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Vangelo di domenica 11 Dicembre PDF Stampa E-mail
Scritto da Bertolone e Pozza   
sabato, 10 dicembre 2011 22:44
ImageDal Vangelo di Gesù Cristo secondo Giovanni 1,6-8.19-28 - Venne un uomo mandato da Dio e il suo nome era Giovanni.  Egli venne come testimone per rendere testimonianza alla luce, perché tutti credessero per mezzo di lui. Egli non era la luce, ma doveva render testimonianza alla luce.E questa è la testimonianza di Giovanni, quando i Giudei gli inviarono da Gerusalemme sacerdoti e leviti a interrogarlo: «Chi sei tu?».Egli confessò e non negò, e confessò: «Io non sono il Cristo».Allora gli chiesero: «Che cosa dunque? Sei Elia?». Rispose: «Non lo sono». «Sei tu il profeta?». Rispose: «No». Gli dissero dunque: «Chi sei? Perché possiamo dare una risposta a coloro che ci hanno mandato. Che cosa dici di te stesso?». Rispose: «Io sono voce di uno che grida nel deserto: Preparate la via del  Signore, come disse il profeta Isaia». Essi erano stati mandati da parte dei farisei. Lo interrogarono e gli dissero: «Perché dunque battezzi se tu non sei il Cristo, né Elia, né il profeta?». Giovanni rispose loro: «Io battezzo con acqua, ma in mezzo a voi sta uno che voi non conoscete, uno che viene dopo di me, al quale io non son degno di sciogliere il legaccio del sandalo». Questo avvenne in Betània, al di là del Giordano, dove Giovanni stava battezzando.

 III Domenica d’Avvento

11 Dicembre 2011 

L’eco della salvezza

Introduzione               

La figura del Battista campeggia anche in questa III Domenica d’Avvento. Il ritratto del Precursore di Cristo però, oggi, è opera dell’evangelista Giovanni, che presenta elementi in comune con lo stesso ritratto presentato domenica scorsa da Marco. Tuttavia, una differenza c’è e si coglie nelle stesse parole riportate dall’Evangelista: “Egli venne come testimone della luce …”.               

Ciò che è nuovo non è nella figura del Profeta, ma nella sua testimonianza di Gesù: se Marco, attraverso la voce del Precursore, presenta il Messia atteso con i titoli di “Cristo” e “Figlio di Dio”; Giovanni, invece, lo presenta con l’appellativo “Salvatore”, ovvero quella luce che metterà in fuga i timori della notte e accenderà le certezze rassicuranti del giorno.               

Così, mentre domenica scorsa i titoli usati ci hanno parlato dell’essere, della persona di Gesù, oggi ci parlano del suo agire, del suo portare lo splendore del sole nell’alba e nel meriggio, della sua benefica azione salvifica. Dunque, se dobbiamo sintetizzare in una parola le letture di questa domenica d’Avvento, possiamo prendere in prestito il titolo di Gesù: da Salvatore a Salvezza, non un concetto astratto, ma realtà concreta. Annuncio che è rimbalzato da voce in voce sin dalla notte dei tempi fino ad arrivare nell’oggi della storia, dove “salvezza” continua ad identificarsi in un Volto, in una Persona viva.

Dalla voce alla Parola               

In queste domeniche d’Avvento sentiamo spesso la voce dei profeti annunciare un “lieto evento”: tante voci in tempi diversi che trasmettono una sola verità, una sola Parola. È una parola di speranza e di salvezza, che l’uomo di ogni tempo attende, desidera sentire, ricevere e accogliere. Soprattutto quando intorno tutto sembra cospirare contro la sua felicità,  serenità e vita.               

Questo il valore della voce del profeta Isaia che canta: “Io gioisco pienamente nel Signore perché mi ha rivestito delle vesti di salvezza, mi ha avvolto con il manto della giustizia”. Lontano è il suono di questa voce, ma vicino il suo calore e il suo entusiasmo: un vero e proprio “vangelo” destinato all’Israele povero e schiavo a Babilonia, all’uomo di oggi infelice e schiavo delle sue stesse paure, dei suoi tanti limiti. Infatti, il messaggio d’Isaia è un messaggio di speranza per i malati, è una promessa di liberazione per i poveri e per gli emarginati. Cinque secoli dopo, risponde all’appello d’Isaia un’altra voce: in una modesta sinagoga di un povero villaggio di provincia, Nazaret, la voce che si leva ripete le stesse parole del profeta, citandole dal rotolo. Gesù di Nazaret è questa voce, che a quelle righe piene di speranza aggiungerà una sola frase decisiva: “Oggi si è adempiuta questa Scrittura che voi avete ascoltato coi vostri orecchi” (Lc 4,16-21).Ma prima che questo potesse accadere, era necessario ascoltare altre voci d’attesa e di speranza, voci che di fronte al mistero infinito di Dio sono rimaste sempre aperte, docili e disponibili al volere del Padre. Tra queste voci quella del Battista.Egli si definisce appunto “voce di uno che grida nel deserto”, voce che non comunica suoi contenuti, ma annuncia eventi che lo superano, eventi di cui egli è umile ambasciatore destinato a scomparire perché la Gloria di Dio primeggi. Quindi, quella di Giovanni il Battista è voce che guida, il cui compito si limita solo ad illustrare all’umanità la via definitiva del Vangelo: la persona risolutiva del Cristo. Tra queste voci, ancora, c’è anche quella dell’apostolo Paolo che annuncia alla Chiesa di Tessalonica non la sua volontà, ma la “volontà di Dio in Cristo Gesù” verso di noi. Una volontà esigente e concreta che propone un vero e proprio codice comportamentale per l’esistenza quotidiana: gioia, preghiera incessante, riconoscenza, impegno missionario, sapiente ricerca dei valori, purezza e santità. Sono tutte queste le attitudini che allenano l’anima all’attesa, la predispone al desiderio dell’inatteso, la prepara come calda mangiatoia ad accogliere il Cristo e il suo primo vagito che non intenerisce solo il cuore, ma lo consuma in un amore struggente che arde per Colui che salva.               

È solo l’amore che spinge l’esistenza ad aprirsi al volere di Dio, come meravigliosamente ci insegna la voce della prima credente della storia Maria. Oggi infatti ne celebriamo l’inno della salvezza, il Magnificat, con le parole del salmo: “L’anima mia magnifica il Signore e il mio spirito esulta in Dio mio salvatore”.               

Si levano in tutte queste voci, la voce di tutti i poveri, i sofferenti e i giusti che continuando a desiderare l’infinito, accolgono l’amore nascente e imperituro di Dio come il bene supremo e l’unica gioia più vera.

Desiderio di slavezza               

Per accogliere il Dio che viene occorre dunque ritrovare il desiderio dell’Oltre, il fascino di orizzonti nuovi e di un mondo diverso, migliore. Senza queste aspirazioni non si può cogliere fino in fondo il messaggio che il Natale porta con sé. Di fatto Gesù non viene al mondo solo per portare perdono e riconciliazione, Egli nasce per far sorgere l’alba di un nuovo giorno, che accende il sole su una società altra, fatta di relazioni nuove di pace, di convivialità, di uguaglianza.               

In questo difficile compito di ristrutturazione, il Salvatore non vuole essere solo, ma chiede la collaborazione dell’uomo. Però, Gesù sa che chi fra gli uomini decide di portare nella propria carne questo progetto deve essere triturato, perché la storia umana è anche una macchina che tritura ogni progetto di bene. Ma proprio per questo Gesù nasce e rinasce nel cuore di quanti hanno desiderio di nuovo. Egli, infatti, sceglie la voce di tanti per combattere l’ostinata, assurda opposizione del mondo.               

 Se solo imparassimo a dire il “sì” di Isaia, di Maria e del Battista, tutti potremmo essere quella voce, trasparenza di qualcosa che viene da oltre, eco di parole che vengono da prima di me; parole che hanno superato indenni i secoli, per giungere fino a noi ed annunciare il “lieto evento” di tutta la storia.                

Di questo evento Dio ne è il cuore palpitante, noi la voce vibrante che grida a questo mondo malato quanto grande è il cuore di Dio. In questo essere eco della Parola viva e salvifica, i profeti del vecchio e del nuovo mondo ci precedono e ci fanno strada, rivelandoci la nostra identità: come loro anche noi siamo voce e grido, cioè appello, bisogno, fame, desiderio di Eterno.                

 Dire io sono voce, equivale a riconoscersi persona, e per-sona significa suono che cresce, voce che si leva. La nostra identità ci rimanda oltre noi, ci ricongiunge ad un Altro, ad una Parola che ci attraversa e ci fa vivi. Dunque, noi siamo persone quando siamo profeti, e rilanciamo la Parola che ci ha affascinato e sedotti, e rilanciamo la luce che ci ha illuminati e riscaldati. Così, ogni uomo che arriva ad amare Dio, al di sopra di tutto, è un profeta in cui si “condensa in sillabe il Verbo” (D.M. Turoldo).               

Se dovessimo chiedere a Dio, che viene a trovare il suo popolo, qualcosa di vero, chiediamo voci di profeti che, gridando nel deserto dei rumori dei nostri giorni, ci ricordino quanto sia meraviglioso attendere, sperare, desiderare qualcosa di nuovo, o meglio Qualcuno che solo a pensarlo ci rende uomini migliori.

Conclusione               

In questo tempo d’Avvento non lasciamoci scoraggiare dalle voci dei profeti di sventura, noi, che conosciamo quanta strada ha fatto la Parola e l’amore di Dio per giungere sino a noi, facciamo sentire una voce diversa, nuova che sappia dare senso alla vita, luce ai giorni e vigore nella stanchezza. Diventiamo profeti temerari che non hanno paura di gridare che non ha senso avere paura di questi difficili tempi, perché Dio è con noi sempre.                Preghiamo, allora, di essere noi stessi “precursori” e facciamolo prendendo in prestito le parole del vescovo brasiliano Heldere Camara: “Fa’ di me, o Dio, un arcobaleno di bene, di speranza e di pace. Arcobaleno che per nessuna ragione annunci le ingannevoli bontà, le vane speranze, le falsi paci. Arcobaleno, incaricato da te ad annunziare che mai fallirà il tuo amore di Padre, la morte del tuo Figlio e la meravigliosa azione del tuo Spirito, o Signore”.                        

Serena domenica 

+Vincenzo Bertolone

 

 

Essere personaggio non è il mio mestiere

Col coraggio del leone: d'altronde il deserto gli era familiare e quel ruggito l'avrà sentito riempire il silenzio delle lande popolate di ululati solitari.
E con la destrezza della lucertola che t'illude d'averla presa mentre t'accorgi in un battibaleno che di lei ti è rimasta tra le dita solo la coda.
Eppure di carisma ne aveva da vendere perché la stoffa del fuoriclasse gli era cucita addosso. Alcuni sono partiti da Gerusalemme per chiedergli circa la sua identità. Domanda che lascia trasparire la fama del personaggio, il mistero curioso che gli aleggiava attorno, il magnetismo di cui teneva perfetta padronanza. D'altronde i tempi erano ormai maturi: pure la stella - indizio che accenderà i passi dei Magi d'Oriente - stava iniziando le prove generali appena fuori Betlemme. Il tempo era gonfio e poteva benissimo essere lui l'Atteso delle genti. Tanto che la domanda arriva dritta dai sacerdoti e dai leviti: "Chi sei?" Quanta curiosità in quella domanda. Troppa per non capire che l'hanno scambiato per un Altro, per quell'Altro che la storia aspettava da millenni, Colui che «perché la debolezza divenisse forte la fortezza si è fatta debole» (Agostino d'Ippona). Il Battista avrebbe l'occasione della vita: la carriera è ad un passo, la gloria abita già dentro la domanda, sono lì pronti a incoronarlo. Anche la faccia somiglia all'identikit pitturato dai profeti: basterebbe un nonnulla e quelli gli crederebbero.

Ma è proprio perché basta poco, poco più di nulla, che Giovanni non gioca con la storia degli uomini: "Non sono io il Cristo". È l'eleganza di chi sa l'umile sua posizione nel mondo e non vive al di sopra della sua potenzialità. Non mollano loro, stavolta gli vogliono per forza far fare carriera: probabilmente hanno bisogno di un leader capace che traini il carrozzone della storia. "Chi sei, dunque? Sei tu Elia?". Addirittura paragonato ad Elia: il sogno di ogni uomo che nasceva sotto quel cielo di Palestina. Equiparato al profeta che al torrente Kison scannò i 450 sacerdoti di Baal. Che onore, Giovanni! "Non lo sono" - ribatte con l'umile sua amabilità. Niente da fare: lo vogliono personaggio a tutti i costi: "Allora sei un profeta". Perché qualcuno devi pur essere quaggiù se vuoi valere qualcosa. "No, signori, nemmeno profeta sono": occorre davvero essere qualcuno per sentirsi protagonisti della storia?

Lui lo sapeva che l'Amico gli stava appena dietro, pronto ad impastarsi di umanità per far rendere credibile la sua fisionomia di Salvatore. Il Battista non lo avrebbe mai tradito rubandogli il posto: lui era semplicemente l'ultimo apripista, l'umile gioia di sentirsi utili ad un Sogno comune. Cosicché, dentro un carattere rozzo ed una stravaganza alimentare - locuste e miele selvatico come menù -, mantenne intatta l'umiltà della sua origine: "sono voce di uno che grida nel deserto". La voce: essenza flebile e sottilissima, sempre in balìa del fracasso e delle interferenze, la forma di comunicazione prima dei primitivi e degli infanti. Quella più delicata e personalizzata: al timbro della voce s'abbina un volto, il gaudio di una notizia, l'ansia di un arrivo. Di chi parla si dice che "presta la voce ad un altro". Tutto i sacerdoti avrebbero scommesso, ma non che quell'uomo così rude e apparentemente selvatico fosse orgoglioso d'essere voce di Qualcuno. Fra qualche mese, quando l'Amico passerà, allungherà il dito e dirà: "Ecco l'Agnello di Dio. È Lui che dovete seguire". Quel giorno i suoi apostoli seguiranno il Maestro di Nazareth. Eppure sul volto di Giovanni il gaudio non conoscerà tramonto: era in quel Volto la ragione della sua appassionata testimonianza. "Non sono io il Cristo" - disse agli ambasciatori dei sacerdoti. Troppo onesto per far carriera tra gli uomini: la sua testa ha già le ore contate.
Ma lui è voce. E la voce non può tacere. Altrimenti non sarebbe più voce.

 

don Marco Pozza

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