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Sibari

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La perdita più grande (racconto) PDF Stampa E-mail
Scritto da M.Miani   
mercoledì, 16 gennaio 2013 08:31
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Cassano: Sant'Agostino
Erano gli anni di guerra.  Una notte un gran vociare, strilli, urli, un fuggi, fuggi generale mentre si udiva il rombo degli aerei su Cassano.
“Presto Saletta corri! Prendi i bambini e scappiamo”. Gridavano i vicini, in particolare la famiglia Apostoli, la quale aveva un affetto particolare per la vicina, che in quel frangente era sola, senza qualcuno di famiglia che le desse aiuto, e conforto. Mia madre ci prese, ci strinse in fagotti di lana, con l’aiuto del capo famiglia Apostoli, il quale prese tra le sue braccia uno di noi, e via di corsa, scapparono sotto gli ulivi dei campi limitrofi al rione Santo Agostino. Tutti gli abitanti, del rione “pede alive” e quelli di S. Agostino erano là, nell’erba dei campi, sotto gli alberi di ulivo, lontani dalle case, si richiamavano a voce, simile a pecore, con belati di paura, d’ansia e di pianto. Gli aerei sorvolarono la zona con rombi minacciosi.Come mi raccontava mia zia, gli aerei, forse due soli, e, forse in volo di ricognizione, passarono su Cassano a bassa quota, seguivano il corso del fiume, per loro non vi era alcun timore, mentre le persone erano impaurite oltre ogni dire: non vi era nessuna possibilità di fuoco da parte di una possibile contraerea; in zona nulla del genere vi era installato.

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I fratelli Miani da Bambini
Tutti gli abitanti dei due rioni, passarono la notte all’addiaccio, pensando che altre incursioni potevano ancora essere in programma per la durata della nottata. Anche se gli aerei passarono, senza lasciar cadere nessun ordigno, la mente però, correva al bombardamento avvenuto mesi prima su Sibari. La stazione aveva subito danni ingenti e vi erano stati molti morti, la popolazione non conosceva il numero, ma circolavano voci di circa cinquanta persone, c’era chi parlava anche di sessanta e più cadaveri caduti sotto le bombe. Per l’esattezza era il 15.08.1941, (vi furono ottanta morti): le persone nel fuggire si trovarono in un rifugio da cui non uscirono più, neanche per essere sepolti. Ancora oggi, a dispetto di ogni buon parlare, i morti sono là interrati senza una croce, una lapida, una cerimonia religiosa. Una vergogna che il comune di Cassano si porta sulle spalle da circa settanta e più anni.

Si piangeva: noi bambini con guaiti e strilli da cuccioli calpestati; gli adulti per lo spavento, per la gran paura di essere colpiti, l’angoscia, il timore per la sicurezza dei figli, e il rischio di vedere distrutte le case e perdere le poche povere cose possedute. Come ho detto, era tempo di guerra, e mia madre era sola a tirare su noi figli ed ha portare avanti il peso della casa. Mio padre era al fronte, era stato arruolato nella fanteria prima che io nascessi, qualche mese prima, non aveva avuto il tempo di assistere agli avvenimenti di casa: le sofferenze di mia madre, sua moglie; fissare nella sua mente la mia nascita; il concepimento di Salvatore mio fratello, che lui non seppe e, che, non poté festeggiare.Passarono altri mesi, mia madre s’intristiva sempre più.

ImagePer la mancanza di Francesco suo marito, perse contatto con gli interessi quotidiani, si avviliva per piccole cose di nessuna importanza, trascurava noi figli, anche se la nonna Cristina la riprendeva e la spronava a muoversi, ad esser più reattiva e a darsi coraggio. Gli diceva spesso: “Saletta tu hai due figli, devi curarti di loro, essi hanno bisogno di te, quindi su muoviti, non ti arrendere, vedrai che Francesco ritornerà e tutto si sistemerà nel migliore dei modi”. E riprendeva più forte “Mettiti al focolare cucina per loro, preparagli il pasto necessario, affinché anche loro non si ammalino e deperiscano. Hai la dispensa piena: olio, farina, fichi secchi, mandorle salsiccia, lardo, non ti manca nulla. Coraggio quindi, datti da fare e non pensare al peggio, sii forte non ti arrendere. Prega la madonna della Catena, vedrai che ti aiuterà” e ricordava per spronarla di più “Pensa a me che sono vedova da anni e ho dovuto combattere con quattro figli da sola (I i suoi figli erano tre, Maria era figlia di primo matrimonio di mio nonno) e sono qui ancora a battagliare per sopravvivere alle varie disgrazie. Francesco, me lo sento nel cuore ”esclamava battagliera, ”ritornerà! E sarete ancora insieme, vivrete la vostra vita, con i ragazzi, tranquillamente dopo questa brutta guerra, che nessuno di noi ha mai voluto”. La povera donna ormai avanti con gli anni cercava di stimolarla, ma anche lei aveva il dolore nel cuore e spesso piangeva, quando era sola, e occhi indiscreti non la vedevano, ma conoscevano il suo assillo e la commiseravano, avendo anche altri due figli: Giuseppe e Antonio sotto le armi. 

Mio padre, fante in africa, non comunicava notizie. Dopo una sua visita veloce per una licenza premio improvvisa, mi trovò nell’età di un anno o giù di lì. Dalla sua ripartenza, dopo la licenza, di lui si erano perse le tracce.

Di fatto, arrivarono delle lettere, nei due mesi successivi dalla sua partenza. In seguito non giunsero più sue notizie. Le lettere, che mia madre gli spediva, non avevano risposte, il destinatario non era reperibile. Alla caserma dei carabinieri, dove andava con frequenza a chiedere notizie non avevano e non ne comunicavano: la sola laconica risposta era “E’ disperso!”

Come si può comprendere le cose non andavano bene per i miei genitori i quali, si amavano profondamente e, soffrivano la separazione, come un castigo fatto da Dio nei loro confronti, il quale li aveva divisi frapponendo migliaia di km di distanza l’una dall’altro e privati di notizie.

Mia Zia che mi raccontava questi fatti, alla quale spesso si univa mia nonna, con le parole non si allontanava quasi mai dagli stessi racconti, i quali, ogni volta che iniziava a parlare di allora, come diceva, non si discostava, ne ripeteva il tutto identicamente, anche se, alcune volte vi aggiungeva qualche fronzolo che non cambiava la sostanza dei fatti salienti.

Si era negli anni “43”, lo stress psichico della lontananza di mio padre, la sua irreperibilità che si trasformò in notizia incerta su di una presunta prigionia nei campi di prigionia inglesi, si trasformò, giorno dopo giorno, in una agonia continua, tanto che mia madre si lasciò andare. Mangiava poco, si trascurava, dimagriva a vista d’occhio, era sempre triste, sconsolata. Aveva perso la speranza di potersi, nel tempo, ricongiungere con il marito. In breve, pochi mesi, cadde malata e non passò molto che, nello stesso anno (1943), dopo un periodo di forte e continua crisi, durante il quale non si alzava dal letto,  i medici non poterono nulla, anche per la mancanza di volontà di mia madre di darsi coraggio, di seguirli nelle cure, una notte morì tra gli strilli ed i pianti dei famigliari e dei vicini che l’avevano assistita, lasciando me e mio fratello orfani e soli.

Prima che ciò accadesse una mia zia (Filomena), sorella della mamma, ci portò a casa sua, per cui né io, né mio fratello assistemmo alla sua morte, e, non ci fecero seguire il funerale, per non farci traumatizzare com’era d’abitudine al paese.

Dopo la benedizione della bara in chiesa, il corteo funebre, tra lamenti e pianti, lentamente a piedi raggiungeva il cimitero. Dal campanile suonava la campana a morto, come si usava dire, la quale, quando il corteo giungeva a mezza strada, nei pressi delle ultime case del paese, prima di arrivare al camposanto, smetteva il suo suono, consegnando il feretro alla campanella del cimitero che iniziava a rintoccare con tocchi distanziati, gravi, quasi lamentosi che ancora oggi, quando questa emette questi tocchi, lascia il segno nell’animo di chi segue la bara, e, a chi la ode, sembra che essa voglia richiamare il morto, quasi ad affrettarlo a raggiungere la dimora ultima smettendo solo quando questo si ferma nello spazio antistante al cimitero.

La realizzazione della bara avvenne nella notte medesima della morte come mi raccontò in seguito, quando ero sedicenne, il falegname che fu chiamato nella nottata per dar inizio all’opera. Questa, all’epoca, era la prassi, non ancora di moda il comprare bare già preparate. Io stesso ricordo che, andando a bottega di falegname, quando avevo nove anni, si era nel 1947, qualche volta quando vi era qualcuno che moriva di notte, e nel giorno successivo bisognava fare il funerale, il mio maestro falegname “Mastro Giacinto” che aveva la bottega sotto la torre campanaria, ove andavo a bottega, mi veniva a chiamare per dargli un aiuto: gli porgevo gli utensili, mantenevo il lato opposto della sega grande, passavo la carta vetro per lisciare, affinare il legno, strofinavo con lui le parti a vista per lucidarle con gli ingredienti chimici, maggiormente, comunque il mio aiuto era indispensabile per sciogliere le parti di colla di pesce in uno scodellino, fuori la porta della bottega sopra un piccolo appoggio a tre piedi di ferro, ciò era necessario, per evitare che all’interno si potesse incendiare qualche truciolo di legno, con possibilità di grave e pericoloso incendio. Quando facevo questo servizio, all’esterno di notte, tremavo dalla paura. Mi sembrava di vedere fantasmi che sgusciavano da ogni lato, avevo timore che il morto mi apparisse davanti per ghermirmi e portarmi via con sé in quella “tombola” (bara) che stavamo preparando, per cui giravo con un cucchiaio la colla, mettevo qualche legno di rincalzo al fuoco e subito rientravo in bottega, anche se “mastro Giacinto” mi raccomandava di sorvegliare più attentamente quello che facevo e non di fretta. Beato lui che non aveva la mia paura, io, comunque, continuavo a tremare per tutta la notte.

Io e mio fratello restammo due o tre giorni dalla zia Filomena. Di quelle notti, trascorse nella sua casa, ricordo solo il ticchettio della sveglia, mi martellava le tempie e non mi faceva dormire insieme al dolore per il distacco forzato da casa e da mia madre, per la qualcosa piangevo anche sottovoce per non farmi udire dalla zia e da mio fratello.

I giorni successivi, subito dopo la sepoltura, si riunirono mia nonna Cristina, madre di mio padre, che era vedova ormai da circa trent’anni, i nonni materni abbastanza anziani e malaticci, le sorelle di mia madre ed il fratello Battista, la sorella di mio padre. Mentre noi piccoli giocavamo con i cuginetti, loro, i grandi, incominciarono a discutere su cosa e come fare per noi due, che ora eravamo orfani di madre e soli per la lontananza e l’incertezza delle condizioni di vita di mio padre. La riunione si protrasse per ore, alcune volte con voce bassa, altre con parole alterate e suono alto. Questo lo ricordo, io, ancora oggi, ne porto il suono nelle orecchie, alla fine del discutere, una voce prevalse sulle altre, era la voce di nonna Cristina , rabbiosa e forte, diceva “I bambini sono figli di mio figlio. Resteranno con me. Vi è altra discussione da fare?”. Le parole erano chiare, anche se dette mezze cassanese e mezze nella forma dialettale del suo paese di nascita “San Lorenzo Bellizzi”, chiuso tra le montagne del Pollino. Tutti zittirono anche perché non vi poteva essere altra soluzione per le condizioni particolari delle altre parti, chi con numerosi figli, chi con problemi di povertà e chi per la salute cagionevole, i quali, per questi motivi, non se la sentivano di prenderci con loro: in sintesi di adottarci.

Nonna Cristina non era in condizioni floride, era una povera donna rimasta vedova con tre figli, anche loro orfani di padre, più aveva avuto con lei la figlia di primo matrimonio del marito. Lei li aveva cresciuti da sola, non avendo parenti a cui appoggiarsi, perché lei stessa orfana di padre e madre, da quando era piccolissima in età. I due figli erano in quel periodo sotto le armi, così come mio padre. La sua situazione era grave per la povertà in cui si dibatteva e l’età non più giovanile, aveva circa cinquantacinque anni. Molti per il periodo difficile che si viveva.

Per sopravvivere lei stava a servizio presso la famiglia Lombardi di Cassano, precedentemente era stata in servizio presso la famiglia Toscano, arrangiava e guadagnava qualche altro soldo facendo tante altre attività, come quella di portare la sera il latte per le famiglie che lo ordinavano alla latteria. La ricordo, per questo servizio che svolgeva, con una cesta sul capo colma, delle bottiglie di latte, in giro per il paese con la pioggia o con il buon tempo arrivava a casa a tarda sera, stanchissima.

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Lauropoli nelgli anni '40
La nonna si arrangiava su tutto, avevamo un terreno a “santa Venere”, che avevano comprato i miei genitori, spesso vi si andava facendo il cammino a piedi, non avendo altri mezzi, si arrivava sino ai sette ponti, poi si saliva per una stradina tratteggiata al limite di un podere, ciò per fare meno cammino, era un abuso, perché si camminava su terreno privato, arrivati al sommo della salita, si proseguiva ancor per circa un chilometro per poi giungere sulla nostra terra. Qui la nonna si metteva al lavoro, coglieva qualche frutto dagli alberi, raccoglieva cicorie selvatiche ed altre erbette, qualche volta qualche fungo, spesso le “monacelle” in un basso bosco limitrofo al nostro terreno; tutto veniva messo in una cesta rotonda, ampia, atta a contenere quanto raccolto. Era sicuro, poi, il riempimento di un paniere, con quanto non andava nella cesta grande, che veniva affidato a me per portarlo sino a casa, era normale in quel caso una buona e saggia raccomandazione ”Mi raccomando non farlo cadere altrimenti si schiaccia la frutta, si sporcano le cicorie, si rovinano i funghi . Stai attento, non farmi strillare, cammina non fermarti.” Tutto ciò si ripeteva anche quando lei andava a legna per il focolare, che era l’unico punto di calore per cucinare e per stare uniti nelle serate fredde d’inverno, allorché il vento s’infilava fischiando nelle connessure di porta e finestra. Al ritorno dalla campagna, lei si portava sulla testa una fascina grande di legni, sterpi e rami secchi, io portavo a spalla un rotolo di rami più sottili, più leggeri dovevano servire quale innesco per la prima fiamma. Se al mattino mi attardavo, qualche volta d’estate a prendere qualche cicala lungo i reticolati che cingevano i terreni adiacenti il cammino, la sera, al ritorno non avevo alcuna voglia di giocare ma, dato il peso che portavo sulle spalle, andavo lesto senza perdere le tracce delle scarpe della nonna.

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Michele con un amico nel 1958
Ricordo le molte andate a Lauropoli, una delle frazioni di Cassano, nel tempo più brutto del dopo guerra. I viveri scarseggiavano, vi erano le tessere annonarie, quindi i viveri razionati con i quali bisognava tirare avanti, se non si avevano altre possibilità, da noi insieme a questi scarseggiavano anche i denari. Per questo si andava a Lauropoli per barattare qualcosa, quel qualcosa era rappresentato dal corredo che mia madre morendo aveva lasciato nuovo, o, quasi nuovo, la contropartita era farina, grano, salumi, cereali, lardo, pancetta: quello che si poteva ancora trovare, considerando la crisi che permaneva anche dopo l’armistizio di Badoglio.

La sera antecedente alla andata mia nonna mi diceva: “Domani andremo a Lauropoli. Faremo il solito giro, per far visite alle famiglie che hanno necessità di lenzuoli, coperte, asciugamani che, in questo momento, non possono comprare, anche loro non hanno denari, ma hanno qualcosa di buono da scambiare, perché sono contadini che hanno terra, ingrassano maiali ed hanno altro ben di Dio, il quale ci può servire. Io ti chiamerò presto e tu svegliati subito, che il cammino è lungo”. Prima di coricarci, si preparava la merce di scambio in una grande cesta, si preparava la corolla di stoffa da porre sotto la cesta, sopra il capo. Anche se la nonna era vecchia, sapevo già, che la mattina, si sarebbe pettinata i capelli brizzolati con due trecce che arrotolava dietro la nuca chiudendoli sul capo, sopra di queste, poi, poneva una corona tipo tarallo ricavata dal fazzoletto copricapo che era di stoffa sempre nero e poi il cesto.

La mattina ci si alzava presto. Dopo la colazione, si partiva dal timpone della posta e si scendeva passando vicino al macello,sotto la pietra del castello, si proseguiva verso un mulino ad acqua, che si trovava nei pressi della stazione e poi ci si dirigeva al ponte sull’Eiano, al tempo un fiume e non un rigagnolo, come è oggi. Ci fermavamo per prendere fiato, un po’ di riposo prima di iniziare la salita che portava alle case, poste a ridosso, a destra ed a sinistra, della via principale del paese. Qui arrivati, mia nonna, si dirigeva verso le case dei clienti che conosceva bene, dove iniziava con questi il baratto, che continuava sino a che la cesta era vuota dei panni, ma era piena di prodotti mangerecci. Durante il cammino mia nonna non parlava. Io le camminavo vicino, per compagnia ero anch’io muto, però ogni tanto lei mi richiamava perché mi allontanavo per correre dietro qualche lucertola o, a prendere qualche sasso particolare che tiravo verso gli uccelli di passaggio, i quali volavano alti e delle mie pietre non si curavano per niente, oppure il richiamo arrivava perché stanco, ritardavo il cammino, diceva nel caso: “Ma vuoi camminare! alza i piedi. Se continui così, non arriveremo mai. Smettila di lamentarti. Spicciati, muoviti!” Ai richiami affrettavo il passo, ma, ero stanco davvero, ed avrei preferito fermarmi più spesso e magari correre dietro le lucertole o i grilli che saltavano davanti ai miei piedi.

Dopo i primi mesi, trascorsi a casa di mia nonna, io e mio fratello, ci abituammo a non vedere attorno a noi la mamma; d’altronde quando eravamo presenti, poche volte in casa della nonna se ne parlava; vicini, amici o parenti difficilmente aprivano discorsi su lei, ciò perché facilmente eravamo indotti a ricordare ed a piangere. Il dramma era passato, lo ricordavamo come un brutto sogno, però aveva lasciato in me, che ero il più grande, un amaro solco, che non manifestavo, ma era latente, anche se nascosto a me stesso. Riprova di ciò, lo scoprii nel tempo, riflettendo sul mio comportamento negli anni di collegio, in seguito in quelli d’uomo maturo, e ancora oggi ormai nonno, allorché vado indietro negli anni e ricordo quanto accaduto.

In collegio, vi andai all’età di dieci anni, spesso quando la domenica vi erano visite ai ragazzi io, inconsciamente, facevo quasi a gara nel mettermi in mostra davanti alle mamme dei miei amici, o, magari, andando lontano dai luoghi di visita davo sfogo, al mio stato d’animo, su di un pallone che calciavo violentemente, con rabbia, senza conoscere il perché. Più lontano da quel periodo, ancora oggi, mi sorprendo a notare, con una certa insistenza, la diversità del suono che do alla parola “mamma”, molto diverso nell’intensità, nell’armonia, nella passione e nell’amore che altri mettono nel citare, chiamare, ricordare la mamma anche in una semplice memoria di un aneddoto, un fatto insignificante, un intervento di correzione e di guida, o in un’esclamazione di sconforto e di aiuto. Quest’ultimo aspetto, per dire che ciò, può sembrare una maniera spiccia e fuggitiva di far ricordo, e spiegare ciò che è stata per me la morte di mia madre. Nel breve cenno dato e nell’emozione del ricordo, questa perdita è stata grandissima, più pesante di tante altre piccole o grandi sofferenze che la vita in genere regala ad ognuno di noi e che io stesso ho comunque subito nel tempo.

 

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Michele Miani
 

Michele Miani

Da “miei ricordi”

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