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Plotone d'esecuzione (racconto) PDF Stampa E-mail
Scritto da E.Casella   
sabato, 05 ottobre 2013 18:12
ImageDopo essersi cimentato in modo lusinghiero con la poesia, il giovanissimo Ernesto Casella, ci prova ora anche con la prosa. Vi presentiamo questo racconto che ci ha inviato sperando possa incontrare l'approvazione dei nostri webnauti. Ci siamo occupati di Ernesto quando presentò il suo primo libro di poesie (cliccare quì per l'articolo) che ebbe ottiima accoglienza tra gli appassionati non solo di Cassano. Gli auguriamo di avere altrettanto successo con la prosa. (La redazione)

Era una serata piuttosto fresca, e i corvi svolazzavano qua e là annerendo spicchi di luna. In quattro, sulla ridotta, discorrevamo del più e del meno. Il turno di guardia, per lo meno da un paio di anni, era solo un monotono trascorrere del tempo, come una giostra nella Parigi della Belle Epoque, con i suoi buffi cavalli lussureggianti che gira e gira.

Ogni sera, i quattro designati si recavano alla ridotta già sul calare del sole, con un paio di bottiglie di vino o dell’ottimo whiskey, il migliore che avevo mai bevuto fino ad allora, e un mazzo di carte. Ci si ubriacava insieme; poi, completamente brilli, si parlava di donne, le più belle e sexy che avessero mai calcato i confini del Michigan e dell’Ohio, guardando la luna che, di tanto in tanto, ci faceva un sorriso. Ci avevano insegnato ad orientarci con le stelle, all’Accademia, ma, sbronzi com’eravamo, certe sere, osservare le stelle era un’impresa. A volte, fantasticavamo sulle forme insolite che esse descrivevano nel cielo scuro, forme sinuose come le giovani fanciulle della campagna, che volteggiavano nel cielo simili a leggiadre danzatrici, e ci ridevamo su, col nostro alito che puzzava d’alcool.

    Quella sera, la più maledettamente fredda di quel dannato inverno, e senza dubbio la più lunga, eravamo io, il vecchio Boyle, un veterano del posto, e due gringos infreddoliti, che avevano tutta la faccia dei novellini al loro primo turno di guardia, che non erano forse mai stati appoggiati ad un muro con una tempesta che scuoteva la terra di sotto, e che forse non sapevano neppure montare un fucile. I gringos portavano la divisa leggera, ed avevano il volto pallido dei cadaveri, le braccia giunte alla pancia e i piedi che battevano a terra al tempo del pianoforte a coda del mio amico George. Non avevano fatto nulla per tutta la serata, ma se n’erano stati lì, immobili come statue di gesso, a rimuginare su chissà che cosa.

    Io ed il vecchio Boyle, ubriachi fradici, sedevamo ora al piccolo tavolo di legno e giocavamo a Bridge. Vicino a noi, la bottiglia di bourbon era quasi vuota. Il vecchio Boyle era quello che aveva bevuto più di tutti – forse gli anni gli avevano seccato la lingua – e ora tentava di spremere la lucidità residua, nella speranza di fare la mossa giusta.

    Finimmo di giocare. L’aria, quella sera, era ancora fredda, e un leggero strato di nubi ora si levava su per la campagna. I due gringos erano ancora lì, infreddoliti, con le braccia giunte al petto e lo sguardo vitreo. Avevamo bevuto ancora, e non riuscivamo nemmeno a distinguerci l’uno dall’altro. La serata era un po’ meno fredda. O, per lo meno, non sbattevamo più i denti come prima, quando il vento ci aveva fatto passare una buona mezzora d’inferno.

    Lì, sulla ridotta, pareva che un velo ora si fosse posato sopra le nostre teste. Il silenzio era calato all’improvviso, tanto che ora non ricordavo più come diamine fossimo finito dal bere come dei fottuti alcolizzati, ridendo, ruttando e raccontando le nostre avventure amorose, al rimanere adesso così, in silenzio. Diavolo, quel silenzio mi ricordava proprio la biblioteca dove studiavo tutti i pomeriggi. C’era la signora Castro che stava tutto il tempo con l’indice ritto sulle labbra, con i suoi antipatici sshh che mi entravano nella testa e non riuscivo a mandarli via. Ora guardavo il cielo. Erano sì e no cinque anni che prestavo servizio su quella ridotta maledetta da Dio, e l’avevo guardato tante volte, quel cielo, Gesù, se l’avevo guardato! Eppure quella sera, in quell’insolita atmosfera, nulla mi pareva più come prima. Il cielo mi sembrava diverso, ma era lo stesso cielo che ogni dannata notte, sulla ridotta, mi rideva in faccia; com’ero idiota.

    Il vecchio Boyle stava appoggiato alla sedia di legno, con le braccia conserte e le gambe sul tavolino. La sua posa sembrava dire ehi! io sono uno che ha vissuto gli anni, giovanotto, e sono qui da prima che tu lasciassi il biberon! Questo pareva dire. Aveva il suo cappello da pescatore – il vecchio Boyle pareva sapere più di pesca e di caccia che di guerra –, largo, che gli copriva quasi interamente il volto e lasciava intravedere solo la bocca e l’ombra del naso. Lui dormiva; io non avevo per niente sonno ed ero più sveglio che mai. In quel silenzio, dove l’unico rumore che si poteva sentire era il frusciare degli alberi che circondavano la ridotta e, ogni tanto, il gracchiare dei corvi che facevano girotondo li vicino, cominciai a fantasticare.

    Ricordai un pomeriggio remoto di primavera. La primavera, dove prestavo servizio io, era solo a parole, giusto un vocabolo sulla bocca di tutti ma nel cuore di nessuno. Lì, dove facevo il buffone dalla mattina alla sera e il fare il buffone era il mio mestiere, non si aveva la possibilità di vedere le margherite fiorire e gli alberi colmarsi di frutti. A volte rimpiangevo il mio paese, dove ero nato e dove avevo trascorso la mia giovinezza, dove i campi di primavera era pieni di fiori bellissimi, e raccoglievo sempre una rosa bianca per la mia amata, e gli alberi dove gli innamorati si stringevano e facevano l’amore erano ricchi delle arance più saporite e delle mele più buone.

    Ricordai un pomeriggio in cui il vecchio Boyle mi parlò delle sue battute di caccia.

    “Erano sei rinoceronti, e noi solo in quattro. I passi dei rinoceronti facevano tremare la terra. E noi, in tutto, avevamo solo otto colpi in canna e tre per uno in tasca.”

    “Non avevi paura?” chiesi io. “Voglio dire, paura di essere ucciso?”

    “Non sarei riuscito a portarmi a casa sei grossi rinoceronti e festeggiare con i miei amici bevendo vino per tutta la notte in compagnia di alcune tra le più belle ragazze che abbia mai visto in vita mia se avessi avuto paura della morte. I miei compagni avevano paura di morire, figliolo, e guarda che razza di fine hanno fatto: fatti a pezzi da una mandria di rinoceronti.”

    Tante volte avevo cercato d’immaginare il vecchio Boyle con un fucile, la presa salda e le mani asciutte, quasi secche; lo sguardo da uomo che fissava l’odioso rinoceronte negli occhi, eppure mai ero riuscito figurarmelo, quel momento.

    Stavo ancora per metà immerso nel mondo dei sogni, quando una voce roca che pareva venire da un’altra realtà mi chiamò.

    “Perché sei qui?” Era il vecchio Boyle che parlava. La sua voce era mezza consumata dagli anni e dall’alcool e la sua faccia era segnata dalle rughe e dalle cicatrici di guerra. Era ancora un poco ubriaco, il vecchio Boyle, lo si capiva dalla voce, e i suoi occhi sembravano persi nel vuoto.

    “Come?” chiesi io, non del tutto sicuro di aver afferrato il senso di quella sua domanda.

    “Dico, perché sei qui?”

    “Sono stato trasferito.”

    “Da dove vieni, ragazzo?”

    “Sono europeo.”

    “No, non in quel senso! Voglio dire, perché sei qui, al mondo? Perché sei vivo?”

    Era ubriaco, si capiva, eppure quel suo quesito mi lasciò nel dubbio. Guardai il vecchio Boyle e capii che non stava affatto scherzando. Capii che quella domanda l’aveva posta a se stesso e vidi nei suoi occhi lo sguardo di chi ha cercato risposta all’interrogativo della vita, ma non è mai riuscito a trovarla.

    “E loro?” chiesi io, alludendo ai due gringos.

    “Loro?” fece il vecchio Boyle, facendosi una risatina e trattenendo un rutto. “Loro sono dei condannati, giovanotto.”

    “Condannati?”

    “Plotone di esecuzione. Domattina, all’alba.”

    “Per cosa?”

    “Alto tradimento. Pare che abbiano venduto le informazioni giuste alle persone sbagliate.” Allungò la mano verso la bottiglia di bourbon. La prese e se la portò alle labbra. Ne uscì solo una goccia che gli bagnò la lingua, poi niente. “Dannazione!” fece. “Vado giù a prendere dell’altro liquore. Tu faresti meglio ad andare un po’ a letto. Cerca di farti qualche ora di sonno.”

    Così feci. Tornai nel mio alloggio, semplice, con un letto che puzzava di vecchio, un comodino – utile solo per l’abat-jour che ci stava sopra – un armadio di abete, una scrivania pure di abete, e una sedia. La modesta valigia che mi ero trascinato dietro nel viaggio, ormai storia passata, era semivuota sotto il letto (vi tenevo dentro ancora qualche indumento, per via delle ridotte dimensioni dell’armadio), e sulla scrivania c’erano una boccetta d’inchiostro con una penna vicino, una risma di fogli bianchi e una piccola luce per scrivere di notte. Chi ricopriva un ruolo più prestigioso, aveva a disposizione anche una macchina da scrivere.

    Entrai in stanza e, così com’ero, con l’uniforme, mi gettai sul letto. Non mi preoccupai nemmeno di darmi una ripulita, puzzolente com’ero di alcool, ma mi addormentai immediatamente, guardando lo spicchio di cielo che si poteva intravedere dalla finestra.

 

 

Il giorno dopo, di buon mattino, mi svegliai ed ebbi la preoccupazione di presentarmi al plotone con quel puzzo d’alcool che mi pervadeva. Guardai l’orologio. Le cinque. Avevo un’ora scarsa per ripulirmi. Andai in bagno e mi lavai, cercando di cacciar via il meglio possibile l’odore di alcool. Quindi mi vestii elegante, come prevedeva la norma. La divisa che avevo nell’armadio, quella che usavo solo nelle rare occasioni, mi stava ancora bene, ma lasciava intendere che non sarebbe stato così per molto. Misi anche il cappellino, che di rado indossavo, ed uscii dal mio alloggio.

    I corridoi erano quasi totalmente deserti, e tutto trasmetteva come una sensazione di vuoto. Raggiunsi lo spiazzo in cui doveva tenersi l’esecuzione in pochi minuti. C’era già un po’ di gente (non prevedevo ne sarebbero arrivati altri, poiché la fucilazione era riservata solo ai soldati) e i due condannati stavano seduti su una pietra vicino al muro dove, di lì a pochi minuti, sarebbe stato impresso il loro sangue, come i nomi che due innamorati incidono sulla corteccia di un albero.

    Passarono dieci minuti, e giunsero i soldati che avevano l’onere di premere il fatidico e proverbiale grilletto. Insieme a loro c’era il colonnello, che probabilmente aveva provato tutta la notte allo specchio. “Pronti! Puntate! Fuoco!” Per farlo venir bene; non perché lo vedessero gli altri, ma per una soddisfazione personale. Erano cinque soldati, tutti aggiustati, col loro fucile poggiato sulla spalla in posizione altezzosa. E il colonnello aveva il suo frustino, pronto a sventolarlo per dare il via al massacro, come uno starter alle olimpiadi.

    Il colonnello disse che si poteva iniziare. I due gringos saltarono sull’attenti e, con loro, i soldati. Il cielo era ancora scuro, e la rugiada si posava sui fiori che stavano intorno.

    Il colonnello chiamò i condannati per nome, quindi lesse il discorso ch’era dovere leggere. Poi riprese il frustino che aveva appoggiato momentaneamente a terra. Sapeva che stava andando tutto per il meglio, lo si vedeva dalla sua espressione soddisfatta. Si portò il frustino sulla spalla destra, così che i soldati si misero sull’attenti, sempre più rigidi nella loro posizione di pietra, come gargoyles  nella Parigi notturna.

    “At-tenti!” fu il primo ordine. I soldati afferrarono il fucile che avevano poggiato sulla spalla e lo portarono in avanti.

    “Mirare!” il secondo. Qui i soldati, come avevano fatto decine di volte nelle esercitazioni, ormai ripetendo meccanicamente i gesti, si piegarono su un ginocchio – sembrava una maledetta coreografia di ballerine ai grandi spettacoli – e puntarono il bersaglio attraverso il mirino del fucile. Il dito accarezzava leggermente il grilletto, e pareva non aspettasse altro di spingere con tutta la sua forza e vedere il proiettile fracassare il cranio dei condannati.

    Poi venne il tanto atteso: “Fuoco!” e i soldati presero a sparare, frenetici. Scaricarono il caricatore dei loro fucili su quei poveri uomini.

    E questi si agitavano come dannati; e gli spari continuavano a bucherellarli; e loro tremavano, come se un forte terremoto avesse preso solo quella zolla di terra sulla quale poggiavano i piedi, ormai morti, dei due gringos.

    Poi ci fu il silenzio. Il colonnello fece un cenno con il frustino e i soldati smisero di sparare. I due gringos, quando la scarica di proiettili fu cessata, crollarono al suolo come sacchi di patate. I soldati guardavano i due cadaveri e solo ora si rendevano conto di aver ucciso due uomini. E i corpi dei condannati giacevano l’uno sull’altro, senza vita, mentre la rugiada si adagiava sui petali dei fiori, e il gallo cantava.

    Il cielo era più scuro che mai.

 

 Ernesto Casella

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