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Cronache del Mediterraneo (racconto) PDF Stampa E-mail
Scritto da E.Casella   
sabato, 07 giugno 2014 07:28

ImageQuattro persone in un metro quadrato. Così ci costringono a viaggiare, ammassati l’uno con l’altro. Nel mio “gruppo” siamo addirittura in cinque (siamo tra gli ultimi che sono saliti, e ci siamo dovuti arrangiare): io, mia madre, mia sorella Farah e due giovani dall’aria molto spaventata (ma, in fondo, non lo siamo tutti?). Mio padre è morto in guerra, circa due settimane fa, e mia madre è ancora distrutta. Ma è una donna piena di forza, la mia mamma, ed ha avuto il coraggio di reagire. Siamo riusciti a trovare un buco in un vecchio traghetto e ora siamo qui, in viaggio, verso l’Italia. Abbiamo sentito parlare di Lampedusa e di ciò che succede ai nostri connazionali che costantemente emigrano in cerca di protezione, ma non abbiamo altra scelta.

Una volta vedevo le cose con altri occhi, con gli occhi dei bambini. Tutto era un gioco, tutto era divertimento, e ancora non avevo imparato cos’era la vita, la vita vera. Sono cresciuto nella guerra, tra i carri armati, le bombe e gli spari, tra le urla e il sangue, ed ho conosciuto il dolore. Per la prima volta, quando mio fratello maggiore, arruolatosi come volontario, venne ucciso, per la prima volta nella mia vita piansi davvero, e quasi sentivo  la mia  abbandonarmi lentamente, lacrima dopo lacrima.

                Non ci è concesso parlare, nemmeno tra vicini, e dobbiamo farlo di nascosto, stando attenti che gli scafisti non ci vedano. C’è una vecchia storia, secondo la quale gli scafisti sono i figli del diavolo, che non conoscono la compassione, solo il dolore e la morte. Non so se credere o meno, a questa storia, ma sono certo che chiunque l’abbia detta per primo avesse le sue buone ragioni per farlo.

                Più volte ho provato a parlare con i miei vicini, ma non mi hanno degnato nemmeno di uno sguardo, troppo impegnati a farsela sotto. Così devo arrangiarmi a fare delle lunghe conversazioni con Farah. Le racconto vecchie barzellette della nonna, e lei ride sommessamente, coprendosi la bocca con le mani (le abbiamo detto di non fare troppo rumore,  io e la mamma, dicendo che è tutto un gioco, e che in pochi giorni, avremmo decretato il vincitore, scegliendolo tra tutti i presenti sulla barca). Che bambina adorabile,  penso, mentre la guardo tenersi strette le guance paffute con quelle mani altrettanto grassocce. Non deve provare anche lei l’orrore della vita, mi riprometto, e quasi mi viene da piangere. Non deve.

                Sono già passati quasi tre giorni di viaggio. Ci avevano detto quattro giorni al massimo, ma nell’ultimo giorno abbiamo rallentato di molto rispetto all’inizio.

                “È colpa del peso,” mi ha detto un signore anziano. “Il traghetto può contenere duecento, duecentocinquanta persone al massimo. Adesso siamo quasi cinquecento persone, e questa carretta a fatica riesce a reggere il peso di cinquecento persone.”

                Probabilmente il viaggio verrà prolungato di un giorno, due al massimo. È un’agonia continua, sul ponte. Dobbiamo stare per giorni immobili, seduti a gambe incrociate, in posizioni assurde e scomodissime, schiacciati l’un con l’altro. Abbiamo a disposizione due casse piene di bottigliette d’acqua, ma non bastano per tutti, quindi siamo costretti a bere più persone alla stessa bottiglia. Del cibo non c’è nemmeno l’ombra. Dobbiamo arrangiarci con quello che ci siamo preparati prima di partire: a volte un po’ di pane, del formaggio, biscotti e frutta. Ma alcuni di noi si guardano bene dal mangiare troppo. Non possiamo andare nemmeno al bagno, per cui dobbiamo trattenere tutto fino alla fine del viaggio e, dopo un po’, diventa drammatica, la situazione. Alcuni non riescono a resistere, e se la fanno addosso; allora una puzza terribile invade l’aria, e molti si sforzano per trattenere i conati di vomito.

                Ci sono donne incinte, sul ponte, e molti anziani. Mi chiedo fino a quando potranno resistere, loro, prima di cedere. E molti cedono. E allora vengono buttati in mare come sacchi di patate, per smaltire del peso in eccesso, dagli scafisti. A volte, succede che qualche disperato si butti in mare per cercare la salvezza a nuoto, ma praticamente nessuno riesce nel suo intento.

 

***

 

                Quarto giorno di viaggio. Durante la notte, un freddo tremendo si è abbattuto sul ponte. Un signore è morto assiderato, e gli scafisti, prontamente, l’hanno gettato in mare. Comincio a chiedermi se anche noi non faremo la stessa fine. Ho paura. Ho paura per mia madre, per mia sorella. Ho paura per me. Non so se riusciremo a portare a termine questo viaggio.

                Questa mattina, uno dei miei vicini mi ha parlato per la prima volta. Yussuf, ha detto di chiamarsi. Mi ha confessato di avere una fidanzata, in Italia, e di stare andando a trovarla. Ha detto che lei gli ha mandato un sacco di foto, e me ne ha fatto vedere una. È una ragazza bellissima, dai lunghi capelli biondi e dagli occhi verdi. Un sorriso meraviglioso. Mi ritrovo a pregare perché Yussuf arrivi sano e salvo in Italia e che loro due si incontrino.

                “Come si chiama?” gli ho chiesto.

                “Sandra.”

                “È un bel nome.”

                “È meraviglioso. Come lei”. Mi sorride, uno dei pochissimi sorrisi che mi è capitato di vedere, su questa nave. Mi da un certo senso di conforto.

                È quasi notte, quando lo scafista annuncia che i motori hanno perso carburante. Non passa molto, e il panico s’impossessa inevitabilmente dei presenti. Urla e schiamazzi si propagano nel vento, e in quel vento sono riposte tutte le residue speranze, perché ci trasporti verso la costa. Bisognerà prolungare ulteriormente il viaggio. Ora uno strano pensiero m’invade la mente, come un chiodo fisso: e se il viaggio non avesse mai fine? Se fossimo costretti a viaggiare per l’eternità?

 

***

 

                Sesto giorno. Ormai molti di noi sono in uno stato pietoso. Alcuni delirano, urlano a squarciagola, affermando di aver intravisto la costa. Certi li credono, e prendono ad urlare anche loro, ma altri, compreso il mio amico Yussuf, sanno che sono solo effetti di delirio mentale.

                Verso sera, uno ha cercato di mandare un segnale, incendiando la camicia e qualche straccio e facendoli svolazzare al cielo, ma non solo non ha risolto un bel niente, ha anche rischiato di dar fuoco alla nave. Quell’uomo è stato frustato. È così che gli scafisti puniscono chi si comporta male.

                Durante la notte sono morte decine di persone, e i loro cadaveri immediatamente gettati tra le acque, in pasto al Mediterraneo affamato, assetato di sangue. Avevo sentito parlare della storia del “Mare Nostrum” dei latini a scuola. Mediterraneo, crogiuolo di etnie, culla di antiche civiltà, ed ora solo uno spaventoso teatro di morte. Le acque sono macchiate di sangue, e non si può far nulla per cambiare la storia, ormai. Quante vite sono state divorate da quei fondali? Quanti fili di esistenze si sono spezzati, tra le alghe e i pesci muti? mi chiedevo, e non sapevo darmi risposta.

                Spesso, mia madre tira fuori una foto di mio padre dalla borsetta, e prega. Prima prega, poi scoppia in lacrime, lacrime silenziose, che sono poi sempre le peggiori e le più dolorose. Farah, quando non è impegnata a seguire con l’attenzione curiosa dei bambini le mie barzellette e le mie favole antiche, s’inventa degli strani giochi con le dita; le arrotola e le intreccia tra di loro, formando delle buffe coreografie. Dio, mi viene voglia di provare, a volte! Quanto vorrei tornare all’età dei giochi! Quanto vorrei che questo dolore terribile scivolasse via dalla mia pelle, come la rugiada scende e cade dalle foglie all’alba.

                Il sole è quasi tramontato. Una luce rossastra ora colora il mare come sangue. Tra poco il sole calerà, inghiottito dalle acque, e scenderà la notte.

                Abbiamo terminato anche le ultime scorte di cibo e acqua, e la fame e la sete cominciano a farsi sentire. Davvero non so fino a quando riusciremo a resistere in queste condizioni. Oggi sono morte altre tre persone, e un gran numero è impazzito. Alcuni muoiono assiderati, altri vengono uccisi dagli scafisti a colpi di frusta. I loro cadaveri, come ormai il macabro rito prevede, vengono buttati in acqua, quasi come un’offerta agli dei del mare. Ora, questo viaggio maledetto ha rivelato la sua vera natura: una folle corsa per salvarsi la vita, una lotta disperata contro la morte.

 

***

 

                Settimo giorno di viaggio. Sto perdendo la testa, lentamente. Ora anch’io, come molti altri, vedo all’orizzonte la costa tanto ambita, e la desidero con tutto me stesso.

                Mia madre è morta questa mattina. Era malata, e nessuno lo sapeva. È morta davanti ai miei occhi. Continuo a pregare: prego per mia sorella, perché non le succeda niente. Ho paura. Il mare, davanti ai miei occhi, sembra estendersi all’infinito; nulla si riesce a distinguere, solo le acque. Anche il cielo pare essersi ammutolito: non un uccello che vola, non una nuvola che passa, e un sole “spento”, senza vita.

                “Mi racconti una barzelletta?” mi chiede Farah.

                Io ci penso un attimo, ma proprio non me ne vengono, di barzellette. Non so davvero cosa dire. “Adesso no, Farah” le dico, accarezzandole una guancia. “Questa è l’ultima parte del gioco. Bisogna stare in silenzio per un po’ di tempo. Abbiamo quasi vinto.”

                È quasi il tramonto. Il sole comincia a scendere lentamente. È il tramonto più bello che abbia mai visto in vita mia... e sarà anche l’ultimo. Il viaggio è alla fine. Durante la notte sono morte altre persone. Ormai ho perso il conto. Quanti ne sono morti, dall’inizio del tragitto? Dieci? Cento? Mille? Quanti ne ha presi il mare, questo mare che sembra non essere ancora sazio di anime? Non ricordo, non ricordo più. Eppure, tutti questi morti non sono che una piccola parte dell’elenco interminabile delle vittime del mare. Mar Mediterraneo, che molto da e tutto prende.

                Siamo ormai in dirittura d’arrivo, quindi penso sia giunto il momento per i saluti. Il sipario della vita sta per calare su questi miseri attori. Forse, finiremo sui giornali di domani. Ho sempre desiderato finire su un giornale. Peccato, però, che non potrò mai leggerlo.

 

ImageErnesto Casella

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