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Due Papi un’unica santità PDF Stampa E-mail
Scritto da +V.Bertolone   
mercoledì, 23 aprile 2014 08:59
ImageNella discussione sulle note della Chiesa (via notarum)  - inaugurata nel medioevo da Giacomo di Viterbo e continuata in età moderna da Roberto Bellarmino  - quella della santità viene subito dopo la nota dell’unità. Come ci ricorda il concilio Vaticano II nella costituzione dogmatica Lumen gentium (n. 41), «nei vari generi di vita e nelle varie professioni un’unica santità è praticata da tutti coloro che sono mossi dallo Spirito di Dio e, obbedienti alla voce del Padre e adorando in spirito e verità Dio Padre, seguono Cristo povero, umile e carico della croce, per meritare di essere partecipi della sua gloria». Ora la santità della Chiesa si manifesta in due pontefici, che giungono insieme alla canonizzazione. Stanno bene insieme questi due santi già per il nome Giovanni, che ci ricorda il precursore, colui che prepara la via al Signore. Giovanni XXIII è precursore perché ha preparato al Signore la via di un rinverdimento della Chiesa cattolica.

Lo ha fatto convocando un concilio in un momento in cui «mentre l’umanità è alla svolta di un’era nuova, compiti di una gravità e ampiezza immensa attendono la Chiesa, come nelle epoche più tragiche della storia», si legge nella costituzione apostolica Humanae salutis, con la quale indiceva il Vaticano II.

L’obiettivo dichiarato era quello di mettere le energie vivificatrici del Vangelo in dialogo con il mondo moderno caratterizzato soprattutto dal progresso della scienza e della tecnica e, soprattutto, di farlo preferendo alle voci dei «profeti di sventura» che vedono tutto nero un atteggiamento e un linguaggio simpatetici con il mondo, perché «il mondo ha bisogno di Cristo: ed è la Chiesa che deve portare Cristo al mondo», disse il Papa nel radiomessaggio dell’11 settembre 1962. Muovendosi sulla stessa scia, Giovanni Paolo II — che aggiunse al nome del precursore quello del banditore del Vangelo, san Paolo — si trovò a gestire anche cambiamenti sociali e politici veramente rivoluzionari. Benedetto XVI, nel giorno delle esequie di questo Papa, nell’omelia disse di aver sentito «aleggiare il profumo della sua santità, e il Popolo di Dio ha manifestato in molti modi la sua venerazione per Lui».

Il Papa polacco tra l’altro preparò in maniera inedita la via al Signore, gridando ai quattro punti cardinali la gioia di riscoprire le radici cristiane della cultura. Un grido positivo, che giunge particolarmente profetico in un’Europa che avrebbe assistito al dissolvimento del comunismo reale e alla caduta del muro di Berlino, ultimo emblema delle divisioni e delle guerre che avevano per due volte, nel corso del Novecento, dilaniato non solo l’Europa ma buona parte del mondo. Nel discorso all’assemblea plenaria del Pontificio Consiglio della cultura (12 gennaio 1990) Giovanni Paolo II disse tra l’altro: «Un messianismo terreno è crollato e sorge nel mondo la sete di una nuova giustizia».

Non dimenticava, però, di avvertire che «non mancano nuovi rischi di illusione e di delusione. L’etica laica ha sperimentato i suoi limiti e si scopre impotente dinanzi ai terribili esperimenti che si effettuano su esseri umani considerati come semplici oggetti di laboratorio». Si era allora al preludio di quella che sarebbe diventata la nuova frontiera della bioetica. Nell’omelia della messa celebrata nel santuario di Velehrad il 22 aprile 1990, quasi facendosi precursore dei temi della «nuova evangelizzazione», il Pontefice apriva però i cuori alla speranza: «La notte è passata, è arrivato di nuovo il giorno. Il vostro pellegrinaggio verso la libertà deve continuare. Camminate come figli della luce (cfr. Efesini, 5, 8). Continuate a camminare verso la piena libertà».

 I nuovi santi stanno bene insieme anche perché, oltre ad avere realizzato ambedue in grado eroico le tre virtù teologali, le hanno mirabilmente praticate, illustrate, descritte e insegnate a tutto il popolo di Dio, che ancora ne trae giovamento.

E tra le tante possibilità offerte dal magistero di Giovanni XXIII bisogna ricordare la sua peculiare «teoria di una fede socialmente impegnata» che propose nell’enciclica sociale Mater et magistra  (15 maggio 1961), preludendo alle aperture conciliari di Gaudium et spes. L’enciclica viene promulgata per mantener viva la fiaccola sociale accesa dai suoi predecessori, primo fra tutti Leone XIII, il Pontefice della dottrina sociale della Chiesa. Bisogna esortare tutti, ripete Papa Roncalli, a non rinchiudere la fede nella sfera privata, bensì a trarre dalla dottrina della fede cristiana «impulso ed orientamento per la soluzione della questione sociale in forma più adeguata ai nostri tempi» (n. 38). Rispetto a teorie emergenti, che in quegli anni teorizzavano una città secolaristica, oppure un progresso sociale e culturale ritenuto possibile anche a prescindere da Dio, Giovanni XXIII ricordava a tutti, in controtendenza fiduciosa: «Si è affermato che nell’era dei trionfi della scienza e della tecnica gli uomini possono costruire la loro civiltà, prescindendo da Dio. La verità invece è che gli stessi progressi scientifico-tecnici  pongono problemi umani a dimensioni mondiali che si possono risolvere soltanto nella luce di una sincera ed operosa fede in Dio, principio e fine dell’uomo e del mondo» (n. 194). Era una spinta educativa e profetica per le famiglie e soprattutto ai genitori che Papa Roncalli chiamava «a una vita di fede e a una profonda fiducia nella divina Provvidenza perché siano pronti ad affrontare fatiche e sacrifici nell’adempimento di una missione tanto nobile e spesso ardua quale è quella di collaborare con Dio nella trasmissione della vita umana e nell’educazione della prole» (n. 182). In continuità rispetto a un’altra enciclica  -  l’Aeterni patris con la quale nel 1879 Leone XIII auspicava la rinascita della filosofia cristiana  -  si mosse poi Giovanni Paolo II con un testo in cui la correlazione, e non più l’antitesi, diviene la via maestra della fede e della ragione che era diventata, rispetto agli anni di Giovanni XXIII, una ragione ancora di più scientifica e tecnologica avanzata. La Fides et ratio (1998) utilizza la metafora delle ali e del volo: i due motori, dati da Dio all’essere umano perché vada verso il vero razionale, il vero scientifico e il vero rivelato: «La fede e la ragione sono come le due ali con le quali lo spirito umano s’innalza verso la contemplazione della verità. È Dio ad aver posto nel cuore dell’uomo il desiderio di conoscere la verità e, in definitiva, di conoscere lui perché, conoscendolo e amandolo, possa giungere anche alla piena verità su se stesso», si legge nell’esordio dell’enciclica.  La fede, perciò, non può che apprezzare «l’impegno della ragione per il raggiungimento di obiettivi che rendano l’esistenza personale sempre più degna» (n. 5). Ma allo stesso tempo non può non ricordare alla ragione retta che viene anche il momento di inchinarsi di fronte al mistero.

* Vincenzo Bertolone Arcivescovo di Catanzaro-Squillace
© Osservatore Romano - 22-3 aprile 2014

 

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