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"Dai sempre Speranza" (intervista all'autore)) PDF Stampa E-mail
Scritto da L.Muscarella   
mercoledì, 16 gennaio 2013 22:10
ImageNel cuore di Manhattan, Upper East Side, sulla Sessantaseiesima strada, tra la Prima e la Seconda avenue, dieci della mattina. Dietro a una porta girevole di vetro si entra al New Evelyn H. Lauder, Breàst Cancer and MSKCC Imagining, un edificio di sedici piani  inaugurato nel 2009 che porta il nome della benefattrice che ne ha consentito la costruzione. Dall'esterno sarebbe del tutto insospettabile come ospedale se non fosse per quella targa affissa vicino al numero civico. Qui dentro si sviluppa in altezza il nuovo polo multidisciplinare  destinato alla diagnosi e alla cura del cancro al seno - del  Memorial Sloan-Kettering Cancer Center (MSKCC), l'ospedale oncologico più antico (1884), ma anche più importante del mondo, un centro di eccellenza. All'ottavo piano c'è lo studio dove lavora il professor Virgilio Sacchini, e dove la sua mattinata è incominciata da diverse ore. Chirurgo-oncologo in forza al reparto di senologia del MSKCC dal 2000, docente di chirurgia alla Cornell University Non solo. Dal 2004 è annoverato nella prestigiosa classifica dei "100 best doctors" degli Stati Uniti. Classe 1956, originario di Merate (Lecco), ma newyorkese  d'adozione. Aveva le idee chiare già da bambino, su cosa avrebbe voluto fare da grande. Lui voleva diventare dottore. La sua passione, quella intensa, gliela avevano trasmessa la nonna ostetrica e lo zio, medico condotto di un paese di campagna.

New York, Cancer Center
New York, Cancer Center
È cresciuto poi all'Istituto dei tumori e alla scuola di Alberto Veronesi a Milano, prima della traversata oltre oceano. L'occasìone del nostro incontro, in una assolata giornata settembrina, è la recensione al libro Dai sempre speranza, redatto a quattro mani con Sergio Perego suo amico e giornalista de Il Giorno, e uscito nel 2011 per i tipi della Mondadori. "La scelta di scriverlo nasce dal desiderio di portare una testimonianza personale del rapporto che si instaura tra medico e paziente, rapporto più complesso e profondo di quanto a volte possa a apparire" spiega Sacchini, mentre me ne porge una copia. "Tu come medico accogli il malato, ma lui ti consegna la sua vita" continua a spiegare, e rafforza la riflessione. "Io ho il 'dovere' come medico di diventare un suo punto di rifemento, e come uomo di dare speranza". Perché non appena un paziente varca la soglia del suo studio sperimenta  quanto sia fragile l'equilibrio tra la vita e la morte, salute e la malattia. E il filo rosso del cancro che li unisce da quel primo incontro rimarrà come imprinting, li legherà, andrà oltre l'anamnesi e si evolverà in un reciproco scambio di idee ed esperienze che arricchisce entrambi.

Sono tanti i "casi" che a Sacchini rimangono impressi, ma qualcuno, per i motivi più diversi - "una storia personale o professionale; una diagnosi ancora poco conosciuta; un problema sociale, religioso o razziale"-, lascia un segno particolare che lo porta a riflettere, a rivedere posizioni e concezioni. "I miei pazienti mi hanno trasmesso molto, hanno modificato il mio modo di pensare e mi hanno insegnato quel quid che mi è servito  per curare meglio i successivi", confessa apertamente. Non è casuale che il sottotitolo del volume sia proprio: "I pazienti che hanno cambiato la mia vita".
È un libro prezioso, che tocca, risuona. È una testimonianza autentica. Per i lettori sarà come  addentrarsi in un territorio conosciuto, perché la malattia, più o meno grave che sia, nel corso della vita riguarda tutti da vicino: in prima persona o  per qualcuno che ci è caro. Così come ci riuguarda il capire se il medico che abbiamo di fronte sarà dalla nostra parte con onestà e professionalità.
La figura di Sacchini che emerge tra le righe, e si svela di riflesso nel rapporto con il paziente, è
quella di un grande medico. Quella che, nell'immaginario collettivo dei malati, racchiude i requisiti richiesti a un dottore. È un appassionato, un instancabile che "vuol tentare sempre, fino all'impossibile, di vincere la malattia; consapevole però di una differenza che è anche un limite: quella fra trattamento e accanimento terapeutico". Crede che l'assistenza debba essere continua anche per un malato "perso", terminale. "C'è molto da fare con la terapia del dolore, con il supporto psicologico per i malati e i familiari disperati". Ed è anche un uomo aperto e disponibile, dai modi affabili e diretti, dotato di una straordinaria capacità di ascoltare e di relazionarsi con il variegato melting pot tipico della società americana. Ha la virtù di spiegare la scienza e conoscenza della malattia con espressioni semplici, mai velate da intellettuali- smi. Ha la ricchezza dell'umiltà nella sua accezione più ampia. Sacchini scrive di diagnosi difficili, di abbagli, di successi e di cedimenti. "Quando scendo in ambulatorio sono Virgilio Sacchini, un dottore, ma anche un uomo; con tutti i suoi problemi, i suoi dubbi, e qualche volta, le sue fragilità". Racconta altresì dell'''umiltà di fronte alle richieste di chi, avendo bisogno del nostro aiuto, si mette nelle nostre mani". Di sforzarsi di vedere ciascun paziente per ciò che è, nella sua unicità, perché "ognuno di noi è diverso anche nella malattia". C'è chi si arrabbia, chi cade in depressione, ma insieme diventa "la battaglia per la vita". "I protocolli sono necessariamente generalizzati e in gran parte simili, ma, con il tumore, nessuna  cura potrà mai diventare universalmente valida. E questo - afferma risoluto nel libro - un medico non dovrebbe mai dimenticarlo". Come l'attenzione riposta a "le sensazioni che i pazienti ricevono dal loro corpo". Una regola fondamentale che lui ricorda sempre ai suoi studenti. Così Sacchini, nelle 168 pagine che abbracciano questa sua straordinaria avventura professionale e
umana, ci accompagna negli incontri emblematici della sua lunga esperienza di ambulatorio, di corsia e sala operatoria e ci fa incontrare i 35 prescelti di cui descrive più da vicino il percorso clinico e psicologico. E attraverso loro ci fa anche capire le differenze importanti tra il sistema sanitario americano e italiano, tra una cultura e l'altra, tra una lingua e l'altra, tra le persone, gli usi e costumi.
il dott. Virgilio Sacchini
il dott. Virgilio Sacchini
È dura l'esistenza di justine, 39 anni, di colore, ragazza madre. Ha casa ad Harlem, un cancro al seno e sta cercando di uscire dalla tossicodipendenza quando nel 2002 arriva al Memorial, grazie al Medicaid (l'assicurazione sociale istituita da Clinton per chi guadagna meno di dodicimila dollari l'anno; il tetto varia da uno stato all'altro). Ha una fiducia cieca in Sacchini: "Dottore, io sono nelle tue mani. Se tu decidi che questo per me va bene, facciamolo. Voglio il massimo delle chances di guarire. Per mio figlio ancora piccolo. Ha solo me e devo aiutarlo. Voglio che abbia una vita migliore della mia. Fai quello che devi fare, ma, ti prego, fai in modo che possa fare ancora qualcosa per lui. Che possa vederlo crescere". Dopo una mastectomia e sei cicli di chemioterapia, oggi justine continua a stare bene, il tumore non è tornato e si è lasciata alle spalle la droga. "Lei ha saputo uscirne riscattandosi". Il suo bambino è ora un vivacissimo adolescente e Sacchini, con tono
fiero, mi comunica i suoi recenti successi: "È appena stato accettato con una borsa di studio gratuita nella prestigiosa scuola P6, che ha il più alto numero di laureati tra i suoi allievi". Poi c'è Oriana Fallaci: se da un lato è figura pubblica nota, amata dai suoi lettori, dall'altro, nel privato, c'è la sua spigolosità, la sua rabbia, la sua avversione nel mescolarsi alla gente, il suo isolamento.
"Non è stata una paziente facile ammette Sacchini, che l'ha assistita nel tumore di cui sarebbe morta - le cure passavano attraverso un rapporto conflittuale". "Dottore" disse "lei mi deve aiutare. Sto scrivendo un romanzo. Per me sarà l'ultimo. Per finire questo lavoro mi servono altri due anni, ma ce la posso fare anche più velocemente. Mi aiuti e mi regali questo tempo". Scrive l'oncologo: "I nostri incontri sono stati più o meno la copia del primo, io arrivavo e lei iniziava a parlare di tutto, anche dell'Italia e della mia vita, non c'era nulla che non la interessasse e ne ero affascinato". "Curarla è stata una lezione di vita". Alla malattia "concedeva pochissimo tempo, non l'accettava e cercava di dominare il cancro", che era persuasa di aver sviluppato nel 1991 durante
la guerra in Iraq, dove aveva respirato i gas tossici. Con la malattia che avanzava, rendendola quasi cieca, Oriana diceva a Sacchini: "Devi curarmi come il mio medico condotto a Firenze", in una visione olistica. E impetrava: "Mi devi trovare  qualcosa che mi faccia stare bene, subito, ho bisogno di altro tempo, devo assolutamente finire il romanzo (Un cappello pieno di ciliegie, pubblicato
postumo nel 2008, ndr), ci sono fatti accaduti nel mondo che la gente non sa. Devono essere conosciuti. Devo raccontarli". "Negli ultimi mesi di vita - commenta Sacchini - i ricoveri al Memorial di-
ventavano sempre più lunghi e frequenti. Quando riusciva a parlare, ritornava al libro, la sua ossessione". "Siamo riusciti a regalarle due anni di vita, un tempo che le ha consentito di diventare ancora una volta protagonista nel mondo".

E c'è il destino impietoso di Luisa: a soli diciotto mesi di distanza dalla morte della madre, il melanoma ora si stava prendendo lei. Perché il tumore  della pelle ha spesso una componente ereditaria. Al terzo intervento la prognosi era infausta. Le probabilità di guarigione rimaste erano quasi inesistenti. "Non poteva finire così. Non mi rassegnavo" - riconosce Sacchini. Ma Luisa si rifiuta di sottoporsi alla chemioterapia, ritiene non fosse servita a niente già alla madre. Parla invece di persone guarite con la medicina omeopatica, in particolare con l'estratto di vischio. Cerca e trova
aiuto in Sacchini nel provare il trattamento. "Non ho mai avuto preclusioni - dichiara il professore verso le terapie non convenzionali, diverse dalla medicina tradizionale, purché ragionevoli e non
dettate da speculazioni". Oggi Luisa è una felice mamma, viaggia per il mondo per lavoro, "ogni tanto mi telefona - annota Sacchini - alla fine della conversazione mi saluta così: Always give hope!".
È la speranza la posta in gioco: di soffrire di meno, di trovare sollievo, di tornare come prima, di guarire, di vedersi lasciato aperto quell'orizzonte di possibilità. "Always give hope" - dice Luisa-. Perché "Dai sempre speranza" si declina nell'accezione kantiana dell'imperativo categorico. Quell'etica medica che in Italia oggi pare talvolta infrangersi sotto la spinta feroce di una morale utilitaristica, incline a massimizzare i profitti a scapito della professionalità. Ma è una dinamica che porta alcuni medici a rompere il giuramento di lppocrate, laddove recita: "perseguire la difesa della vita, la tutela della salute fisica e psichica dell'uomo e il sollievo della sofferenza cui ispirerò con responsabilità ogni mio atto professionale".
La medicina non richiede uomini superiori ma umili e professionali. Uomini speciali, come Virgilio Sacchini.

Luisa Muscarella

fonte: Rivista "I Martedì", edita da "Labanti e Nanni Industrie Grafiche Srl" - Bologna

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