Skip to content

Sibari

Narrow screen resolution Wide screen resolution Increase font size Decrease font size Default font size    Default color brown color green color red color blue color
Advertisement
Vi Trovate: Home arrow Ambiente e salute arrow Pericolo: eccessivo consumo del suolo
Skip to content
Pericolo: eccessivo consumo del suolo PDF Stampa E-mail
Scritto da P.Bonora   
giovedì, 14 marzo 2013 07:45
ImageCominciamo a trattare con questo primo articolo le problematiche del consumo del suolo.  Iniziamo con un ottimo articolo del prof. Paolo Bonora sull’eccessivo utilizzo del suolo per costruzioni inutili, prossimamente parleremo dell’ impatto negativo sull’ambiente provocato dai mega impianti fotovoltaici che nel territorio della sibaritide stanno sottraendo migliaia di ettari all’agricoltura, provocando perdita di posti di lavoro e nessuna ricaduta economica sul territorio.  -   Nel momento attuale di crisi generale strutturale è  opportuno, direi ineludibile, prendere in mano le ragioni del territorio, ridiscutere le modalità di organizzazione, ripensare i principi d'ordine della trama entro cui si sostanzia la vita. L’emergenza che stiamo attraversando ­economica, sociale, ambientale, idrogeologica, energetica, climatica ... - si esplica su versanti diversi tra loro concatenati:  l'artificializzazione dei suoli, la mancanza di manutenzione e salvaguardia, la disgregazione dei sistemi locali, il disfacimento del patrimonio paesaggistico, la perdita di bellezza. Un decadimento degli spazi del vivere di cui il processo di urbanizzazione dilagato disordinatamente nelle campagne è il principale responsabile. Una congiuntura che può tuttavia diventare momento di svolta se la cogliamo come occasione per discutere il modello di sviluppo che ha prodotto questa condizione.

Se la deregolazione liberista ha condotto ai guasti che abbiamo sotto gli occhi, credo sia il momento di prenderne atto e provare a immaginare strade diverse, più eque, sobrie, meno predatorie, più attente all'ambiente e a costruire un mondo vivibile per le generazioni future.       Una modalità di sviluppo durevole che riesca a conciliare esigenze economiche e bisogni della collettività. In questa prospettiva, dopo anni di indifferenza e un uso cinico delle risorse, va riformulata una cultura del governo del territorio che sappia immaginare politiche più attente e riguardose.
Scontiamo annosi ritardi rispetto agli altri paesi e alle direttive che l'Unione Europea da tempo lancia. In Italia si è preferito assecondare la logica della rendita, il "mattone" è diventato l'orizzonte privilegiato per più di vent'anni, in base al preconcetto assiomatico che l'edilizia fosse settore in grado di trainare l'intera economia. Ma se ciò ha per certi versi funzionato negli anni del boom, quando le costruzioni seguivano l'andamento degli altri ambiti produttivi, con una crescita che era conseguenza dell'industrializzazione e dell'inurbamento di masse di popolazione in fuga dalle campagne, la situazione si è capovolta a partire dagli anni Novanta del secolo scorso.
ImageLa trasformazione del bene immobiliare in campo di investimento, esaltando il suo valore di scambio, ha fatto saltare la correlazione tra domanda e offerta e causato l'imprudente immissione sul mercato di una quantità di costruzioni ben superiore alla potenziale domanda d'uso. Gli investitori, quelli di grande taglia ansiosi di profitti celeri e particolarmente vantaggiosi, quelli piccoli preoccupati di trovare rifugio ai propri risparmi, hanno incentivato la svolta e sono correi della marea di cemento che ha ricoperto i suoli italiani. Un clima di euforia costruttivista in cui i Comuni, in crisi finanziaria e fiscale ma unici detentori dei diritti di edificazione, hanno ritenuto di trovare rimedio per i propri affanni di bilancio negli oneri di urbanizzazione, diventando fattore di incentivo e di sovraproduzione. Una triangolazione perversa - grandi investitori, piccoli risparmiatori, municipi in crisi di liquidità - che, messe al bando preoccupazioni pianificatorie e di tutela, ha lasciato libero sfogo alle presunte capacità di autoregolazione del mercato, di cui la crisi esplosa alla fine del primo decennio del 2000 ha messo a nudo la fallacia. Una miopia che rende urgente la ridefinizione di una cultura del territorio che parta dalla sua dimensione costitutiva, fondante, dalla sua natura sistemica, di organismo in cui le concatenazioni fattoriali sono stringenti e interinfluenti, e si sforzi di coglierne e rispettarne la complessità. L'82% dei Comuni italiani è a rischio idrogeologico, un problema che coinvolge il 10% della superficie del territorio nazionale, con una popolazione stimata intorno ai 5,7 milioni e 1.250.000 edifici. Il rischio sismico è presente nel 50% delle aree, con una popolazione insediata di 24 milioni di persone e 6.260.00 edifici.
I costi diretti sostenuti a causa del dissesto e dei terremoti dal 1944 al 2009 vengono stimati entro un range che, a seconda delle fonti, va da 176 a 213 miliardi di euro (dati Cresme e Centro Studi del Consiglio Nazionale dei Geologi, 2010).
Cifre essenziali, crude, che tuttavia ci forniscono un quadro preciso e allarmante della condizione in cui versa il territorio italiano, abbandonato da anni all'incuria e sempre più spesso soggetto a eventi calamitosi che producono, oltre alle spese emergenziali appena ricordate, costi crescenti generati dai danni a catena innescati nei sistemi territoriali, depauperamento delle risorse, lutti.
In modo analogo, ma in questo caso difficilmente stimabili in termini quantitativi, pesano sull'economia italiana le inadempienze e gli errori commessi nel governo del territorio, abbandonato negli ultimi vent'anni a una deregolazione orfana di progetto, succube di interessi speculativi. La frenesia edilizia che solo la crisi mondiale ha raffreddato, è la punta dell'iceberg di un percorso molto più profondo e articolato di mercificazione e predazione del territorio che ha visto prevalere incontrollata la logica della rendita.
Una svolta del tardo fordismo che ha trasferito gli investimenti dai settori produttivi alla più redditizia e  spregiudicata alleanza tra finanza e immobiliare.  
Il fatto che in Italia la rendita copra il 32% del PIL la dice lunga sulla condizione strutturale della nostra economia, affidata per un terzo ad aspettative che non immettono valore nel processo di produzione della ricchezza, ma attendono ritorni in maniera passiva lasciando inoperosi capitali che, se immessi nel circuito della trasformazione e dei servizi, potrebbero contribuire a risolvere problemi occupazionali, di redditi  e consumi. Un dato patologico, più del doppio di quella (il 15% circa) che viene considerata quota fisiologica a un sistema economico equilibrato, e mette in evidenza le anomalie del nostro meccanismo di valorizzazione.
Una colpevole assenza di governo del territorio ha consentito questo sbilanciamento, lasciando prevalere un'idea di crescita in cui l'investimento immobiliare veniva inteso in maniera apodittica come meccanismo incrementale, indipendentemente dalla coerenza con la domanda e le necessità reali. Sicché, sfidando il buon senso, si è edificato molto più di quanto il mercato potesse assorbire, fino a produrre le quantità eclatanti di invenduto che oggi pesano sul settore delle costruzioni, sull'occupazione, sulle economie. Ripudiati come eccessi regolativi, in nome di un liberismo privo di intelligenza, i principi della pianificazione e di una razionale distribuzione insediativa, si è ricoperto il territorio di cemento in maniera caotica, casuale, senza valutare le correlazioni localizzative e funzionali, aumentando i costi di gestione dei  servizi e la mobilità. Si sono appesantiti i territori con carichi di artificializzazione molte volte inutili,  giustificati dall'imperativo cieco di una crescita solo quantitativa, la cui incongruità è ripiombata come un boomerang sull' economia mondiale. In una ricerca recente (maggio 2012), Nomisma stima che nella sola provincia di Bologna rimangano invendute 13.643 abitazioni di nuova costruzione. Un dato che già in termini assoluti si presenta inquietante, ma che quando è raffrontato al totale delle realizzazioni, 47.912 avvenute tra 2000 e 2010, rivela tutta !'irrazionalità di un meccanismo edificatorio incapace di previsione, di ratio produttiva. Un esubero che costituisce una spada di Damocle sull'intera economia - i casi stranieri, statunitense e spagnolo i più noti, ne sono lo spauracchio. Un immobilizzo di capitali che paralizza la ripresa, irrigidisce i canali di credito già fortemente esposti, aggrava la condizione occupazionale e alla fine si scarica sulle famiglie.
Una questione dunque che attiene non (solo ?) la perdita di quei valori immateriali e preziosi relativi alla configurazione dei paesaggi, al loro significato memoriale, identitario e al loro linguaggio estetico, ma racconta di una situazione di colpevole miopia che coinvolge considerazioni di frigida natura economica
e di coerenza con quelli che sono diventati i postulati  (tecnici?) della politica italiana dei nostri giorni. Di  fronte al problema prioritario di uscire dalla crisi, parrebbe dunque opportuno analizzare con sguardo esperto le diseconomie che la mancata organizzazione del territorio produce, poiché è solo dai territori che può partire la ripresa del paese.
In Italia emerge inoltre con prepotenza il paradosso tra un'offerta immobiliare in esubero e l'emergenza abitativa di chi non può accedere a quel tipo di proposta. Le politiche dell'abitare hanno lasciato spazio solo all'iniziativa privata abbandonando il tema della casa e del sostegno alle famiglie in difficoltà. Il patrimonio pubblico è fermo a quote risibili rispetto agli altri paesi europei, negli ultimi decenni i livelli di finanziamento si sono praticamente azzerati mentre sono continuate le dismissioni. Dietro il paravento dell'altissima percentuale di proprietari della casa di residenza che connota la situazione italiana, anche in questo anomala nel panorama internazionale, si nasconde il contraltare di fasce di popolazione non in grado di acquistare e neppure di sostenere i costi di mercato dell'affitto. Questo il quadro in cui emerge il tema del consumo del suolo. Argomento dunque molto complesso, che esige un cambiamento culturale, di visione, di sguardo.  L’abuso del territorio e l'abbandono delle campagne nella spirale della metropolizzazione  producono danni che rischiano di essere irreversibili. Non a caso ho citato dati sull'emergenza ambientale, le cui cause sono direttamente legate all'incuria in cui versano i territori italiani. Un problema che non attiene soltanto alla nostalgia per luoghi scomparsi e per attributi estetici in via di degradazione - benché non sottovaluti affatto il versante percettivo e il canone esistenziale degli ancoraggi identitari.  Ma inerisce il valore economico del territorio e i costi di cui la collettività deve farsi carico quando questo degenera. Le alluvioni che flagellano l'Italia non sono solo frutto della tropicalizzazione climatica, questione anch' essa sottostimata e priva di politiche attive di contrasto, ma della mancata tutela del territorio attraverso regolare manutenzione, oltre che di insensate edificazioni entro gli alvei fluviali. Occasioni in cui la denominazione "catastrofe naturale" rivela tutta la propria falsità ma la cui retorica viene dispiegata per coprire responsabilità individuali e pubbliche.
L’abbandono delle pratiche agricole, la mancata cura dei tessuti idrografici minori, la rinaturalizzazione dei boschi e delle aree montane e collinari marginali stanno provocando danni diretti e indiretti di grande portata. I dati testimoniano un progressivo calo della superficie agricola utilizzata e un aumento delle aree naturali. Un termine, "naturale", che in questo caso non ha valenza positiva ma significa al contrario assenza di manutenzione, degrado, dilavamento, frane - un processo frutto dell'indifferenza e dagli esiti disastrosi.
L’Italia è ancora vittima di una concezione distorta di crescita e ha abbandonato l'idea di governare lo sviluppo. Mentre proprio dal modello di sviluppo, a partire da quello locale e dal ruolo che i sistemi urbani esercitano nell'organizzazione dei fattori economici e sociali, deve avviarsi la riflessione sulla riforma delle politiche del territorio. In questo quadro, l'adozione di limiti normativi al consumo di suolo può diventare un freno e un efficace dispositivo comunicazionale per promuovere una cultura del territorio più consapevole e orientata a obiettivi di qualità del vivere .
Paolo Bonora

(Paolo Bonora è professore ordinario di geografia e di Comunicazione e territorio presso la Facoltà di lettere e filosofia dell'Università di Bologna. Collabora con il quotidiano "La Repubblica". Fa parte del Consiglio d'Amministrazione della Fondazione Gramsci dell'Emilia-Romagna.  Il presente articolo è stato tratto dalla rivista mensile "I Martedì)

< Precedente   Prossimo >