Dovevo Partire(racconto di vita vissuta) |
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Scritto da M.Miani | |
domenica, 21 luglio 2013 17:37 | |
![]() Dovevo lasciare tutto: la nonna, mio fratello i parenti, gli amici, i compagni dei miei giochi. Dovevo dimenticarmi di Cassano, dovevo dimenticare la mia libertà, le mie scorribande per le campagne, il fiume Eiano nelle cui acque mi bagnavo i piedi cercando granchi e girini, l’orologio turrito che sovrasta il paese, le feste paesane, lasciare le strade, i vicoli stretti, le case dai tetti rossi, la pietra del Castello e quella di san Marco che dominano Cassano. Tutto!... Tutto. Era qualcosa d’impossibile, d’irreale non avrei più corso per i vicoli, non avrei più giocato sulle strade che conoscevo, non sarei andato più nei campi, sugli alberi a cercare nidi di passeri, sentire il canto degli uccelli, a prendere le cicale d’estate, i grilli o le farfalle. Non avrei udito il canto mattiniero del gallo e dell’allodola. Non avrei più conosciuto la natura, la storia del paese, il nome degli uccelli, quello dei fiori, che selvaggi nascevano a primavera. Avrei dimenticato il suono delle voci paesane, il dialetto che era per me una musica con le sue cadenze, i toni famigliari. In alcuni momenti mi si stringeva l’animo e di nascosto piangevo in silenzio, andando mogio in giro come un ciuco bastonato. Ma dovevo andare. Tutti, parenti, vicini, amici, dicevano “é per il tuo bene, è giusto, è necessario che tu parta”. Tutti continuavano a ripetere, “Sarai contento, potrai studiare, avrai colazione, pranzo e cena sempre pronte, mentre qui tua nonna, gli zii devono lottare e lavorare ogni giorno facendo ogni tipo di sacrificio per farti crescere”. E cercando di pungere il mio attaccamento alla famiglia “ Non puoi tradire la nonna, ora che ha trovato una soluzione al tuo vagabondare. Si è tanto data da fare che, se non accetti, gli viene una malattia, e, dopotutto, lo ha fatto per il tuo bene. La devi stare a sentire, la devi accontentare”. premevano su questa considerazione perché avevano intuito che ero restio a partire ed andare lontano, ma, nello stesso tempo, sapevano che io volevo bene a nonna Cristina.
Prima di partire i miei parenti si diedero da fare per prepararmi alla partenza. Fissarono la data nei primi giorni di Ottobre, se non vado errato e ricordo bene, il giorno dieci. Mi comprarono una piccola valigia di cartone color marrone. Mi comprarono un pantalone lungo di buona stoffa, color celestino, da un signore il quale vendeva indumenti usati che acquistava vicino Napoli a Resina, oggi Ercolano. Lui e la moglie, forse originari di Mormanno, per questo chiamati “mormannoli”. Lui, era nell’aspetto, un omone tarchiato testa grande, capelli neri, un vocione da baritono, occhi scuri e vigili, pronto alla chiacchiera con gli amici, anche se riservato nelle sue cose; abitava sul timpone vicino la posta, quindi vicino anche a casa mia, che era al vico ginnasio, dietro la posta stessa,. La moglie, che si chiamava Maria, una signora simpatica bassina, dai capelli rossi, con la faccia bianca e piena di efelidi lavava e aggiustava questi panni usati rendendoli quasi nuovi, se privi di bottoni li sostituiva, se aveva qualche scucitura li ricuciva, spesso gli dava anche una buona stirata con un ferro da stiro a carbonella. Io spesso andavo nella loro casa per giocare con i figli, conoscevo tutta la famiglia e ammiravo il loro lavoro.
Finalmente arrivò la fatidica data, il giorno prima mio zio Antonio, andò a fare i biglietti,per non andare di fretta al momento della partenza, ma maggiormente per avere con calma informazioni più precise sul viaggio, i cambi di vetture da fare, le coincidenze, in altre stazioni per prendere altri treni. Dato che mi doveva accompagnare lui, chiese spiegazioni e delucidazioni precise per non trovarsi in difficoltà. La sera mi prepararono la valigia con qualche panno di ricambio, alcuni regali fatti da parenti e conoscenti: Caciocavalli, salsicce, sopressate, un po’ di frutta secca, fichi, noci, del pane fatto dalla nonna, che era bravissima ad impastare la farina, il pane fatto da lei aveva sempre un sapore straordinario e buonissimo. La mattina del dieci ci alzammo prestissimo, mia nonna mi aiutò a vestirmi, mi fece mettere il pantalone di recente comprato, una camicia bianca e una maglia, perché ad ottobre già faceva freschetto, mi pettinò. Io, intontito da questa cerimonia di vestimento, stavo zitto e distante con il pensiero che correva per Cassano e per i campi, nella bottega di mastro Giacinto il falegname a cui mi ero affezionato e che avevo salutato il giorno prima direttamente in bottega. Allorché mancava una ora dall’orario di partenza, mio zio prese la valigia, io salutai la nonna, che piangeva, lei mi baciò senza dire altro: muta. Io scavalcai il grandino dell’uscio di casa e incominciai il viaggio. Partivo.
Per gran parte del tragitto da Cassano a Spezzano Albanese restai affacciato al finestrino, vidi prima allontanarsi la stazione con il serbatoio dell’acqua, le Rocce: La pietra del castello, quella di san Marco, di sfuggita il cimitero, l’orto di mia zia Filomena che si trovava a ridosso del fiume Eiano dove, qualche volta, negli anni di guerra, io mi nascondevo in una buca grande con il marito della zia quando passavano nel cielo gli aerei in perlustrazione sulla zona, più avanti ricordo sulla destra vi era una fornace per mattoni che mi ricordò la fornace nei calanchi che scendevano verso il fiume a ridosso di Lauropoli di fronte alla pietra grande del castello. Alcune volte vi andavo con lo zio Antonio e mi divertivo a cavare argilla per poi spanderla negli stampi in legno che davano forma ai mattoni e alle tegole per i tetti che successivamente venivano messe nei forni a cuocere, e, ricordai anche i segni che io vi facevo per riconoscere i miei lavori di cui andavo fiero. Intanto la carrozza scivolava più veloce senza l’uso della cremagliera, vidi il casolare dove a volta con la nonna ci fermavamo per bere dell’acqua corrente di una fonte naturale, per poi riprendere il cammino verso santa Venere, dissetati. La littorina scendeva verso valle mentre sembrava che le campagne veloci scorrevano davanti agli occhi miei, come faccia di trottola immensa dipinta di verde, dell’azzurro dei cieli, di uccelli, di piccole case con alberi alti con rami immensi. Giungemmo ai sette ponti, limite del mio mondo conosciuto, dove era la salita che portava al pianoro di santa Venere che a piedi salivamo, la nonna avanti e io e Salvatore suoi nipoti leggermente indietro, sulla salita facevamo a fatica sino alla cima, andando poi con passi più veloci verso il terreno dei nostri genitori, per strada riuscivamo a catturare le cicale che frinivano nell’aria d’estate la quale ardeva sulle stoppie e sul terreno, ove spaccava le zolle di terra arsa. Mi venne agli occhi un lacrima che non rigettai, nelle gocce di liquido lacrimale vidi la nonna curva verso il terreno, nell’ultima giornata di fine estate, che faceva a fatica uno, due, tre buchi nel terreno e tranquilla vi metteva dei noccioli di pesche, degli altri di albicocche, li ricopriva con piccole zolle di terreno pestato e con un orcio, ripieno d’acqua, innaffiava e poi, come se mi parlava di un mistero, mi diceva ” Vedi Michele questo noccioli, nell’umido del terreno, moriranno e dai semi decomposti, dopo l’inverno, nasceranno dei piccoli germogli e vedrai quando ritorneremo in primavera troveremo delle piccole piante”, mi faceva mettere sul posto dei bastoncini, infilati nel terreno, quali segnali per riconoscere con sicurezza il luogo di semina. Oggi che scrivo queste righe dei miei ricordi, adulto che sono, non riesco a frenare due lacrime, mi scendono lunghe le guance e vedo ancora quella donna, ormai vecchia che con cura ed amore fece quel piccolo lavoro e mi soffiava all’orecchio il mistero della vita.
Michele Miani “Dai miei ricordi” (Cliccare quì per accedere alla pagina di Palazzo Viafora dove visse donna Titina Lombardi) |
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