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Vangelo di domenica 1° Maggio PDF Stampa E-mail
Scritto da +V.Bertolone   
domenica, 01 maggio 2011 00:25
ImageDal Vangelo di Gesù Cristo secondo Giovanni 20,19-31 - La sera di quello stesso giorno, il primo dopo il sabato, mentre erano chiuse le porte del luogo dove si trovavano i discepoli per timore dei Giudei, venne Gesù, si fermò in mezzo a loro e disse: «Pace a voi!».Detto questo, mostrò loro le mani e il costato. E i discepoli gioirono al vedere il Signore. Gesù disse loro di nuovo: «Pace a voi! Come il Padre ha mandato me, anch'io mando voi».
Dopo aver detto questo, alitò su di loro e disse: «Ricevete lo Spirito Santo; a  chi rimetterete i peccati saranno rimessi e a chi non li rimetterete, resteranno non rimessi». Tommaso, uno dei Dodici, chiamato Dìdimo, non era con loro quando venne Gesù. Gli dissero allora gli altri discepoli: «Abbiamo visto il Signore!». Ma egli disse loro: «Se non vedo nelle sue mani il segno dei chiodi e non metto il dito nel posto dei chiodi e non metto la mia mano nel suo costato, non crederò». Otto giorni dopo i discepoli erano di nuovo in casa e c'era con loro anche Tommaso. Venne Gesù, a porte chiuse, si fermò in mezzo a loro e disse: «Pace a voi!». Poi disse a Tommaso: «Metti qua il tuo dito e guarda le mie mani; stendi la tua mano, e mettila nel mio costato; e non essere più incredulo ma credente!». Rispose Tommaso: «Mio Signore e mio Dio!». Gesù gli disse: «Perché mi hai veduto, hai creduto: beati quelli che pur non avendo visto crederanno!». Molti altri segni fece Gesù in presenza dei suoi discepoli, ma non sono stati scritti in questo libro. Questi sono stati scritti, perché crediate che Gesù è il Cristo, il Figlio di Dio e perché, credendo, abbiate la vita nel suo nome.

II Domenica di Pasqua

1 Maggio 2011

Frutti di vita nuova

Introduzione

                Domenica scorsa, domenica di Pasqua, la Liturgia della Parola ci ha resi partecipi del primo frutto della Risurrezione di Gesù: siamo diventati il Suo luogo, la Sua dimora. Noi siamo risorti assieme a Cristo, cioè Egli ci ha portato con sé nel mondo di Dio, sicché noi possiamo ben dire che noi siamo là dove è Lui. Ma si può dire, con eguale verità, che Egli è dove siamo noi. Davvero siamo diventati il cielo dove abita il Cristo Risorto.

                La gioia di quanto accaduto non si è esaurita alla fine del giorno di domenica, essa, infatti, continua anche per l’arco di sette settimane con altrettante domeniche. Un lungo periodo di letizia profonda che ci sosterrà e incoraggerà nei momenti difficili della vita di fede e non solo.

                Perciò in apertura a questo lungo periodo pasquale, a partire proprio da questa domenica, impariamo a conoscere gli altri frutti della risurrezione: la gioia, la testimonianza, la missione, la fede. Ed è proprio nell’esercizio della fede che possiamo attingere la gioia nell’essere discepoli, uomini salvati, e testimoni.

                Dunque, più che delle apparizioni del Risorto, in questa domenica e in quelle che seguiranno, la Liturgia della Parola, proprio attraverso i racconti del Risorto e delle prime comunità cristiane, ci parla, e ci parlerà, della vita di noi cristiani che, pur non avendo visto Cristo, crediamo in Lui.

 

Con il Vivente solo la fede basta

 

                Assuefatti ad un mondo di tante parole, spesso ci sfugge il valore delle stesse, soprattutto di quelle che sono veramente importanti per noi. E accade perciò che parliamo, ad esempio, di gioia, ma ci accontentiamo di un pallido ed effimero riflesso di essa; parliamo di fede, ma ne coltiviamo più la forma che la sostanza, ovvero quel principio fondante capace di trasformare e rinnovare la vita.

                Allora per recuperare il senso vero della gioia e della fede, occorre ritornare alle fonti, attingere acqua alla sorgente stessa della nostra salvezza. Per questo dobbiamo ripartire dall’inizio di quella tradizione, che ci fa ancora oggi Chiesa e ci fa riconoscere il Cristo risorto quale “nostro Dio e nostro Signore”.

Tale tradizione si nutre del racconto di testimoni oculari, che hanno fatto esperienza diretta del Risorto, annunciandola e comunicandola alle generazioni future, con la stessa gioia e lo stesso fervore di chi ha perduto un Amico e l’ha poi ritrovato.

                Ma ancora più gioiosi siamo noi che, pur non avendo visto e toccato, crediamo. Ciò confermano le parole di Gesù riportate nella pagina del Vangelo di Giovanni, e ribadisce Pietro nella sua Prima Lettera: Siete ricolmi di gioia…(Perché) senza vederlo credete in Lui. Siamo dunque beati, perché siamo uomini e donne di fede, ovvero uomini e donne a cui basta avere la certezza della presenza del Vivente per avere fede. E la fede in questa certezza genera gioia, perché solo Dio basta per essere felici. La fede genera la gioia e la gioia esprime la fede.

                Ma cos’è la fede; e la natura della gioia chi l’ha esprime?

La fede è prima di tutto tensione tra bisogno di vedere e l’impossibilità di farlo, “bruciatura di un’assenza” che si converte in ardente presenza, da cui si rimane segnati per sempre, nello spirito e –si direbbe- perfino nella carne. Il non vedere o toccare il volto di Cristo, non sconforta nella ricerca, anzi è spinta a ricercare sempre di più, finché si arriva all’esperienza più travolgente: quel volto amato e tanto desiderato è tutto in noi, non occorre cercare all’esterno. E il volto dell’Amato perduto, si ricompone e si ritrova infine nei tratti del proprio ed altrui volto. Allora, anche se gli occhi non vedono e le mani non toccano la fede in questa silenziosa Presenza ci rende uniti e incorporati in Chi credevamo perduto o assente, perché da Lui scopriamo di essere abitati.

                Ne consegue che la fede è anche un atto d’amore, anzi l’amore è la dimensione fondamentale della fede. La grande scommessa e il grande “rischio” del credente sta proprio qui: amare, pur stando Cristo lontano dai nostri occhi. Il vero miracolo più sensazionale del credente è quello che gli fa vivere l’amore nell’invisibile.

Non basta credere senza vedere. Occorro amare senza vedere, sopportando la lontananza che non è assenza. Nana Mouskouri, ortodossa, diceva: La mia fede è la mia mano per toccare Dio. si potrebbe aggiungere: anche l’amore è la mano per toccare il Dio “lontano”.

Tutto ciò deve avere una manifestazione esteriore nella gioia. É la gioia che rivela la Presenza durante “il po’ di tempo” della lontananza. “La gioia è il gigantesco segreto del cristiano”, perché la fede nel Cristo risorto fa nascere un progetto nuovo di vita, nel quale alla legge del potere subentra la legge del servizio; alla legge dell’uomo “centro di tutto” subentra Dio come “principio” di tutte le cose. E la storia di tanti uomini e donne ci insegna quanto sia più gioioso dare che ricevere, quanto porti vera felicità il possedere solo Dio, perché si sa che non si perde nulla, piuttosto si guadagna molto: una “vita meravigliosa”.

Tomba ebraica del 1° sec.
Tomba ebraica del 1° sec.

Essere testimoni del Risorto

 

   Ma avere una “vita meravigliosa” non significa avere una vita priva di dolore e sofferenza. La gioia manifestata dai testimoni del Risorto non esonera dal soffrire o dal morire, entrambe le realtà sono sperimentate e vissute. Semplicemente si parla della “gioia indicibile e gloriosa” di chi ripone tutta la vita, ogni gioia, speranza, attesa, lacrima e sorriso, in Cristo.

Dunque sentirsi discepoli del Risorto, non significa essere esonerati dalla sequela della croce. Non è garanzia di una vita facile, piuttosto è affrontare la vita con passione e pienezza, nella buona e cattiva sorte, accettando anche le ferite come segni vibranti e luminosi della Presenza del Risorto in noi.

                Tutto questo non è in contraddizione con la gioia che stiamo celebrando in questi giorni di festa, anzi è in perfetta sintonia con essa. Infatti basta prestare maggiore attenzione alle parole del Vangelo di oggi per capire.

Esse infatti ci parlano delle ferite di Gesù, che, nonostante fosse ormai risorto, e tale appariva ai suoi chiusi nel cenacolo, si mostra con tutti i segni visibili della sua passione, non li nasconde: così si possono vedere e toccare i fori lasciati dai chiodi e la profonda ferita del costato. Piaghe che non ci saremmo aspettati, convinti che la risurrezione avrebbe rimarginato, chiuso, cancellato per sempre le ferite del Venerdì Santo, le stigmate di dolore.

                 E invece “no”. Perché la Pasqua non è il superamento gioioso della passione, né la continuazione, il frutto maturo, la conseguenza. Le piaghe restano per sempre. Ed è proprio a causa di quelle che Cristo è stato risuscitato. L’amore ha scritto la sua storia sul corpo del Nazzareno con la scrittura delle ferite: amore incancellabile, ferite incancellabili. Ma anche ferite luminose: dalle piaghe del Risorto non sgorga  più sangue, ma luce; le ferite non sfigurano, ma trasfigurano.

                I testimoni del Risorto sono dunque tutti coloro che dimorando nell’amore di Cristo, lo stesso della croce e dell’alba di resurrezione, hanno imparato l’arte del vero amore. Quell’amore che sa donarsi senza risparmio, senza tornaconto, semplicemente, gratuitamente donato, liberamente sacrificato. Quell’amore che ama servire e sfugge alla tentazione del farsi servire; quell’amore che si compiace della debolezza, perché solo svuotandosi di sé stessi ci si può far riempire di Dio.

E ancora, i testimoni del Risorto, con il loro Maestro, non temono di dimostrare le ferite dello spirito e della carne, anzi le vivono con coraggio e pienezza sapendo che quanto più si è deboli tanto più si manifesta attraverso di loro la gloria di Dio.

                Tra le schiere di questi testimoni come non ricordare il nostro amato Giovanni Paolo II, che oggi, II Domenica di Pasqua e Domenica della Misericordia, sarà proclamato beato da Benedetto XVI. Tutto nella sua vita, nel suo pontificato, fino alla fine, fino alla vecchiaia evidente e alla malattia palesata senza vergogna, tutto in lui è da considerarsi un trionfo di segni del Risorto, una somma esemplare di quanto possano essere fruttuosi per gli altri i frutti della resurrezione presenti in un solo uomo.

Giovanni Paolo II non fu  né un eroe né uomo singolare, semplicemente seppe vivere il segreto della vita cristiana: essere radicati profondamente in Cristo, dal cui amore attingere la forza necessaria per affrontare il peso e la responsabilità di una così delicata missione e di una così sofferta malattia.

Conclusione

                A conclusione di queste poche riflessioni, data l’occasione particolare della beatificazione di Giovanni Paolo II, riprendo alcune sue parole rimaste scolpite nella mente e nel cuore di molti. Alludo all’appello accorato rivolto al popolo dei fedeli affinché “aprano, anzi spalanchino le porte a Cristo”: Spalancate le porte a Cristo! Non abbiate paura di accogliere Cristo e di accettare la Sua potestà! Aiutate il Papa e tutti quanti vogliono servire Cristo e, con la potestà di Cristo, servire l'uomo e l'umanità intera! Non abbiate paura! Aprite, anzi spalancate le porte a Cristo! Alla Sua salvatrice potestà aprite i confini degli Stati, i sistemi economici come quelli politici, i vasti campi di cultura, di civiltà, di sviluppo. Non abbiate paura! Cristo sa cosa è dentro l'uomo. Solo Lui lo sa! Oggi così spesso l'uomo non sa cosa si porta dentro, nel profondo del suo animo, del suo cuore. Così spesso è incerto del senso della sua vita su questa terra. E' invaso dal dubbio che si tramuta in disperazione. Permettete a Cristo di parlare all'uomo. Solo Lui

 Serena domenica

                                                                                                                             +Vincenzo Bertolone

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