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Vangelo di Domenica 11 Settembre PDF Stampa E-mail
Scritto da +V.Bertolone   
sabato, 10 settembre 2011 07:21
ImageDal Vangelo di Gesù Cristo secondo Matteo 18,21-35. - Allora Pietro gli si avvicinò e gli disse: «Signore, quante volte dovrò perdonare al mio fratello, se pecca contro di me? Fino a sette volte?».E Gesù gli rispose: «Non ti dico fino a sette, ma fino a settanta volte sette.A proposito, il regno dei cieli è simile a un re che volle fare i conti con i suoi servi. Incominciati i conti, gli fu presentato uno che gli era debitore di diecimila talenti.Non avendo però costui il denaro da restituire, il padrone ordinò che fosse venduto lui con la moglie, con i figli e con quanto possedeva, e saldasse così il debito.Allora quel servo, gettatosi a terra, lo supplicava: Signore, abbi pazienza con me e ti restituirò ogni cosa. Impietositosi del servo, il padrone lo lasciò andare e gli condonò il debito.Appena uscito, quel servo trovò un altro servo come lui che gli doveva cento denari e, afferratolo, lo soffocava e diceva: Paga quel che devi! Il suo compagno, gettatosi a terra, lo supplicava dicendo: Abbi pazienza con me e ti rifonderò il debito. Ma egli non volle esaudirlo, andò e lo fece gettare in carcere, fino a che non avesse pagato il debito. Visto quel che accadeva, gli altri servi furono addolorati e andarono a riferire al loro padrone tutto l'accaduto. Allora il padrone fece chiamare quell'uomo e gli disse: Servo malvagio, io ti ho condonato tutto il debito perché mi hai pregato. Non dovevi forse anche tu aver pietà del tuo compagno, così come io ho avuto pietà di te?E, sdegnato, il padrone lo diede in mano agli aguzzini, finché non gli avesse restituito tutto il dovuto. Così anche il mio Padre celeste farà a ciascuno di voi, se non perdonerete di cuore al vostro fratello». (segue commento di mons. Bertolone)

XXIV Domenica del Tempo Ordinario

11 settembre 2011

 

Perdonare

Introduzione

                La Parola divina non smette mai di stupire. Senza alcun merito da parte nostra, entra nella storia del mondo e di ogni uomo per rispondere agli interrogativi più inquietanti su vita, morte, male, dolore. Non c’è da meravigliarsi, perciò, se sorprendente è la coincidenza tra il tema dominante della liturgia di oggi e la data di questa XXIV domenica del tempo ordinario. Infatti, la Chiesa proprio oggi, 11 settembre, ci parla di perdono vicendevole, mentre motivi per serbare rancore e odio ce ne sono tanti, soprattutto da parte di chi, a distanza di dieci anni dall’attentato alle Torri Gemelle, ancora porta dentro e fuori di sé le ferite di un dolore inconsolabile. Da quell’11 settembre la “grande mela” (e con essa il mondo) è cambiata: il dialogo tra popoli e civiltà diverse è più problematico.

                Al clima di angoscia e di diffidenza, la Chiesa contrappone la parola “perdono”, che non è una semplice unione di suoni e forme, o solamente un buon insegnamento morale: è molto di più. È la verità di una Persona che ha fatto del perdono il tema centrale del proprio insegnamento, della propria vita e della propria morte. È la follia di una croce che, per quanto abbia scandalizzato e scandalizzi ancora, ha riconciliato, guarito, liberato e salvato miliardi di essere umani.

Per questo all’11 settembre (come a ogni altro fatto triste e tragico della storia dell’uomo), la Chiesa risponde con l’evento della nascita, morte e resurrezione di Cristo, giacché solo questo può davvero rinnovare il volto della storia e dell’uomo.

 

Il perdono cristiano: molto di più di una semplice morale

                Per spiegare il significato del perdono cristiano a quanti ancora non accolgono la verità di Cristo è impresa ardua. Buon senso, opportunità, giustizia umana sono termini insufficienti per comprenderne adeguatamente il valore, non solo perché Cristo ha sostituito alla legge della vendetta quella dell’amore misericordioso, ma perché c’è qualcosa di più. Dopo la morte redentiva di Cristo l’uomo si ritrova in una situazione nuova: è un perdonato, il debito gli è stato rimesso, la condanna cancellata: il Padre ormai ci vede in Cristo figli giustificati. Questo vuol dire che sebbene il nostro peccato possa indebolire il nostro rapporto filiale con il Padre, non può essere eliminato. Più del nostro peccato è il perdono infinitamente misericordioso di Dio: “Il peccato dell’uomo è un pugno di sabbia, la misericordia divina un mare sconfinato” (San Serafino di Sarov).

                Dunque, a motivo dell’azione redentiva di Cristo, non è possibile ridurre il perdono cristiano ad un insegnamento. Esso ha una dimensione teologica che manca all’insieme delle più comuni norme morali: il perdono cristiano è altra manifestazione dell’iniziativa amorevole di Dio verso l’uomo che, se accolta, non può non trasformare la vita, avere un riflesso positivo nel rapporto vicendevole degli uomini.

                Una lunga e necessaria premessa per capire perché l’uomo debba non “dico fino a sette, ma fino a settanta volte sette” perdonare. Cioè sempre: finché la sola misura del perdono non diventi lo stesso perdonare senza misura. Perché perdonare, allora? Farlo è semplice: lo ha fatto Dio prima di noi, ci ha giustificato e perdonato nel Figlio, e continua tuttora a perdonarci nonostante le nostre numerose cadute. Dunque, il perdono è innanzitutto atto di Dio, praticarlo ci innalza a Lui, rende divini, trasforma il cuore in cuore regale, come quello della parabola evangelica. Un re pieno di compassione per il suo servo debitore e supplichevole; un re che sente come sua l’angoscia del servo. Un’angoscia che conta più dei suoi diritti, pesa più dei suoi diecimila talenti, e allarga il suo cuore.

Non ci vuole molta immaginazione a sovrapporre al volto del re quello di Dio, il quale ci ha insegnato una possibilità nuova di stare al mondo: un modo regale, un modo divino, un modo di vivere con larghezza di cuore. Solo chi è grande e generoso sa perdonare.

                Di contro, c’è il cuore del servo, il nostro cuore: appena uscito, il servo debitore, graziato, non mostrerà la stessa clemenza del re, di cui era debitore. A sua volta creditore, il servo, ancora gongolante per la soluzione inaspettata, appena liberato, appena fatta l’esperienza di un cuore regale, esce e chiede ad un suo amico di restituirgli i quattro soldi che gli aveva prestato, e lo fa con violenza spietata.

Non è un’ azione ingiusta e disonesta quella del servo: è legittima ma perversa. Ciò significa che non bastano giustizia e diritto per cambiare il mondo, anzi la giustizia applicata alle estreme conseguenze può recare molta offesa all’uomo.

                Per questo Gesù propone l’illogica pietà del cuore regale. Chiediamoci pure perché avere pietà e perdonare, ma cerchiamo le risposte giuste, non inutili scusanti. Vogliamo perdonare per essere accanto a quel cuore regale, cioè per acquisire il cuore di Dio e immettere così il suo divino disordine nell’ordine opinabile del mondo. Dobbiamo perdonare perché niente vale quanto una vita libera, perché perdonando riusciamo a liberare noi stessi dalla spirale dell’odio e del rancore, e possiamo affrancare l’altro dal peso dell’offesa arrecata. E allora occorre una dismisura, un eccesso di pietà, che assume i contorni folli della croce di Cristo.

                Ciò significa che il vero perdono scaturisce dal cuore. Non occorre l’intelligenza per perdonare, ma la fede; non un atto di spontaneità, ma di speranza. Si perdona perché si dà fiducia all’altro, guardando non al passato, ma al futuro, sperando che la nuova alleanza sarà più forte della prima. Di questa natura è il perdono di Cristo sulla croce: ci ha perdonato non come colui che ha dimenticato il nostro passato, carico di infedeltà e ripetute rinunce, ma come colui che ci ha spinto oltre e ci chiede ancora di procedere su questa via.

                In questi termini il perdono veicolato da Dio è perdono liberante. Ci sospinge in avanti. Ci fa salpare verso albe intatte, come vento che gonfia le vele. Ci perdona come atto di fede in noi, cuore aperto verso il nostro futuro.  

 

Il perdono: banco di prova dei cristiani

 

                Allora perdonare per il cristiano significa accettare di cogliere dalle mani di Dio una speranza nuova e liberante. La speranza risiede nel non temere più il giudizio di Dio, la cui misericordia è sempre più grande della nostra; la libertà è nell’inventare, insieme, tra noi e con gli altri un rapporto nuovo, perché il nostro cuore, perdonando, sarà sempre più vicino al cuore grande di Dio.

                È una sfida amorosa, una gara a chi sa dilatare di più il cuore, una partita alla quale noi cristiani non possiamo mancare reagendo all’indifferenza. Se ci atteggiassimo, infatti, come tutti gli altri, tentando di risolvere le cose e i problemi per via di forza, anelando alla mortificazione, e magari, all’annullamento, se non fisico, morale e giuridico dei nostri avversari, in che cosa saremmo diversi da chi pretende di “imporre” la pace e la giustizia rispondendo alla violenza con altra violenza, all’odio con l’odio, al male con il male? E, ancora, se l’avversario non diventasse per noi occasione e strumento di un maggiore dispiegamento d’amore, se il nostro impegno e il nostro coraggio nel perdonare fosse condizionato dalla paura di apparire diversi dagli altri, in che cosa saremmo veramente diversi?

Non saremmo diversi in niente!

                Dio ci ha chiamato, e ci chiama, invece, ad essere diversi, a fare veramente la differenza. Noi siamo amministratori e veicoli del Suo amore misericordioso nel mondo. E il mondo, che ne ha tanto bisogno, che ha bisogno di essere scongelato e di sentir scorrere la vita nelle sue vene, irrigidite e bloccate dal gioco cieco degli odi contrapposti, da questa spirale di violenza e da questo alternarsi meccanico e bruto di azioni e reazioni uguali e contrapposte, ci attende sul banco di prova. Aspetta e spera di trovare in noi quel surplus di pietà e perdono divino valido ad ottenere, dalle macerie di un mosaico scomposto, un capolavoro, un’opera anche più bella di quella che c’era prima che si rompesse.

 

Conclusione

 

                Tra i più dissacranti detrattori del cristianesimo, Nietzsche diceva: “É disumano benedire quando vi si maledice”. Volendo applicare queste parole alla mens humana, potremmo dire: è disumano, folle, illogico perdonare chi ha causato la morte di tanti innocenti (Torri Gemelle), altrettanto è farlo volendo perdonare chi, armato di orgoglio e fanatismo, ha strappato alla vita tante persone (guerra contro l’Iraq, che non c’entrava niente con l’attacco a New York). L’elenco è lungo: dovunque le stragi, i martirii e i singoli episodi di violenza e morte offrono pretesti più che validi per dire che il perdonare è “disumano”. 

                Certo disumano sarebbe se il nostro cuore fosse semplicemente umano, ma il nostro cuore non è umano soltanto, è divino: per questo deve essere capace di perdonare.  

Serena Domenica

+Vincenzo Bertolone

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