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Vangelo di domenica 20 Novembre PDF Stampa E-mail
Scritto da Vari   
sabato, 19 novembre 2011 16:47
ImageDal Vangelo di Gesù Cristo secondo Matteo 25,31-46 - Quando il Figlio dell'uomo verrà nella sua gloria con tutti i suoi angeli, si siederà sul trono della sua gloria. E saranno riunite davanti a lui tutte le genti, ed egli separerà gli uni dagli altri, come il pastore separa le pecore dai capri, e porrà le pecore alla sua destra e i capri alla sinistra. Allora il re dirà a quelli che stanno alla sua destra: Venite, benedetti del Padre mio, ricevete in eredità il regno preparato per voi fin dalla fondazione del mondo. Perché io ho avuto fame e mi avete dato da mangiare, ho avuto sete e mi avete dato da bere; ero forestiero e mi avete ospitato, nudo e mi avete vestito, malato e mi avete visitato, carcerato e siete venuti a trovarmi.  Allora i giusti gli risponderanno: Signore, quando mai ti abbiamo veduto affamato e ti abbiamo dato da mangiare, assetato e ti abbiamo dato da bere? Quando ti abbiamo visto forestiero e ti abbiamo ospitato, o nudo e ti abbiamo vestito? E quando ti abbiamo visto ammalato o in carcere e siamo venuti a visitarti? Rispondendo, il re dirà loro: In verità vi dico: ogni volta che avete fatto queste cose a uno solo di questi miei fratelli più piccoli, l'avete fatto a me. Poi dirà a quelli alla sua sinistra: Via, lontano da me, maledetti, nel fuoco eterno, preparato per il diavolo e per i suoi angeli. Perché ho avuto fame e non mi avete dato da mangiare; ho avuto sete e non mi avete dato da bere; ero forestiero e non mi avete ospitato, nudo e non mi avete vestito, malato e in carcere e non mi avete visitato.  Anch'essi allora risponderanno: Signore, quando mai ti abbiamo visto affamato o assetato o forestiero o nudo o malato o in carcere e non ti abbiamo assistito? Ma egli risponderà: In verità vi dico: ogni volta che non avete fatto queste cose a uno di questi miei fratelli più piccoli, non l'avete fatto a me. E se ne andranno, questi al supplizio eterno, e i giusti alla vita eterna».


XXXIV Domenica del Tempo Ordinario (Anno A) - Cristo Re (24/11/2002)

Ciò che avete fatto ai miei fratelli, è a me che l'avete fatto. Il Padre è nei cieli, ma i cieli del Padre sono i suoi figli. Il povero è il cielo di Dio. Di più: è fratello di Dio. Nel suo cielo entreremo, solo se saremo entrati nella vita del povero. Perché il prossimo è simile a Dio (Mt 22,39). Un detto chassidico esorta: se un uomo chiede il tuo aiuto, non gli dire devotamente: «rivolgiti a Dio, abbi fiducia, deponi in Lui la tua pena», ma agisci come se non ci fosse Dio, come se in tutto il mondo ci fosse uno solo che può aiutare quell'uomo, tu solo.
Una cosa mi affascina nel Vangelo: argomento del giudizio non sarà tutta la mia vita, ma le cose buone della mia vita; non la fragilità, ma la bontà; il Padre guarderà non a me, ma attorno a me, alla porzione di lacrime e di sofferenti che mi è stata affidata, per vedere se qualcuno è stato da me consolato, se ha ricevuto pane e acqua per il viaggio, coraggio per oggi e per domani. Dio non andrà in cerca della nostra debolezza, ma del bene fatto. Misura dell'uomo e di Dio, misura della storia è il bene. Davanti a Lui non temo la mia debolezza, ho paura solo delle mani vuote. Capire che si ha bisogno di noi, ora, è allora più importante che chiederci quale giudizio verrà dato, domani, alle nostre azioni. Ora è il tempo in cui sono io a giudicare il povero, e Dio stesso in lui; ora io sono per il bisognoso gesto di benedizione o atto di rifiuto. Ebbene questo stesso giudizio, quello che io ho riservato al povero, tornerà su di me nell'ultimo giorno: non c'è domani per chi non si apre al bisognoso, per chi potendolo non si è fatto pane all'affamato.
Matteo presenta sei opere, vaste quanto è vasto il campo del dolore umano. A nessuno di noi è chiesto di compiere miracoli, ma di prenderci cura. Non di guarire i malati, ma di visitarli; di accudire con premura un anziano in casa, custodire in silenzioso eroismo un figlio handicappato, aver cura senza clamori del coniuge in crisi, di un vicino che non ce la fa. Esigente bellezza di questo Vangelo: prendersi cura del fratello è così importante che Dio lega la vita eterna ad un pezzo di pane dato all'affamato; è così facile che nessuno è senza un po' di tempo o di acqua o di cuore, da non poter essere salvo. Il giudizio però prende sul serio anche la fragile libertà umana: è possibile fallire la vita. Andatevene da me, maledetti. Lontani dal povero, siamo lontani da Lui, lontani da noi stessi. È questa la perdizione: lontananza dalla vita. È il giudizio di tutte le genti,Vangelo rivolto ad ogni uomo, cristiano, ebreo, musulmano, buddista, laico: l'unica cosa che di noi rimane è la nostra capacità di amare, nel tempo e per l'eternità.
Ogni altro, è sempre l'Altro. Nel giudizio ultimo Dio non pone se stesso al centro, ma si dimentica dentro i diritti dei poveri, dove sogna un uomo senza fame e lacrime, senza prigioni e malattie, felice e salvo, simile a Lui. Il futuro non si attende, si genera; il nostro cielo, il nostro avvenire è frutto del bene che io e tu, che tutti abbiamo donato al Lazzaro innumerevole della terra.

 padre Ermes Ronchi

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XXXIV Domenica: solennità di Cristo Re

20 Novembre 2011

Introduzione

                Sul finire di un altro anno liturgico, la Chiesa si confronta con l’autorità di Cristo. Infatti, oggi celebriamo la solennità di Cristo Re, sebbene essa sia una istituzione piuttosto recente, Pio IX nel 1925 ne inaugurò il culto, il riconoscimento regale a Dio è già ampiamente attestato nell’Antico Testamento. Basta seguire il canto dei Salmi: “Il Signore regna, si ammanta di splendore … Si cinge di forza, rende saldo il mondo …”; “ Il Signore regna, esulta la terra, nubi e tenebre, lo avvolgono, giustizia e diritto sono la base del suo trono …”; “Re potente che ami la giustizia, tu hai stabilito ciò che è retto, il diritto e la giustizia”. (93, 1; 97, 1; 99,4).

                Ma il titolo di Re non è il solo tributato al Signore, esso, infatti, sarebbe privo di vera autorità se non si sposasse idealmente con l’altro titolo, dominante nella liturgia della Parola odierna, Pastore. Già la saggezza antica aveva riconosciuto questa simbiosi tra l’essere re e pastore, chiamando i sovrani “pastori delle nazioni” (Omero).

                Le due immagini poi richiamano ad altro: esse comprendono le due estremità entro cui scorre la storia della salvezza, una grandiosa teologia dalla quale scaturisce la verità ultima sulla vita di ciascuno di noi, se accettassimo Cristo quale unico sovrano di essa.

                Così se sulle prime tutta la Liturgia sembra incentrata sulla gloria e la potenza di Dio, a ben guardare il discorso ancora una volta si piega sulla realtà dell’uomo. Una realtà amata e curata dal Pastore che regge e guida, non senza la volontà collaboratrice delle sue pecore, le sorti finali di ognuno e di tutti.

Un re al sevizio

                Nella prima parte della Liturgia della Parola domina l’immagine del Pastore, nella seconda parte quella del Re.

                Dal profeta Ezechiele (I Lettura), infatti, ricaviamo tutta l’immagine della tenerezza di Dio, la sua premura nei confronti del suo popolo: Egli cerca, cura, segue passo dopo passo, raduna dalla dispersione, conduce al pascolo, fa riposare, cerca la pecora perduta, riconduce all’ovile quella smarrita, fascia la ferita, cura la malata, e nutre.

Di fronte ad un Pastore così misericordioso la risposta non può che essere di lode e di giubilo: “Il Signore è il mio pastore: non manco di nulla; su pascoli erbosi mi fa riposare, ad acque tranquille mi conduce …”. E chi ci può condurre se non un Re, un autorità.

                Così nella seconda parte della Liturgia della Parola, l’immagine del re subentra a quello del Pastore. San Paolo, infatti, parla della riunificazione di tutto il creato attorno il Cristo Risorto, rivelando così il movimento segreto della storia e del mondo: essi sono in cammino verso un traguardo luminoso, verso “una pienezza”, verso cristo, Alfa e Omega di tutto il progetto di salvezza.

                Ma la trama sottilissima della salvezza per essere tessuta bene da Dio ha bisogno di collaboratori: un re, un politico, l’autorità necessita della collaborazione attiva dei suoi sudditi e cittadini. Per questo all’attuazione del progetto di salvezza di Dio viene chiamato a collaborare anche l’uomo. La tela meravigliosa della salvezza, infatti, è intessuta anche da tante mani anonime che hanno riconosciuto e seguito il Signore come unico sovrano, regolando il proprio stile di vita sulla legge di Cristo. Ma può accadere anche che la tela della salvezza possa essere squarciata da chi ignora questa legge, restando sordo al grido di dolore del fratello sofferente, chiuso nel suo gretto egoismo, preoccupato di accumulare per sé.

                Ad entrambe queste categorie di persone è segnata una direzione eterna: a quanti hanno riconosciuto l’autorità di Cristo, obbedendo alla sua legge, è indicata la via del Regno; viceversa agli altri resta solo il silenzio della morte e della tenebra. Ecco cosa fa balenare davanti a noi la solennità di questa domenica: il destino ultimo che ci attende, invitandoci a scegliere a quale autorità appellarsi per ottenere la salvezza.

                Sta dunque a ciascuno di noi scegliere, dopo averla riconosciuta, la vera autorità di Cristo. e Lui che dà senso a tutto, perfino il morire, perché la morte si apre sulla vita.

Il riconoscere l’autorità di Cristo però richiama ad un impegno concreto: come Lui essere pastore e re al servizio degli ultimi e con gli ultimi, ricercando il diritto e la giustizia, prendendosi cura di tutti, in quanto tutti fratelli figli dell’unico Padre. Farsi piccoli di fronte a tutti e a tutto per lasciare che si dispieghi la forza dell’Amore che è in noi e, così, fare germogliare la terra.

Non sapevo che fossi Tu

                Un grande insegnamento arriva a noi dalla pagina del Vangelo di Matteo: perché il mondo e l’umanità ritorni a girare dal verso giusto occorre un’autorità del cuore, il cui agire non sia dettato dal calcolo e dalla razionalità, ma dalla sapienza del cuore. Un uomo che agisce spinto dalla capacità di indossare i panni del fratello nel bisogno per capire le ragioni, e condividerne il dolore.

Un uomo dotato di quella sapienza non invita l’uomo sofferente a rivolgersi fiducioso a Dio per ottenere consolazione o giustizia, ma agisce come se nel mondo ci fosse solo lui a portare consolazione e giustizia.

                Ciò che affascina del Vangelo di oggi è proprio il giudizio finale su questa operosità: non sarà tutta la vita a passare al vaglio del giudizio di Dio, ma le cose buone di essa; non la fragilità, ma la bontà. Il Signore non guarderà a noi, ma, dimenticandosi in ciascuno dei suoi figli, guarderà alla porzione di lacrime e di fratelli che c’è stata affidata, per vedere se davvero abbiamo consolato, abbiamo nutrito, abbiamo sostenuto e confrontato nella prova. Abbiamo fatto tutto questo ai più piccoli non sapendo affatto che in essi c’era Dio.

                Dio, dunque, non valuterà le nostre debolezze, ma cercherà il bene fatto, perché misura dell’uomo e di Dio, misura della storia è il bene fatto e l’amore nutrito. Allora perché perderci dietro l’angoscia di sapere quale giudizio verrà dato, domani, alle nostre azioni, se sono le azioni di oggi che determineranno quello stesso giudizio. Ora è il tempo  in cui siamo noi a giudicare il povero, e Dio stesso in lui; ora siamo noi per il bisognose gesto di benedizione e atto di rifiuto. 

                Le parole di Gesù non sono generiche, anzi, sono concretissime: il metro sul quale saremo giudicati è la nostra operosità nell’andare incontro ai tanti volti del dolore umano. A nessuno di noi sono chiesti miracoli, ma semplicemente cura e amore: non dobbiamo guarire i malati, ma visitarli sì; non c’è chiesto di trovare soluzioni ai problemi dell’acqua e della fame nel mondo, ma per l’indigente che vive sul ciglio della strada qualcosa possiamo fare; non siamo chiamati a risolvere i problemi dell’immigrazione, ma dobbiamo saper accogliere lo straniero che ci abita accanto. E infine non saremo noi a liberare quanti sono prigionieri nell’anima, ma pregare per loro e farli sentire perdonati e amati si deve fare.

                Esigente bellezza di questo Vangelo: prendersi cura del fratello è così importante che Dio lega la vita eterna ad un pezzo di pane dato all’affamato; è così facile che nessuno è senza un po’ di tempo o di acqua o di cuore, da non poter essere salvo.

Conclusione

                Una domanda dobbiamo porci per fare il bilancio di questo fine anno di fede: “Ho sentito il Signore, re e pastore della vita,, distante dalla mia vita?”. Se così fosse allora non saremmo stati distanti dalla vita degli altri.

Tuttavia, la misericordia di Dio è più grande del nostro peccato e nonostante i nostri ritardi non smette mai di cercarci. Anzi, è vicino a noi, è in noi e le stupende parole delle Confessioni  di s. Agostino ce ne dipingono la fisionomia: “Tu eri dentro di me ed io stavo fuori e ti cercavo gettandomi impuramente su questo cose belle che pure sono le tue creature. Tu eri con me, ma io non ero con te; mi trattenevano lontano da te le creature che senza di te nemmeno esisterebbero. Tu mi hai chiamato e gridato fino a rompere la mia sordità. Tu sei balenato ed hai fatto splendere la tua luce per allontanare la mia cecità. Mi hai toccato ed ora ardo del desiderio della tua pace”.    

Serena domenica

+ Vincenzo Bertolone

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