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Vangelo di Domenica 13 Ottobre PDF Stampa E-mail
Scritto da +V.Bertolone   
domenica, 13 ottobre 2013 08:14

ImageDal Vangelo di Gesù Cristo secondo Luca 17,11-19.
Durante il viaggio verso Gerusalemme, Gesù attraversò la Samaria e la Galilea.
Entrando in un villaggio, gli vennero incontro dieci lebbrosi i quali, fermatisi a distanza,
alzarono la voce, dicendo: «Gesù maestro, abbi pietà di noi!».  Appena li vide, Gesù disse: «Andate a presentarvi ai sacerdoti». E mentre essi andavano, furono sanati.
Uno di loro, vedendosi guarito, tornò indietro lodando Dio a gran voce;
e si gettò ai piedi di Gesù per ringraziarlo. Era un Samaritano.
Ma Gesù osservò: «Non sono stati guariti tutti e dieci? E gli altri nove dove sono?
Non si è trovato chi tornasse a render gloria a Dio, all'infuori di questo straniero?». E gli disse: «Alzati e và; la tua fede ti ha salvato!».

XXVIII Domenica del tempo Ordinario

13 ottobre 2013

Una salvezza universale 

Introduzione

Una Parola ricca di spunti di riflessioni, e che conserva tutto il fascino della Sua sorprendente attualità, guida la meditazione di questa XXVIII domenica del tempo ordinario. Il suo contenuto, tuttavia, non distoglie la nostra attenzione dal viaggio che la Liturgia, in queste ultime domeniche di inizio autunno, ha inteso farci intraprendere: alludo naturalmente al viaggio intorno e sulla fede. Oggi la Parola ci presenta un altro aspetto della realtà della fede, un sentire e un agire che per noi cristiani dovrebbero essere abito naturale da indossare nella ferialità. Così, attraverso la lezione di vita di due “stranieri”, guariti e salvati dal Padre e dal Figlio, impariamo che è proprio dell’uomo limitare l’azione e l’amore di Dio, ma è proprio di Dio sconvolgere i piani dell’uomo. Allora accade che il dono della guarigione e della salvezza venga elargito da Dio a prescindere dalle generalità dell’individuo; e che la gratitudine espressa per essere stati beneficiati di quei doni provenga da direzioni inaspettate. Due sono le considerazioni da farsi e da approfondire nel corso della meditazione odierna, prima considerazione: se noi pensiamo di imbrigliare l’azione salvifica di Dio a nostro esclusivo vantaggio, dividendo gli uomini in meritevoli e immeritevoli della salvezza, sbagliamo. Infatti, agli occhi di Dio non esiste cristiano, musulmano, ebreo, né europeo, asiatico, americano o africano, davanti agli occhi di Dio esiste l’uomo che cerca la guarigione, invoca la libertà, ha sete di verità. Seconda considerazione: i doni elargiti da Dio non sono regali, che si ricevono e si conservano, ma sono piccoli semi che portano con sé il dovere di essere seminati, il lavoro di essere coltivati e l’impegno di farli fruttificare per essere condivisi con altri. Data la natura di questi doni, è naturale non darli per scontati né credere che ci siano dovuti, ma, soprattutto, l’espressione di gratitudine per averli ricevuti, non va confusa con la semplice parola “grazie”, piuttosto va vissuta ogni giorno nella continua adesione ad un progetto che cambia la vita e il mondo.

I confini dell’amore

I riflettori delle cronache degli ultimi anni si sono spesso accesi su un dramma e una vergogna. Da un lato c'è il dramma degli “stranieri” che vivono alle periferie delle nostre città in baracche fatiscenti o sopravvivono, fra umiliazioni e violenze, ai margini delle strade. Individui che hanno perso la loro dignità di uomini, sbaraccati dal loro naturale diritto di avere un posto in cui abitare e crescere i propri figli. Dall’altro è l’esasperarsi di una vergogna quella della xenofobia e della crudeltà razzista, recrudescenze dello spettro di ideologie di un passato non troppo lontano che, esaltando la superiorità di una razza, di un credo, di una cultura su un’altra, alimentano odi, sospetti e chiusure gratuite contro tutto ciò che è “altro”, che è “straniero”. E se pensiamo che da tutto questo noi cristiani siamo immuni, sbagliamo. La politica portata avanti da alcuni stati europei, e in prevalenza cristiani, compreso il nostro, nonché l’atteggiamento e la chiusura di buona parte della popolazione, ci parla di una realtà che non sa e non vuole accogliere lo “straniero” che ci abita accanto. Eppure la liturgia di oggi ci presenta nell’Antico Testamento un Dio vicino alla sofferenza di uno straniero e pagano, il siriano Naaman; e Gesù, dalle pagine del vangelo di Luca, ci rivela i tratti di un volto paterno amorevole e misericordioso che, non limitando i confini del suo amore, sana e salva uno straniero ed eretico, il samaritano lebbroso. Due personaggi forestieri, stranieri, oggi sono destinatari dell’attenzione e della cura del Padre. Straordinaria lezione di umanità ci viene dall’amore divino di Dio. Infatti, ci rivela che il vero amore non tiene conto delle differenze, ma dell’identità naturale nell’appartenere al genere umano, per questo la salvezza di Dio è per tutti gli uomini e passa, dunque, anche attraverso gli stranieri. La sorpresa, o magari lo smarrimento, suscitati da questa lezione ha la forza, se metabolizzati, di risospingerci non verso il vuoto, non verso la perdita della propria identità religiosa e culturale, ma piuttosto verso un contatto nuovo con i principi su cui la fede deve costantemente misurarsi. Questi principi sono quelli di un Dio che non chiede all’uomo le sue generalità per operare la liberazione e la salvezza, ma libera e salva indipendentemente dall’appartenenza all’uno o all’altro gruppo. Ogni uomo è soggetto della Sua salvezza, è oggetto del Suo amore, è sempre l’altro partner del Suo patto di Alleanza. Del resto non può essere diversamente, dal momento che l’azione di Dio è vasta come l’universo e il suo Spirito soffia in tutte le direzioni. Recuperare il senso di un simile “sconfinamento” dell’amore di Dio ci restituisce all’amicizia del genere umano, secondo la bella frase di un Padre della Chiesa: “I cristiani sono gli amici del genere umano”. Ma se proprio non si riesce a fare a meno delle distinzioni, allora, si impari a distinguere – finché c’è possibile – fra chi promuove la salvezza, ha passione per l’uomo, si sacrifica per il fratello e coloro, invece, che non si sacrificano e che non si preoccupano che di sé. La vera distinzione in fondo è questa. L’aderenza reale al patto di Dio si misura sull’amore per il prossimo, sull’amore che sa spendersi per l’uomo. Il riflettore da puntare, allora, sulla realtà di oggi non è quello della cronaca contro lo straniero, ma della bella notizia del Vangelo che nella ricchezza della presenza di un eretico e straniero, il samaritano lebbroso, sanato e salvato da Gesù, manifesta il senso ultimo del regno di Dio, progetto di salvezza per tutta l’umanità. In virtù di questa rivelazione, allora, in noi non deve crescere il sospetto, la paura, il malanimo nei confronti di chi è straniero, ma la gratitudine per la ricchezza insita proprio nel loro essere stranieri in rapporto alla cultura, alla religione e allo stile di vita; e né deve più importarci di fare la conta dei nostri e dei loro perché i nostri sono gli uomini.

 Straordinaria normalità

La ricchezza della parola di oggi però ci porta ad affrontare un secondo tema, anticipato per altro nelle ultime righe della riflessione precedente, parlo della “gratitudine”. Quella mostrata dal generale siriano Naaman al profeta Eliseo (I lettura) e del samaritano lebbroso a Gesù (Lc 17,11-19). Ancora una volta la Parola insegna passando attraverso due stranieri. Infatti, soprattutto, nella pagina del Vangelo lucano è il lebbroso samaritano, il solo dei dieci sanati in quel giorno, a tornare da Gesù per manifestargli la sua gratitudine. L’atteggiamento del lebbroso nasce dalla consapevolezza che Gesù non ha solo operato su di lui una guarigione, ha fatto molto di più di questo: l’ha reso libero, restituendogli la dignità di uomo e di figlio di Dio. Reintegrandolo nella comunione con il genere umano, ma soprattutto con Dio. Incorriamo in errore se pensiamo che a rendere grazie siano solo i meno fortunati in attesa di guarigione e salvezza. In realtà, anche noi dovremmo ringraziare Dio per la nostra normalità, perché, a pensarci bene, proprio essa che diamo così per scontata, ogni mattina aprendo gli occhi si rivela in tutta la sua straordinarietà. Infatti, nulla di tutto ciò che abbiamo in salute e in averi c’è dovuto, ma c’è donato: diamo tutto per scontato, è normale esistere, vivere, respirare, amare; normale è dovuto nutrirsi, lavorare, abitare, lavarsi…Eppure se ci guardiamo attorno, ci rendiamo conto che tanto normale non è perché per il vicino accanto, forse, non è poi tanto scontato respirare, amare, vivere; non è tanto dovuto nutrirsi, lavorare, abitare. Allora quello che per noi è nell’ordine della normalità, per altri può essere nell’ordine della straordinarietà. Perciò solo in nome di quella straordinarietà dovremmo aprirci ogni giorno alla gratitudine. Dovremmo riconsiderare la nostra normalità una straordinaria normalità, per la quale lodare Dio a gran voce, avere sempre il sorriso sulle labbra, tessere preghiere di lode, esprimere gratitudine in ogni gesto, giacché è la straordinaria normalità di ogni giorno che ci attesta di essere salvati, e amati come figli di Dio. Così ogni vita è un miracolo, una storia incompiuta, una storia che è solo all’inizio, che domanda altro: domanda di trovare “una vita piena” nella comunione con il Donatore e non solo con i suoi doni. Gratitudine, dunque, è manifestazione del nostro desiderio di entrare in comunione con se stessi, con gli altri, con Dio.

Conclusione

“Ricorda: “Guardati bene e sta’ bene attento a non dimenticare le cose che i tuoi occhi hanno visto e che non si dipartano dal tuo cuore per tutti i giorni della tua vita, anzi le farai conoscere ai tuoi figli e ai figli dei tuoi figli” (Dt 4,9). Gli ebrei non hanno conservato gli antichi monumenti: essi hanno conservato gli antichi momenti. La luce che si è accesa nella loro storia non si è mai spenta. Con rigorosa ritualità il passato continua a sopravvivere nei loro pensieri, nei loro cuori, nei loro riti. Il ricordo è atto sacro: noi santifichiamo il presente rammentando il passato”. Così scrive il teologo ebreo A.J. Heschel. E se il ricordo del passato degli antichi momenti è sacro ed è spinta per gli ebrei a santificare il presente, quanto più per noi fa il vivere, non nello spirito del ricordo di un momento, ma in presenza di una verità incarnata, di una parola che èpresenza viva: il Cristo risorto. Il Solo che possa nelle tante schiavitù di oggi spezzare le catene; il Solo che possa nelle tenebre del presente far risplendere la luce della speranza. L’Unico che è libertà e pienezza di vita.

 

Serena domenica.

+ Vincenzo Bertolone

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