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Il Risorgimento a Cassano PDF Stampa E-mail
Scritto da T.Cavallaro   
martedì, 01 marzo 2011 10:12
Fratelli Bandiera
Fucilazione dei fratelli Bandiera
Sabato 26 febbraio nel Teatro Comunale di Cassano si è tenuta un'interessante manifestazione per il 150° anniversario dell'Unità italiana, organizzata ottimamente dal presidente dell'IRSDD, prof. Leonardo Alario e da lui stesso condotta e coordinata. Si sono alternati al microfono, dapprima,  lo stesso Alario con un'introduzione sobria che ha tenuto conto delle varie problematiche vissute dagli italiani e dai meridionali in particolare, prima, durante e dopo l'azione risorgimentale; lo ha seguito il presule di Cassano mons. Vincenzo Bertolone,  sul cui intervento abbiamo colto un'azzeccata considerazione del dott.Giuseppe Aloise che condividiamo e che riportiamo nel seguito.    (nella seconda parte trovate l'introduzione del prof. Leonardo Alario e la relazione di mons Bertolone in formato PDF)

"La celebrazione dell'anniversario dell'unità  di Italia non sfugge spesso alla tentazione di utilizzare la ricorrenza per fare delle considerazioni sull'oggi o addirittura di rovesciare sul passato i problemi del presente. La relazione del nostro Vescovo non si è fatta neppure sfiorare da queste facili esemplificazioni ma ha sostanzialmente recuperato i valori fondanti dello stato unitario per attualizzarli ed innervarli  nella condizione repubblicana che viviamo. Interessante  sotto questo profilo, il recupero dell'apporto del cattolicesimo democratico alla costruzione della nostra democrazia con il riferimento significativo a De Gasperi e Aldo Moro. Nessuna tentazione borbonizzante nè scivolamenti inappropriati tipici di una cultura anti-unitaria." 

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col.Antonio Quintieri
Il colonnelo cosentino Antonio Quintieri, ha ricordato con grande tensione emotiva, il tragico fatto di sangue avvenuto a Cosenza nel 1844 davanti il palazzo della prefettura (oggi piazza Telesio), che provocò la morte di molti giovani studenti, quasi tutti arberesch, lì convenuti per protestare contro la negazione delle libertà più elementari imposta dal governo borbonico, la loro manifestazione venne scambiata per una rivolta e i gendarmi aprirono il fuoco compiendo un orribile massacro. L'eco di quanto accaduto giunse anche ai patrioti mazziniani capeggiati dai fratelli veneziani Attilio ed Emilio Bandiera, che scambiando l'evento per un'insurrezione popolare, partirono alla volta della Calabria nel mese di giugno dello stesso anno, purtroppo tutti sappiamo che le cose andarono diversamente e anche loro finirono per essere fucilati insieme a molti compagni. Purtroppo la storia ufficiale ci ha tramandato l'atto eroico dei due fratelli, ma pochissimi sono al corrente dell'eccidio degli studenti, primi veri martiri del Risorgimento, e della sorte toccata a molti altri calabresi, eroi anch'essi dell'epopea risorgimentale dei quali resta traccia solo su qualche lapide affissa nei rispettivi paesi d'origine.

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Mons. Luigi Renzo
Mons. Luigi Renzo, vescovo di Mileto originario di Campana e autore di diversi libri di contenuto storico, ha messo in risalto le figure di innumerevoli religiosi che si schierarono con gli insorti contro i Borboni e le angherie di cui furono oggetto molti vescovi calabresi, inflitte successivamente dal governo savojardo, che li considerò contrari all'Unità della Nazione se non addirittura nemici da condannare.
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prof. Vittorio Cappelli
Il prof.  Vittorio Cappelli, titolare della cattedra di storia contemporanea presso l'UNICAL di Rende, ha stigmatizzato in modo abbastanza duro le innumerevoli pubblicazioni che circolano da qualche tempo in Italia e che riportano quanto accaduto dopo l'annessione del regno delle Due Sicilie allo Stato sabaudo, in modo tendenzioso e anti-unitario.  Cappelli ha parlato del libro di Pino Aprile dal titolo "Terroni", giunto alla XXII.a edizione in poco più di un anno, come divulgatore di fatti che vengono spacciati per verità tenute nascoste, ma che invece - ha detto il prof.Cappelli - erano conosciute da tutti e da sempre. La considerazione era riferita ai massacri di popolazioni inermi effettuate dai bersaglieri e dai carabinieri del regio esercito che furono mandati nel meridione per estirpare la mala pianta del brigantaggio.
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I giovani artisti di Frascineto

Il prof Cappelli, che stimiamo come ricercatore e profondo conoscitore della storia calabra, sarà sicuramente d'accordo con quanto scritto da Antonio Gramsci su Ordine Nuovo nel 1920: "Lo Stato italiano (leggasi sabaudo) è stato una dittatura feroce che ha messo a ferro e fuoco l'Italia meridionale e le isole, squartando, fucilando, seppellendo vivi i contadini poveri che scrittori salariati tentarono di infamare col marchio di briganti".
Sicuramente non inneggiamo ai separatismi tanto desiderati dal "bossismo" più becero, ma riteniamo giusto che i giovani del Sud sappiano cosa hanno subito i loro progenitori per giungere a questa UNITA', i libri di storia ci raccontano solo che il meridione era infestato dai briganti, ma lo era anche prima dell'annessione, e non parlano degli eroi meridionali che hanno immolato la vita per il Risorgimento, nè delle condizioni disumane che furono imposte dalle leggi piemontesi, nè delle ruberie perpetrate ai nostri danni e che in parte, hanno determinato l'immiserimento progressivo della polazione  e la partenza forzata di milioni di emigranti che con le loro braccia hanno contribuito in modo decisivo alla ricchezza ed al progresso del Piemonte, della Lombardia e di molti Stati aldilà dell'Atlantico.

Ci scusiamo con i nostri visitatori per le considerazioni che abbiamo esposto, ma è doveroso per tutti coloro che hanno un minimo di visibilità, mettere l'accento su quanto sangue meridionale fu versato per ottenere questa giusta e sacrosanta Unità Nazionale.

Il sindaco on. Gianluca Gallo, alla fine, ha esplicitato le sue personali congratulazioni all'organizzatore per la riuscitissima manifestazione ed ai relatori per i loro brillanti ed esaustivi interventi. Bravissimi anche i ragazzi dell'Istituto Comprensivo di Frascineto, preparati dalla prof.ssa Marilena Belmonte, che negli intermezzi hanno eseguito alcuni canti risorgimentali impreziositi da appropriati balletti.

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Mons.Vincenzo Bertolone
 

(cliccare quì per la relazione di mons. Bertolone) 

(Le foto sono state gentilmente concesse da Giuseppe Martire)

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il Prof. Leonardo Alario

 

 

150° Unità d’Italia

Per ricordare, per riflettere

L’intento di questo nostro incontro non è quello di accodarsi pedissequamente al profluvio delle iniziative in occasione del 150° dell’Unità nazionale, né di unirsi alle lagnanze dei separatisti o alle esaltazioni degli unionisti, quanto piuttosto quello di rammentare e di riflettere, appunto, riconoscendoci persone, che nel senso della patria, dell’onor di patria, dell’amor di patria, avvertono il vero strumento, con cui assicurare la libertà e la dignità dei singoli cittadini e della nazione. Diversamente nessuna educazione alla legalità e nessuna Costituzione potranno fare di noi dei cittadini consapevoli e responsabili.

   Certo, del modo, con cui si è conseguita l’Unità d’Italia, noi Meridionali abbiamo d’argomentar qualcosa, giacché da partecipi attivi ai moti di liberazione, con alto tributo di sofferenze, lacrime e sangue, ci siamo trovati occupati, sfruttati, disprezzati, privati dei nostri averi (la riserva aurea del Regno), calunniati (briganti) oltre che ammazzati.

   Anche Cassano ha avuto i suoi martiri. Primo fra tutti Luigi Praino, unico a riportar vittoria col suo manipolo nella battaglia di Campotenese, tuttavia perduta, prigioniero con Settembrini, Poerio, Spaventa, L’Occaso di Castrovillari, Placco di Civita, ucciso insieme a Domenico Lanza in un agguato. E, poi, tanti altri, fra cui non pochi preti, alcuni dei quali condannati, il 1852, dalla Gran Corte Criminale di Cosenza, a ben 25 anni di ferri da scontare nei Bagni di Procida. Di loro non si è saputo più nulla.

   Non si tratta qui, dunque, di negare i limiti dell’unificazione: l’assurda applicazione dello Statuto Albertino, la tassa sul macinato, la leva obbligatoria, la conseguente fuga dalle campagne, e la devastante emigrazione verso le Americhe, le pagine ingloriose rosse del sangue degli innocenti, i fatti terrificanti, già noti, che denuncia Pino Aprile nel suo saggio Terroni, l’arroganza plebea, piuttosto che regale, di Vittorio Emanuele, il quale avrebbe dovuto chiamarsi I, ma, in dispregio del sangue degli eroi, grazie al quale aveva ottenuto un Regno, volle continuare a chiamarsi II per far pesare sui Meridionali il tallone della conquista; né si tratta di negare i furti, gli eccidi, gli atti inauditi di crudeltà contro persone innocenti e indifese compiuti da alcuni reparti dell’esercito borbonico, stando alle testimonianze dei loro stessi comandanti come il generale catalano Borges. E non si tratta neppure di denigrare, come in coro tanti stanno da più parti facendo, il sacrificio di quei coraggiosi, i quali hanno rinunciato a famiglia e futuro, giovinezza e vita per donarci una patria, per soddisfare, alfine un’antica necessità.

   Tuttavia, ciò che è stato è stato. Siamo una nazione, dobbiamo sentirci uniti per poter avere un futuro, come ammoniva Padron ‘Ntoni, il patriarca dei Malavoglia, tenendo il pugno chiuso, per esorcizzare l’eterno mugugno, l’esiziale disutile rancore, la diffidenza fra Italiani del Sud e Italiani del Nord, anche se, spesso, sono gli stessi  Meridionali (alcuni di essi) emigrati a Nordo a schierarsi, per debolezza culturale, contro il Sud, a mimetizzarsi dietro improbabili coloriture linguistiche.

   L’unità d’Italia, del resto, è stata una necessità già avvertita da Arduino d’Ivrea (re d’Italia nel 1002) e da Federico II, e, poi, da tutti quei grandi, i quali, nel tempo, hanno fatto grande l’Italia da Dante (Ahi, serva Italia di dolore ostello) - per citare solo alcuni eminenti letterati – al pensoso Manzoni delle Odi e delle Tragedie, passando per Petrarca (Italia mia, benché il parlar sia indarno), Giusti, Parini, Foscolo (Della servitù d’Italia), Leopardi (All’Italia: O patria mia, vedo le mura e gli archi), e non dimenticando lo stesso Machiavelli (Il Principe). E, poi, Verdi con le sue opere. E i giovani generosi, i quali offrirono la vita, perché le generazioni future godessero della dignità di popolo uno, di nazione libera e sovrana (Goffredo Mameli, Angiolo Silvio Novaro, i Fratelli Cairoli morti sulla soglia della giovinezza, Giuseppe Garibaldi, che inizia a combattere a 20 anni, Mazzini, che a 16 anni è già protagonista, lo stesso Cavour, il tessitore, che, giovanissimo, promuove la politica savoiarda del tempo, morendo a 50 anni).  Se molti trovano, perciò, ancora tante difficoltà a riconoscersi in una nazione forte, nei suoi valori civili e nella sua lingua, è perché il campanile, il particolare di giucciardiniana memoria, il piccolo interesse tribale (vedi Lega) ottundono la tensione degli ideali, e spalancano i cancelli alle ideologie; i primi sublimazione, le seconde deviazione perversa delle idee.

   Rammentare significa conoscere e riconoscere ciò che veramente è stato, serbandone indelebile la memoria. Riflettere significa rendersi conto che il senso della storia non è fatto di recriminazioni, ma di lucida presa d’atto per agire nel modo più opportuno e giusto, e che degli eventi bisogna trarre il maggior numero d’insegnamenti utili a ben progettare il futuro.  Ciò che è stato è stato. E ciò che è stato non va dimenticato. Siamo una nazione da 150 anni, ormai, e, tuttavia, da poco ancora, considerati i tempi lunghi della storia. Ancora il nostro piede non si è adattato, forse, al calzare dell’Unità per potere andare lungo le giuste strade concordemente tracciate. E, tuttavia, ciò che è stato è stato. Il Risorgimento è necessario riscoprirlo e amarlo con tutte le sue pecche e con tutte le sue piaghe, con tutte le sue glorie e con tutti i suoi benefíci innegabili. Lì sono le nostre attuali radici. Altro che retorico e polveroso o, al contrario, virtuoso movimento degno di magnifiche sorti e progressive (tanto per citare Leopardi). Fu lotta aspra, drammatica, lacerante non solo contro lo straniero, o contro il tiranno locale, ma fra gli stessi patrioti. Lotta intestina, dura e non conclusa, per diversità d’intenti, su cui mai si è dialogato, e ancora non si riesce a dialogare. Pensate a Mazzini, morto in clandestinità, quando l’Italia era unita già da 11 anni, i cui ideali, fortemente e  coerentemente sostenuti, di un’Italia repubblicana si realizzarono solo 85 anni dopo l’unificazione, il 1946, dopo due guerre mondiali, che videro modificarsi i confini territoriali dello Stato, con un autoritarismo combattuto e mai, in verità, debellato.

    Se ancora oggi soffriamo certe situazioni di oppressione, certi disagi esistenziali, certe sconfitte di cittadini ancora in attesa della libertà (non del libertinaggio già ampiamente assicurato), è perché abbiamo rinunciato allo spirito, da cui sono stati animati i giovani del Risorgimento, ci siamo piegati al compromesso, perseguendo lo star meglio individuale sotto la cappa, ritenuta protettiva, del familismo e del clientelismo, non rendendoci conto che il Risorgimento, segnato dall’ideale di star meglio sí, ma tutti, dev’essere pratica permanente, che attinge a tutto ció, che hanno pensato, detto, scritto e fatto quei giovani, avversari di ogni gerontocrazia culturale e politica, per uscire indenni dal guado infido, che con difficoltà stiamo attraversando oggi, ora, mentre stiamo parlando.

   Dovrebbe esser convinzione comune, ormai, che solo il culto della libertà e della patria garantisce dignità, giustizia e, conseguentemente, progresso, non del singolo, ripeto, ma di tutti i cittadini. Il patriottismo favorisce il senso del dovere sostenuto da un forte sentimento di appartenenza a una comunità nazionale, generando rapporti di fiducia fra i cittadini. Le istituzioni pubbliche, infatti, falliscono, se non si alimentano della carità di patria, se non si tengono lontane dalle ideologie perverse, dagli interessi di parte, dalle pulsioni onnivore, dal delirio di onnipotenza. Nessun popolo può crescere nel bene assicurato dalla giustizia, nessuna democrazia può veramente funzionare senza il culto radicato e condiviso della libertà e della patria. Nessun Governo può ottemperare proficuamente al suo mandato senza la promozione e la salvaguardia degli interessi di tutti. Silvio Spaventa, lo statista abruzzese cresciuto culturalmente a Napoli, già vedeva ai suoi tempi, il pericolo che «il Governo non debba far niente, quando si tratta degli interessi di tutti; mentre è indotto a fare ogni cosa, a spese di tutti, quando si tratta degli interessi di pochi». Sembrano parole scritte stamattina. Ecco uno dei motivi, ancora, perché le celebrazioni del 150° dell’Unità d’Italia sono da molti avversate: Essi, presi a coltivare gli interessi di pochi, soprattutto personali, non conoscono l’amor di patria. Non conoscono i valori condivisi di libertà, giustizia, eguaglianza, ma ben conoscono, in compenso, i valori clandestinamente occultati all’estero. Non conoscono, insomma, la legge morale della mezza pera (Einaudi, Mario Pannunzio del Mondo, Ennio Flaiano), ma conoscono benissimo quella, amorale, della pera intera, anzi, di tutto il corbello delle pere, per non parlare delle pere anatomiche.

     Su questo, ecco, siamo chiamati a riflettere, se vogliamo trarre buon profitto dalle celebrazioni, tanto inopportunamente contrastate, del 150° dell’Unità d’Italia.

Leonardo R. Alario

 

150° Unità d’Italia

Per ricordare, per riflettere

 

   L’intento di questo nostro incontro non è quello di accodarsi pedissequamente al profluvio delle iniziative in occasione del 150° dell’Unità nazionale, né di unirsi alle lagnanze dei separatisti o alle esaltazioni degli unionisti, quanto piuttosto quello di rammentare e di riflettere, appunto, riconoscendoci persone, che nel senso della patria, dell’onor di patria, dell’amor di patria, avvertono il vero strumento, con cui assicurare la libertà e la dignità dei singoli cittadini e della nazione. Diversamente nessuna educazione alla legalità e nessuna Costituzione potranno fare di noi dei cittadini consapevoli e responsabili.

   Certo, del modo, con cui si è conseguita l’Unità d’Italia, noi Meridionali abbiamo d’argomentar qualcosa, giacché da partecipi attivi ai moti di liberazione, con alto tributo di sofferenze, lacrime e sangue, ci siamo trovati occupati, sfruttati, disprezzati, privati dei nostri averi (la riserva aurea del Regno), calunniati (briganti) oltre che ammazzati.

   Anche Cassano ha avuto i suoi martiri. Primo fra tutti Luigi Praino, unico a riportar vittoria col suo manipolo nella battaglia di Campotenese, tuttavia perduta, prigioniero con Settembrini, Poerio, Spaventa, L’Occaso di Castrovillari, Placco di Civita, ucciso insieme a Domenico Lanza in un agguato. E, poi, tanti altri, fra cui non pochi preti, alcuni dei quali condannati, il 1852, dalla Gran Corte Criminale di Cosenza, a ben 25 anni di ferri da scontare nei Bagni di Procida. Di loro non si è saputo più nulla.

   Non si tratta qui, dunque, di negare i limiti dell’unificazione: l’assurda applicazione dello Statuto Albertino, la tassa sul macinato, la leva obbligatoria, la conseguente fuga dalle campagne, e la devastante emigrazione verso le Americhe, le pagine ingloriose rosse del sangue degli innocenti, i fatti terrificanti, già noti, che denuncia Pino Aprile nel suo saggio Terroni, l’arroganza plebea, piuttosto che regale, di Vittorio Emanuele, il quale avrebbe dovuto chiamarsi I, ma, in dispregio del sangue degli eroi, grazie al quale aveva ottenuto un Regno, volle continuare a chiamarsi II per far pesare sui Meridionali il tallone della conquista; né si tratta di negare i furti, gli eccidi, gli atti inauditi di crudeltà contro persone innocenti e indifese compiuti da alcuni reparti dell’esercito borbonico, stando alle testimonianze dei loro stessi comandanti come il generale catalano Borges. E non si tratta neppure di denigrare, come in coro tanti stanno da più parti facendo, il sacrificio di quei coraggiosi, i quali hanno rinunciato a famiglia e futuro, giovinezza e vita per donarci una patria, per soddisfare, alfine un’antica necessità.

   Tuttavia, ciò che è stato è stato. Siamo una nazione, dobbiamo sentirci uniti per poter avere un futuro, come ammoniva Padron ‘Ntoni, il patriarca dei Malavoglia, tenendo il pugno chiuso, per esorcizzare l’eterno mugugno, l’esiziale disutile rancore, la diffidenza fra Italiani del Sud e Italiani del Nord, anche se, spesso, sono gli stessi  Meridionali (alcuni di essi) emigrati a Nordo a schierarsi, per debolezza culturale, contro il Sud, a mimetizzarsi dietro improbabili coloriture linguistiche.

   L’unità d’Italia, del resto, è stata una necessità già avvertita da Arduino d’Ivrea (re d’Italia nel 1002) e da Federico II, e, poi, da tutti quei grandi, i quali, nel tempo, hanno fatto grande l’Italia da Dante (Ahi, serva Italia di dolore ostello) - per citare solo alcuni eminenti letterati – al pensoso Manzoni delle Odi e delle Tragedie, passando per Petrarca (Italia mia, benché il parlar sia indarno), Giusti, Parini, Foscolo (Della servitù d’Italia), Leopardi (All’Italia: O patria mia, vedo le mura e gli archi), e non dimenticando lo stesso Machiavelli (Il Principe). E, poi, Verdi con le sue opere. E i giovani generosi, i quali offrirono la vita, perché le generazioni future godessero della dignità di popolo uno, di nazione libera e sovrana (Goffredo Mameli, Angiolo Silvio Novaro, i Fratelli Cairoli morti sulla soglia della giovinezza, Giuseppe Garibaldi, che inizia a combattere a 20 anni, Mazzini, che a 16 anni è già protagonista, lo stesso Cavour, il tessitore, che, giovanissimo, promuove la politica savoiarda del tempo, morendo a 50 anni).  Se molti trovano, perciò, ancora tante difficoltà a riconoscersi in una nazione forte, nei suoi valori civili e nella sua lingua, è perché il campanile, il particolare di giucciardiniana memoria, il piccolo interesse tribale (vedi Lega) ottundono la tensione degli ideali, e spalancano i cancelli alle ideologie; i primi sublimazione, le seconde deviazione perversa delle idee.

   Rammentare significa conoscere e riconoscere ciò che veramente è stato, serbandone indelebile la memoria. Riflettere significa rendersi conto che il senso della storia non è fatto di recriminazioni, ma di lucida presa d’atto per agire nel modo più opportuno e giusto, e che degli eventi bisogna trarre il maggior numero d’insegnamenti utili a ben progettare il futuro.  Ciò che è stato è stato. E ciò che è stato non va dimenticato. Siamo una nazione da 150 anni, ormai, e, tuttavia, da poco ancora, considerati i tempi lunghi della storia. Ancora il nostro piede non si è adattato, forse, al calzare dell’Unità per potere andare lungo le giuste strade concordemente tracciate. E, tuttavia, ciò che è stato è stato. Il Risorgimento è necessario riscoprirlo e amarlo con tutte le sue pecche e con tutte le sue piaghe, con tutte le sue glorie e con tutti i suoi benefíci innegabili. Lì sono le nostre attuali radici. Altro che retorico e polveroso o, al contrario, virtuoso movimento degno di magnifiche sorti e progressive (tanto per citare Leopardi). Fu lotta aspra, drammatica, lacerante non solo contro lo straniero, o contro il tiranno locale, ma fra gli stessi patrioti. Lotta intestina, dura e non conclusa, per diversità d’intenti, su cui mai si è dialogato, e ancora non si riesce a dialogare. Pensate a Mazzini, morto in clandestinità, quando l’Italia era unita già da 11 anni, i cui ideali, fortemente e  coerentemente sostenuti, di un’Italia repubblicana si realizzarono solo 85 anni dopo l’unificazione, il 1946, dopo due guerre mondiali, che videro modificarsi i confini territoriali dello Stato, con un autoritarismo combattuto e mai, in verità, debellato.

    Se ancora oggi soffriamo certe situazioni di oppressione, certi disagi esistenziali, certe sconfitte di cittadini ancora in attesa della libertà (non del libertinaggio già ampiamente assicurato), è perché abbiamo rinunciato allo spirito, da cui sono stati animati i giovani del Risorgimento, ci siamo piegati al compromesso, perseguendo lo star meglio individuale sotto la cappa, ritenuta protettiva, del familismo e del clientelismo, non rendendoci conto che il Risorgimento, segnato dall’ideale di star meglio sí, ma tutti, dev’essere pratica permanente, che attinge a tutto ció, che hanno pensato, detto, scritto e fatto quei giovani, avversari di ogni gerontocrazia culturale e politica, per uscire indenni dal guado infido, che con difficoltà stiamo attraversando oggi, ora, mentre stiamo parlando.

   Dovrebbe esser convinzione comune, ormai, che solo il culto della libertà e della patria garantisce dignità, giustizia e, conseguentemente, progresso, non del singolo, ripeto, ma di tutti i cittadini. Il patriottismo favorisce il senso del dovere sostenuto da un forte sentimento di appartenenza a una comunità nazionale, generando rapporti di fiducia fra i cittadini. Le istituzioni pubbliche, infatti, falliscono, se non si alimentano della carità di patria, se non si tengono lontane dalle ideologie perverse, dagli interessi di parte, dalle pulsioni onnivore, dal delirio di onnipotenza. Nessun popolo può crescere nel bene assicurato dalla giustizia, nessuna democrazia può veramente funzionare senza il culto radicato e condiviso della libertà e della patria. Nessun Governo può ottemperare proficuamente al suo mandato senza la promozione e la salvaguardia degli interessi di tutti. Silvio Spaventa, lo statista abruzzese cresciuto culturalmente a Napoli, già vedeva ai suoi tempi, il pericolo che «il Governo non debba far niente, quando si tratta degli interessi di tutti; mentre è indotto a fare ogni cosa, a spese di tutti, quando si tratta degli interessi di pochi». Sembrano parole scritte stamattina. Ecco uno dei motivi, ancora, perché le celebrazioni del 150° dell’Unità d’Italia sono da molti avversate: Essi, presi a coltivare gli interessi di pochi, soprattutto personali, non conoscono l’amor di patria. Non conoscono i valori condivisi di libertà, giustizia, eguaglianza, ma ben conoscono, in compenso, i valori clandestinamente occultati all’estero. Non conoscono, insomma, la legge morale della mezza pera (Einaudi, Mario Pannunzio del Mondo, Ennio Flaiano), ma conoscono benissimo quella, amorale, della pera intera, anzi, di tutto il corbello delle pere, per non parlare delle pere anatomiche.

     Su questo, ecco, siamo chiamati a riflettere, se vogliamo trarre buon profitto dalle celebrazioni, tanto inopportunamente contrastate, del 150° dell’Unità d’Italia.

 

                                                                                                                             Leonardo R. Alario

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