Il Risorgimento a Cassano |
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Scritto da T.Cavallaro | |
martedì, 01 marzo 2011 10:12 | |
![]() Fucilazione dei fratelli Bandiera "La celebrazione dell'anniversario dell'unità di Italia non sfugge spesso alla tentazione di utilizzare la ricorrenza per fare delle considerazioni sull'oggi o addirittura di rovesciare sul passato i problemi del presente. La relazione del nostro Vescovo non si è fatta neppure sfiorare da queste facili esemplificazioni ma ha sostanzialmente recuperato i valori fondanti dello stato unitario per attualizzarli ed innervarli nella condizione repubblicana che viviamo. Interessante sotto questo profilo, il recupero dell'apporto del cattolicesimo democratico alla costruzione della nostra democrazia con il riferimento significativo a De Gasperi e Aldo Moro. Nessuna tentazione borbonizzante nè scivolamenti inappropriati tipici di una cultura anti-unitaria." ![]() col.Antonio Quintieri ![]() Mons. Luigi Renzo ![]() prof. Vittorio Cappelli ![]() I giovani artisti di Frascineto Il prof Cappelli, che stimiamo come ricercatore e profondo conoscitore della storia calabra, sarà sicuramente d'accordo con quanto scritto da Antonio Gramsci su Ordine Nuovo nel 1920: "Lo Stato italiano (leggasi sabaudo) è stato una dittatura feroce che ha messo a ferro e fuoco l'Italia meridionale e le isole, squartando, fucilando, seppellendo vivi i contadini poveri che scrittori salariati tentarono di infamare col marchio di briganti". ![]() Mons.Vincenzo Bertolone (cliccare quì per la relazione di mons. Bertolone) (Le foto sono state gentilmente concesse da Giuseppe Martire) ![]() il Prof. Leonardo Alario
150° Unità d’Italia Per ricordare, per riflettere L’intento di questo nostro incontro non è quello di accodarsi pedissequamente al profluvio delle iniziative in occasione del 150° dell’Unità nazionale, né di unirsi alle lagnanze dei separatisti o alle esaltazioni degli unionisti, quanto piuttosto quello di rammentare e di riflettere, appunto, riconoscendoci persone, che nel senso della patria, dell’onor di patria, dell’amor di patria, avvertono il vero strumento, con cui assicurare la libertà e la dignità dei singoli cittadini e della nazione. Diversamente nessuna educazione alla legalità e nessuna Costituzione potranno fare di noi dei cittadini consapevoli e responsabili. Certo, del modo, con cui si è conseguita l’Unità d’Italia, noi Meridionali abbiamo d’argomentar qualcosa, giacché da partecipi attivi ai moti di liberazione, con alto tributo di sofferenze, lacrime e sangue, ci siamo trovati occupati, sfruttati, disprezzati, privati dei nostri averi (la riserva aurea del Regno), calunniati (briganti) oltre che ammazzati. Anche Cassano ha avuto i suoi martiri. Primo fra tutti Luigi Praino, unico a riportar vittoria col suo manipolo nella battaglia di Campotenese, tuttavia perduta, prigioniero con Settembrini, Poerio, Spaventa, L’Occaso di Castrovillari, Placco di Civita, ucciso insieme a Domenico Lanza in un agguato. E, poi, tanti altri, fra cui non pochi preti, alcuni dei quali condannati, il 1852, dalla Gran Corte Criminale di Cosenza, a ben 25 anni di ferri da scontare nei Bagni di Procida. Di loro non si è saputo più nulla. Non si tratta qui, dunque, di negare i limiti dell’unificazione: l’assurda applicazione dello Statuto Albertino, la tassa sul macinato, la leva obbligatoria, la conseguente fuga dalle campagne, e la devastante emigrazione verso le Americhe, le pagine ingloriose rosse del sangue degli innocenti, i fatti terrificanti, già noti, che denuncia Pino Aprile nel suo saggio Terroni, l’arroganza plebea, piuttosto che regale, di Vittorio Emanuele, il quale avrebbe dovuto chiamarsi I, ma, in dispregio del sangue degli eroi, grazie al quale aveva ottenuto un Regno, volle continuare a chiamarsi II per far pesare sui Meridionali il tallone della conquista; né si tratta di negare i furti, gli eccidi, gli atti inauditi di crudeltà contro persone innocenti e indifese compiuti da alcuni reparti dell’esercito borbonico, stando alle testimonianze dei loro stessi comandanti come il generale catalano Borges. E non si tratta neppure di denigrare, come in coro tanti stanno da più parti facendo, il sacrificio di quei coraggiosi, i quali hanno rinunciato a famiglia e futuro, giovinezza e vita per donarci una patria, per soddisfare, alfine un’antica necessità. Tuttavia, ciò che è stato è stato. Siamo una nazione, dobbiamo sentirci uniti per poter avere un futuro, come ammoniva Padron ‘Ntoni, il patriarca dei Malavoglia, tenendo il pugno chiuso, per esorcizzare l’eterno mugugno, l’esiziale disutile rancore, la diffidenza fra Italiani del Sud e Italiani del Nord, anche se, spesso, sono gli stessi Meridionali (alcuni di essi) emigrati a Nordo a schierarsi, per debolezza culturale, contro il Sud, a mimetizzarsi dietro improbabili coloriture linguistiche. L’unità d’Italia, del resto, è stata una necessità già avvertita da Arduino d’Ivrea (re d’Italia nel 1002) e da Federico II, e, poi, da tutti quei grandi, i quali, nel tempo, hanno fatto grande l’Italia da Dante (Ahi, serva Italia di dolore ostello) - per citare solo alcuni eminenti letterati – al pensoso Manzoni delle Odi e delle Tragedie, passando per Petrarca (Italia mia, benché il parlar sia indarno), Giusti, Parini, Foscolo (Della servitù d’Italia), Leopardi (All’Italia: O patria mia, vedo le mura e gli archi), e non dimenticando lo stesso Machiavelli (Il Principe). E, poi, Verdi con le sue opere. E i giovani generosi, i quali offrirono la vita, perché le generazioni future godessero della dignità di popolo uno, di nazione libera e sovrana (Goffredo Mameli, Angiolo Silvio Novaro, i Fratelli Cairoli morti sulla soglia della giovinezza, Giuseppe Garibaldi, che inizia a combattere a 20 anni, Mazzini, che a 16 anni è già protagonista, lo stesso Cavour, il tessitore, che, giovanissimo, promuove la politica savoiarda del tempo, morendo a 50 anni). Se molti trovano, perciò, ancora tante difficoltà a riconoscersi in una nazione forte, nei suoi valori civili e nella sua lingua, è perché il campanile, il particolare di giucciardiniana memoria, il piccolo interesse tribale (vedi Lega) ottundono la tensione degli ideali, e spalancano i cancelli alle ideologie; i primi sublimazione, le seconde deviazione perversa delle idee. Rammentare significa conoscere e riconoscere ciò che veramente è stato, serbandone indelebile la memoria. Riflettere significa rendersi conto che il senso della storia non è fatto di recriminazioni, ma di lucida presa d’atto per agire nel modo più opportuno e giusto, e che degli eventi bisogna trarre il maggior numero d’insegnamenti utili a ben progettare il futuro. Ciò che è stato è stato. E ciò che è stato non va dimenticato. Siamo una nazione da 150 anni, ormai, e, tuttavia, da poco ancora, considerati i tempi lunghi della storia. Ancora il nostro piede non si è adattato, forse, al calzare dell’Unità per potere andare lungo le giuste strade concordemente tracciate. E, tuttavia, ciò che è stato è stato. Il Risorgimento è necessario riscoprirlo e amarlo con tutte le sue pecche e con tutte le sue piaghe, con tutte le sue glorie e con tutti i suoi benefíci innegabili. Lì sono le nostre attuali radici. Altro che retorico e polveroso o, al contrario, virtuoso movimento degno di magnifiche sorti e progressive (tanto per citare Leopardi). Fu lotta aspra, drammatica, lacerante non solo contro lo straniero, o contro il tiranno locale, ma fra gli stessi patrioti. Lotta intestina, dura e non conclusa, per diversità d’intenti, su cui mai si è dialogato, e ancora non si riesce a dialogare. Pensate a Mazzini, morto in clandestinità, quando l’Italia era unita già da 11 anni, i cui ideali, fortemente e coerentemente sostenuti, di un’Italia repubblicana si realizzarono solo 85 anni dopo l’unificazione, il 1946, dopo due guerre mondiali, che videro modificarsi i confini territoriali dello Stato, con un autoritarismo combattuto e mai, in verità, debellato. Se ancora oggi soffriamo certe situazioni di oppressione, certi disagi esistenziali, certe sconfitte di cittadini ancora in attesa della libertà (non del libertinaggio già ampiamente assicurato), è perché abbiamo rinunciato allo spirito, da cui sono stati animati i giovani del Risorgimento, ci siamo piegati al compromesso, perseguendo lo star meglio individuale sotto la cappa, ritenuta protettiva, del familismo e del clientelismo, non rendendoci conto che il Risorgimento, segnato dall’ideale di star meglio sí, ma tutti, dev’essere pratica permanente, che attinge a tutto ció, che hanno pensato, detto, scritto e fatto quei giovani, avversari di ogni gerontocrazia culturale e politica, per uscire indenni dal guado infido, che con difficoltà stiamo attraversando oggi, ora, mentre stiamo parlando. Dovrebbe esser convinzione comune, ormai, che solo il culto della libertà e della patria garantisce dignità, giustizia e, conseguentemente, progresso, non del singolo, ripeto, ma di tutti i cittadini. Il patriottismo favorisce il senso del dovere sostenuto da un forte sentimento di appartenenza a una comunità nazionale, generando rapporti di fiducia fra i cittadini. Le istituzioni pubbliche, infatti, falliscono, se non si alimentano della carità di patria, se non si tengono lontane dalle ideologie perverse, dagli interessi di parte, dalle pulsioni onnivore, dal delirio di onnipotenza. Nessun popolo può crescere nel bene assicurato dalla giustizia, nessuna democrazia può veramente funzionare senza il culto radicato e condiviso della libertà e della patria. Nessun Governo può ottemperare proficuamente al suo mandato senza la promozione e la salvaguardia degli interessi di tutti. Silvio Spaventa, lo statista abruzzese cresciuto culturalmente a Napoli, già vedeva ai suoi tempi, il pericolo che «il Governo non debba far niente, quando si tratta degli interessi di tutti; mentre è indotto a fare ogni cosa, a spese di tutti, quando si tratta degli interessi di pochi». Sembrano parole scritte stamattina. Ecco uno dei motivi, ancora, perché le celebrazioni del 150° dell’Unità d’Italia sono da molti avversate: Essi, presi a coltivare gli interessi di pochi, soprattutto personali, non conoscono l’amor di patria. Non conoscono i valori condivisi di libertà, giustizia, eguaglianza, ma ben conoscono, in compenso, i valori clandestinamente occultati all’estero. Non conoscono, insomma, la legge morale della mezza pera (Einaudi, Mario Pannunzio del Mondo, Ennio Flaiano), ma conoscono benissimo quella, amorale, della pera intera, anzi, di tutto il corbello delle pere, per non parlare delle pere anatomiche. Su questo, ecco, siamo chiamati a riflettere, se vogliamo trarre buon profitto dalle celebrazioni, tanto inopportunamente contrastate, del 150° dell’Unità d’Italia. Leonardo R. Alario
150° Unità d’Italia Per ricordare, per riflettere
L’intento di questo nostro incontro non è quello di accodarsi pedissequamente al profluvio delle iniziative in occasione del 150° dell’Unità nazionale, né di unirsi alle lagnanze dei separatisti o alle esaltazioni degli unionisti, quanto piuttosto quello di rammentare e di riflettere, appunto, riconoscendoci persone, che nel senso della patria, dell’onor di patria, dell’amor di patria, avvertono il vero strumento, con cui assicurare la libertà e la dignità dei singoli cittadini e della nazione. Diversamente nessuna educazione alla legalità e nessuna Costituzione potranno fare di noi dei cittadini consapevoli e responsabili. Certo, del modo, con cui si è conseguita l’Unità d’Italia, noi Meridionali abbiamo d’argomentar qualcosa, giacché da partecipi attivi ai moti di liberazione, con alto tributo di sofferenze, lacrime e sangue, ci siamo trovati occupati, sfruttati, disprezzati, privati dei nostri averi (la riserva aurea del Regno), calunniati (briganti) oltre che ammazzati. Anche Cassano ha avuto i suoi martiri. Primo fra tutti Luigi Praino, unico a riportar vittoria col suo manipolo nella battaglia di Campotenese, tuttavia perduta, prigioniero con Settembrini, Poerio, Spaventa, L’Occaso di Castrovillari, Placco di Civita, ucciso insieme a Domenico Lanza in un agguato. E, poi, tanti altri, fra cui non pochi preti, alcuni dei quali condannati, il 1852, dalla Gran Corte Criminale di Cosenza, a ben 25 anni di ferri da scontare nei Bagni di Procida. Di loro non si è saputo più nulla. Non si tratta qui, dunque, di negare i limiti dell’unificazione: l’assurda applicazione dello Statuto Albertino, la tassa sul macinato, la leva obbligatoria, la conseguente fuga dalle campagne, e la devastante emigrazione verso le Americhe, le pagine ingloriose rosse del sangue degli innocenti, i fatti terrificanti, già noti, che denuncia Pino Aprile nel suo saggio Terroni, l’arroganza plebea, piuttosto che regale, di Vittorio Emanuele, il quale avrebbe dovuto chiamarsi I, ma, in dispregio del sangue degli eroi, grazie al quale aveva ottenuto un Regno, volle continuare a chiamarsi II per far pesare sui Meridionali il tallone della conquista; né si tratta di negare i furti, gli eccidi, gli atti inauditi di crudeltà contro persone innocenti e indifese compiuti da alcuni reparti dell’esercito borbonico, stando alle testimonianze dei loro stessi comandanti come il generale catalano Borges. E non si tratta neppure di denigrare, come in coro tanti stanno da più parti facendo, il sacrificio di quei coraggiosi, i quali hanno rinunciato a famiglia e futuro, giovinezza e vita per donarci una patria, per soddisfare, alfine un’antica necessità. Tuttavia, ciò che è stato è stato. Siamo una nazione, dobbiamo sentirci uniti per poter avere un futuro, come ammoniva Padron ‘Ntoni, il patriarca dei Malavoglia, tenendo il pugno chiuso, per esorcizzare l’eterno mugugno, l’esiziale disutile rancore, la diffidenza fra Italiani del Sud e Italiani del Nord, anche se, spesso, sono gli stessi Meridionali (alcuni di essi) emigrati a Nordo a schierarsi, per debolezza culturale, contro il Sud, a mimetizzarsi dietro improbabili coloriture linguistiche. L’unità d’Italia, del resto, è stata una necessità già avvertita da Arduino d’Ivrea (re d’Italia nel 1002) e da Federico II, e, poi, da tutti quei grandi, i quali, nel tempo, hanno fatto grande l’Italia da Dante (Ahi, serva Italia di dolore ostello) - per citare solo alcuni eminenti letterati – al pensoso Manzoni delle Odi e delle Tragedie, passando per Petrarca (Italia mia, benché il parlar sia indarno), Giusti, Parini, Foscolo (Della servitù d’Italia), Leopardi (All’Italia: O patria mia, vedo le mura e gli archi), e non dimenticando lo stesso Machiavelli (Il Principe). E, poi, Verdi con le sue opere. E i giovani generosi, i quali offrirono la vita, perché le generazioni future godessero della dignità di popolo uno, di nazione libera e sovrana (Goffredo Mameli, Angiolo Silvio Novaro, i Fratelli Cairoli morti sulla soglia della giovinezza, Giuseppe Garibaldi, che inizia a combattere a 20 anni, Mazzini, che a 16 anni è già protagonista, lo stesso Cavour, il tessitore, che, giovanissimo, promuove la politica savoiarda del tempo, morendo a 50 anni). Se molti trovano, perciò, ancora tante difficoltà a riconoscersi in una nazione forte, nei suoi valori civili e nella sua lingua, è perché il campanile, il particolare di giucciardiniana memoria, il piccolo interesse tribale (vedi Lega) ottundono la tensione degli ideali, e spalancano i cancelli alle ideologie; i primi sublimazione, le seconde deviazione perversa delle idee. Rammentare significa conoscere e riconoscere ciò che veramente è stato, serbandone indelebile la memoria. Riflettere significa rendersi conto che il senso della storia non è fatto di recriminazioni, ma di lucida presa d’atto per agire nel modo più opportuno e giusto, e che degli eventi bisogna trarre il maggior numero d’insegnamenti utili a ben progettare il futuro. Ciò che è stato è stato. E ciò che è stato non va dimenticato. Siamo una nazione da 150 anni, ormai, e, tuttavia, da poco ancora, considerati i tempi lunghi della storia. Ancora il nostro piede non si è adattato, forse, al calzare dell’Unità per potere andare lungo le giuste strade concordemente tracciate. E, tuttavia, ciò che è stato è stato. Il Risorgimento è necessario riscoprirlo e amarlo con tutte le sue pecche e con tutte le sue piaghe, con tutte le sue glorie e con tutti i suoi benefíci innegabili. Lì sono le nostre attuali radici. Altro che retorico e polveroso o, al contrario, virtuoso movimento degno di magnifiche sorti e progressive (tanto per citare Leopardi). Fu lotta aspra, drammatica, lacerante non solo contro lo straniero, o contro il tiranno locale, ma fra gli stessi patrioti. Lotta intestina, dura e non conclusa, per diversità d’intenti, su cui mai si è dialogato, e ancora non si riesce a dialogare. Pensate a Mazzini, morto in clandestinità, quando l’Italia era unita già da 11 anni, i cui ideali, fortemente e coerentemente sostenuti, di un’Italia repubblicana si realizzarono solo 85 anni dopo l’unificazione, il 1946, dopo due guerre mondiali, che videro modificarsi i confini territoriali dello Stato, con un autoritarismo combattuto e mai, in verità, debellato. Se ancora oggi soffriamo certe situazioni di oppressione, certi disagi esistenziali, certe sconfitte di cittadini ancora in attesa della libertà (non del libertinaggio già ampiamente assicurato), è perché abbiamo rinunciato allo spirito, da cui sono stati animati i giovani del Risorgimento, ci siamo piegati al compromesso, perseguendo lo star meglio individuale sotto la cappa, ritenuta protettiva, del familismo e del clientelismo, non rendendoci conto che il Risorgimento, segnato dall’ideale di star meglio sí, ma tutti, dev’essere pratica permanente, che attinge a tutto ció, che hanno pensato, detto, scritto e fatto quei giovani, avversari di ogni gerontocrazia culturale e politica, per uscire indenni dal guado infido, che con difficoltà stiamo attraversando oggi, ora, mentre stiamo parlando. Dovrebbe esser convinzione comune, ormai, che solo il culto della libertà e della patria garantisce dignità, giustizia e, conseguentemente, progresso, non del singolo, ripeto, ma di tutti i cittadini. Il patriottismo favorisce il senso del dovere sostenuto da un forte sentimento di appartenenza a una comunità nazionale, generando rapporti di fiducia fra i cittadini. Le istituzioni pubbliche, infatti, falliscono, se non si alimentano della carità di patria, se non si tengono lontane dalle ideologie perverse, dagli interessi di parte, dalle pulsioni onnivore, dal delirio di onnipotenza. Nessun popolo può crescere nel bene assicurato dalla giustizia, nessuna democrazia può veramente funzionare senza il culto radicato e condiviso della libertà e della patria. Nessun Governo può ottemperare proficuamente al suo mandato senza la promozione e la salvaguardia degli interessi di tutti. Silvio Spaventa, lo statista abruzzese cresciuto culturalmente a Napoli, già vedeva ai suoi tempi, il pericolo che «il Governo non debba far niente, quando si tratta degli interessi di tutti; mentre è indotto a fare ogni cosa, a spese di tutti, quando si tratta degli interessi di pochi». Sembrano parole scritte stamattina. Ecco uno dei motivi, ancora, perché le celebrazioni del 150° dell’Unità d’Italia sono da molti avversate: Essi, presi a coltivare gli interessi di pochi, soprattutto personali, non conoscono l’amor di patria. Non conoscono i valori condivisi di libertà, giustizia, eguaglianza, ma ben conoscono, in compenso, i valori clandestinamente occultati all’estero. Non conoscono, insomma, la legge morale della mezza pera (Einaudi, Mario Pannunzio del Mondo, Ennio Flaiano), ma conoscono benissimo quella, amorale, della pera intera, anzi, di tutto il corbello delle pere, per non parlare delle pere anatomiche. Su questo, ecco, siamo chiamati a riflettere, se vogliamo trarre buon profitto dalle celebrazioni, tanto inopportunamente contrastate, del 150° dell’Unità d’Italia.
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