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Mediocri, il paese è vostro PDF Stampa E-mail
Scritto da D.Minerva   
mercoledì, 08 dicembre 2010 08:42
Celli
Pierluigi Celli
Un anno fa il rettore della Luiss Pier Luigi Celli fece scalpore invitando i ragazzi a emigrare. Ora torna alla carica per attaccare il familismo e l'assenza di meritocrazia a 360 gradi: dalla politica all'università, fino al mondo del lavoro.
Figlio mio, lascia questo Paese: con questo incipit, esattamente un anno fa Pier Luigi Celli dava il via a una discussione durata settimane. Scriveva, da "Repubblica", una lettera al figlio in cui accusava l'Italia di non essere un Paese per giovani: malgoverno, assistenzialismo, nepotismi, cialtroneria e totale assenza di meritocrazia nell'università come nel mondo dell'impresa sono alcuni dei mali capitali che generano un gigantesco conflitto generazionale e l'esclusione, di fatto, dei giovani di talento dalle prime fila del mondo del lavoro. Questa l'accusa dell'attuale direttore generale della Luiss, l'università di Confindustria.

Ma anche dell'uomo di potere, che è stato nelle stanze dei bottoni di Enel, Eni, Omnitel, Olivetti, e persino direttore generale della Rai: Celli le conosce e sa quali sono i meccanismi che regolano il mondo del lavoro. E la sua lettera ha generato un pandemonio: proprio tu, lo si accusò, che sei classe dirigente e pars magna del sistema sputi su quell'Italia che hai contribuito a creare. Fino a stimolare persino l'intervento del presidente Napolitano che invitò i giovani italiani a restare e far crescere il Paese.
Ma Celli non si tira indietro, e oggi, con un libro, "Generazione tradita" (Mondadori, 17 euro), porta nuovi argomenti e fa proposte. Non per rispondere ai suoi critici, dice, ma per offrire soluzioni a quei ragazzi che, come ha documentato un'inchiesta de "L'espresso" sul numero scorso, vedono tutti i limiti del nostro Paese, e smaniano per andarsene negli Usa, in Germania, in Francia, in Australia e persino in Cina, dove, sognano, si costruisce il futuro del mondo, si dà onore al merito, si pensa che la gioventù sia un valore per le imprese e non un handicap.

Direbbe ancora a suo figlio di andarsene?
"Era uno sfogo, una provocazione che è servita a porre un problema così serio che ancora se ne parla, mentre prima era un tabù. Io direi a un giovane innanzitutto di scegliere l'università sulla base della sua vocazione. Di cercare sempre di lavorare in gruppo perché se non sai farlo non c'è impresa che ti valorizzerà. E gli direi di combattere".

In questa Italia che non le piace?
"Direi a un ragazzo di fare l'università dove gli pare che alimentino meglio la sua vocazione, e seguirla fino in fondo qualunque essa sia, credendoci. Ma sempre di fare esperienze all'estero, di andare comunque a scoprire come girano le cose negli altri paesi. Certo, anche se farà le cose al meglio, resterà poi il problema di rientrare, e comunque di entrare nel mondo del lavoro. In un Paese che non sa valutare il merito e lo confonde col successo".

Il successo non è il metro di misura del merito?
"Assolutamente no. Ho gioco facile nel ricordare ai nostri lettori infinite carriere pilotate o discutibili".

Invece, cosa è il merito?
"La condizione per cui occupi una posizione avendo dimostrato di saperlo fare. Per cui i tuoi risultati sono misurabili, raggiunti senza l'intervento di terzi. E nel rispetto delle regole. Certo, un discorso sul merito poi, presuppone, un discorso sulle condizioni di partenza: oggi non diamo a tutti le stesse chance di occupare posti soddisfacenti. Non è vero che i posti sono aperti a tutti: perché tutti partono da condizioni differenti e la scuola, che dovrebbe farlo, non porta i ragazzi a combattere a armi pari. Le disuguaglianze sociali generano disuguaglianze di apprendimento e di chance. Così, si perpetuano le disuguaglianze".

Sta parlando di ingiustizia?
"Sì. Perché se si vuole parlare di accesso ai posti di rilievo in base a uno stretto principio meritocratico lo si deve fare. Ma in questo Paese, comunque, e a qualunque livello, conta di più avere santi in paradiso o far parte di una tribù che essere meritevoli. Anzi, hanno la meglio i mediocri perché non rompono. Se sei fedele e non disturbi hai più probabilità di essere accettato. Così si riempiono imprese e istituzioni di mediocri incapaci di innovare. E il Paese resta indietro".

Perché incapaci di innovare?
"Perché l'innovazione nasce dalla disubbidienza, dalla creatività. Nasce dal non rispettare le regole. Se non sei libero, non innovi. E se sei un mediocre, un codino, non sei libero. Ma troverai lavoro più facilmente".

L'università forma giovani innovatori o codini?
"L'università non forma. Si occupa dei professori, non degli studenti. E i professori si occupano di se stessi".

Vuole alimentare nuove polemiche?
"Si arrabbieranno tutti, ma cosa volete che abbia da perderci. Ci hanno provato già dopo la lettera dell'anno scorso a farmi licenziare. Ma sono ancora qui: ho avuto due cancri, cosa vuole che mi spaventi? Va detto chiaramente, sennò non si arriva da nessuna parte: bisogna, almeno in parte, sottrarre ai professori l'università che, non bisogna dimenticarlo, ha il compito di preparare i giovani per la società. Invece, ogni discussione e ogni riforma ha al centro i professori, ed è ossessionata dalla necessità di tutelare l'accademia, i suoi privilegi, i suoi poteri, e i suoi interessi, che sono, nel migliore dei casi, legati alla ricerca e alla produzione scientifica. E degli studenti non importa niente ai nessuno. Oggi, quando va bene, l'università istruisce. Ma non forma. I professori trasmettono conoscenze, non sono più dei maestri di vita".

Proposte?
"Togliere la governance totale dell'università all'accademia. E aprirla alle imprese, alle istituzioni, alla società civile. Nessuna riforma lo ha fatto".

Perché?
"Per tutelare la "cultura". Per il timore che l'ingresso della società civile nella governance degli atenei ne compromettesse la vocazione al libero pensiero e alla ricerca. Che vanno tutelate, è ovvio. Perché sono settore strategico per lo sviluppo del Paese. E senza ricerca non c'è buona didattica. Ma la governance degli atenei deve aprirsi ad altri attori. Il mondo del lavoro deve entrare nei campus perché si possano immaginare progetti concreti di avviamento".

L'università ha pensato di poter supplire a questa funzione.
"Ma non è così. I tempi sono duri e i mondi del lavoro cambiano rapidissimamente. Per preparare i ragazzi serve gente che ci stia dentro. Non accademici che li abbiano osservati dal di fuori. Bisogna far lavorare i ragazzi con questi nuovi attori. La Luiss ha diverse iniziative di questo tipo. Abbiamo laboratori d'impresa che vedono i ragazzi lavorare con imprenditori, amministratori, banchieri. Con la Bocconi, ad esempio, abbiamo avviato, su richiesta del nuovo governatore della Calabria, un progetto di educazione mirata per laureati della regione sparsi per l'Italia da avviare a posti di lavoro nella sanità e nel pubblico impiego. Io non so come andranno queste iniziative, ma bisogna cominciare a immaginarsele. E devono farlo le università. Che devono diventare anche incubatori di impresa, perché sono i giovani laureati che devono diventare il motore dell'economia e riprendere il gusto di fare impresa, come accade negli Stati Uniti o negli altri paesi che producono innovazione a tutti i livelli".

Da un lato disegna un Paese che privilegia la mediocrità, dall'altro chiede agli atenei di formare giovani competenti e innovatori. Che poi il mondo del lavoro rifiuterà?
"Io sono ottimista. Perché dopo aver toccato il fondo non si può che risalire. E l'Italia il fondo lo ha toccato: o risaliamo o cominciamo a scavare".

Minerva
Daniela Minerva
Intervista  di Daniela Minerva

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