DI MONS. BERTOLONE
XXIX Domenica del Tempo Ordinario Esercizi di laicità Introduzione La Parola di Dio è senza tempo. Non la si può chiudere entro spazi cronologici precisi, né va considerata esclusivo messaggio destinato a chi con quella Parola ha percorso polverose miglia per le strade di Palestina. Essa di fatto è viva, straordinariamente attuale. Tuttora è in dialogo aperto con l’uomo, lo interpella, risponde alle sue esigenze, ai suoi sogni, ai suoi desideri. E lo fa storicizzandosi ogni volta, quasi fosse pronunciata per l’uomo di ogni tempo e di ogni spazio, compresi il nostro tempo e il nostro spazio. Così mai come in questa domenica, la XXIX del tempo ordinario, quell’ammonimento perentorio di Gesù, “rendete a Cesare quel che è di Cesare, e a Dio quel che è di Dio”, ci serve sentire, ripetere, far penetrare dentro per smuovere qualcosa, per svegliarci dal sonno delle coscienze. Il succo di questo messaggio – che parla di responsabilità civile, di carità nell’amministrare la cosa pubblica e richiama, infine, al dovere di essere cittadini con tutta la consapevolezza della propria differenza cristiana – è anche nei ripetuti appelli dei Pontefici che, negli ultimi tempi, hanno auspicato con amorevole sollecitudine un maggiore impegno dei cattolici nella vita pubblica, civile e politica del paese, affinché questa nostra società sia organizzata più umanamente e impastata di valori cristiani. È un appello al buon senso, affinché con lo stile inconfondibile dell’identità cristiana si ridoni dignità alla società degli uomini. Del resto, nonostante i detrattori di turno continuino ad urlare contro la cura della Chiesa per l’uomo nel mondo e nelle sue relazioni sociali e civili, resta il fatto che “per quanto possa sembrare paradossale, la via più breve tra l’uomo e l’uomo passa attraverso Iddio” (card. Faulhder). Al servizio di Dio e degli uomini Il Vangelo oggi ci invita ad occuparci di alcuni aspetti della vita cristiana che di solito restano ai margini della nostra attenzione domenicale, e non solo: quello politico e quello civico. È la prova che il messaggio contenuto nel Vangelo non ha l’impronta epicurea del disimpegno politico e sociale, un appello a restare fuori dai negotia umani. Anzi tutt’altro, come chiaramente esprimono le parole pronunziate da Gesù in questa pagina di Vangelo, la Parola chiama il credente ad impegnarsi nel campo sociale e politico con speciale responsabilità e testimonianza. Il difficile, però, è sapere come fondare tale impegno sul Vangelo, come raccordarlo all’impegno religioso, perché non si perpetui quella separazione nefasta tra fede e prassi, né quella rovinosa prevaricazione della prassi sulla fede e viceversa. C’è bisogno di un equilibrio. E la parola di Gesù oggi consente di scoprire proprio quel fondamento evangelico e di trovare quell’equilibrio sano tra fede e prassi. Gesù di fatto afferma che il Regno di Cesare e il regno di Dio non si escludono a vicenda, e che è possibile al cristiano operare contemporaneamente, nell’uno e nell’altro campo senza conflitti insanabili. Giacché comune denominatore dei due regni e dell’appartenenza ad essi è la consapevolezza che né nel regno di Cesare né in quello di Dio alcuna cosa ci appartiene, ma tutto c’è donato. La vita stessa non è un diritto: è prima ancora un debito verso Dio e verso gli altri, i genitori, gli amici, la storia, la cultura, il lavoro. Perciò è giusto rendere ciò che in verità non ci appartiene, assolvendo al nostro debito d’amore, di benessere, di salute, di istituzione. Da altri a noi, da noi agli altri, in un circuito sempre aperto. Perché è dal momento in cui ci si affaccia alla vita, che si vive in alleanza, in un tessuto di relazioni ben definite, anzi, di due relazioni, nutrite da due amori: quello di Dio e quello degli uomini. “Cesare”, in definitiva, non esclude Dio e Dio non esclude “Cesare”. Anzi più si è di Dio più si vive in verità, giustizia e carità nel regno di “Cesare”. Per questo la Parola di oggi si fa anche Parola di denuncia. La denuncia di tutte le tendenze spirituali, isolazioniste, intimiste, che invitano il cristiano a rinunciare ad ogni impegno sociale per strutture giuste e pacifiche considerando la politica solo un gioco di squallidi interessi. Non si può pensare di arrivare al cielo senza che si parta dalla terra: è da qui che si costruisce la strada verso il cielo. E la testimonianza cristiana diventa così anche testimonianza civica: penetra all’interno delle vicende storiche e politiche, e lo fa con rigore, giustizia, genuino spirito di collaborazione. Allora “Cesare” non si può identificare solo con lo stato o il potere, né con il pantheon di facce note e meno note, “Cesare” è la nostra partecipazione attiva a questa società umana, alla quale dobbiamo rendere qualcosa perché anche il nostro contributo rinnovi il volto del paese nel quale abbiamo avuto la ventura e il dono di esistere. E se “Cesare” sbaglia, (se noi come cittadini veniamo meno al nostro dovere civico), si deve correggere e dobbiamo correggerci; e se “Cesare” ruba e uno dei nostri fratelli furbescamente ruba allo stato, evadendo le tasse, il nostro tributo sarà una coscienza cristiana che richiami ai propri doveri. Dunque, esortazione all’impegno civile e politico e, insieme, denuncia del disimpegno e della corruzione: questi sono i due binari sui quali corre il messaggio di oggi , la cui attualità, viste le sfide del momento, è sconcertante. Un rinnovato impegno civile Il Vangelo di oggi allora risponde al bisogno diffuso di sperare ancora che il meglio sia tuttora possibile, giacché non si realizza per nostro merito, ma è dono certo di Dio. E se Dio ci fa ancora dono di questa speranza, la nostra riconoscenza si esprime nello spendere la vita stessa al servizio degli altri. Un servizio che passa anche attraverso il contributo alla struttura statale, sia come impegno politico, umano, civile e morale, sia come impegno economico, nel doveroso tributo delle tasse. Attraverso entrambi gli esercizi, politico ed economico, noi esercitiamo la carità. Infatti, diventeremo solidali nel bisogno, tuteleremo i più deboli, incrementeremo l’assistenza sociale, contribuiremo alla realizzazione di una più equa distribuzione dei beni. Perciò non si può ignorare il fatto che è un peccato il disimpegno ed è un peccato l’evasione: entrambi sono comportamenti decisamente anti-evangelici. Saremo invece discepoli autentici del Cristo, anche nella società civile, alberi capaci di generare continuamente frutti buoni, nella misura in cui sapremo andare oltre le buone intenzioni per giungere a compiere azioni concrete dettate dall’amore per i poveri, i forestieri e gli oppressi. Anche l’azione più piccola diverrà importante. Comprendiamo allora, in questa chiave, l’importanza del nostro agire quotidiano e soprattutto del lavoro che connota il nostro vivere da cristiani nella storia, un agire che, come insegnava Lazzati, non può non essere espressione di fede: “Il proprio dovere professionale, compiuto bene, nei dovuti modi, nel rispetto di quelle modalità che gli sono proprie, per tutto il tempo che esso esige. Lavoro fatto per amore di Dio e dei fratelli. Conclusione La Parola del Vangelo segna la rotta, la parola del Magistero ce la ricorda e ce la spiega, la testimonianza degli uomini di fede, della storia passata e della più recente, ci parla della possibilità di metterla in pratica. La possibilità cioè di vivere una vita sociale e un impegno politico fondati sui valori cristiani. È possibile partecipare alla storia degli uomini con tutto ciò che ci contraddistingue come cristiani. È possibile essere visibili e nascosti, ma sempre significativi. Uno di questi testimoni è stato Giorgio La Pira, che durante l’ultima seduta dell’Assemblea costituente (22 dicembre 1947), ha messo in luce l’importanza di un “ordine sociale e politico che sia conforme all’alta dignità della persona e alla fraterna solidarietà umana che assicuri, perciò, a ciascuno un posto e una funzione nella ordinata comunità nazionale”. Il cristiano è chiamato in prima persona a costruire quest’ordine, per lui l’impegno politico e civile deve essere: “…impegno di umanità e santità […] di una vita tutta tessuta di preghiera, di meditazione, di prudenza, di fortezza, di giustizia e di carità”. (Giorgio La Pira). Serena domenica +Vincenzo Bertolone
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