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A zonzo nel tempo che fu PDF Stampa E-mail
Scritto da administrator   
lunedì, 27 settembre 2010 16:18

ImageUscito per la prima volta nel 2002, cui era seguita una ristampa, riappare ora nelle librerie, il volume “A zonzo nel tempo che fu” (Ed. Eva, Venafro 20103, pp. 94 € 14,00) dello scrittore molisano Amerigo Iannacone. Il libro, che si avvale della prefazione di Adriano Petta, il noto autore di “Ipazia”, già alla sua prima uscita era stato accolto con successo, aveva ricevuto recensioni positive ed era stato adottato in diverse scuole come testo di lettura. Ricompare ora in un’edizione ampliata e con la postfazione di Tommaso Scappaticci, dell’Università di Cassino. Iannacone è uno degli scrittori molisani piú noti e piú eclettici; al suo nome sono legati piú di una trentina di titoli, che spaziano in vari campi, dalla narrativa alla critica letteraria, dalla poesia alla saggistica, alla traduzione. Con questo libro, con la sua scrittura facile e con il suo stile fine ed elegante, l’autore ci riporta agli anni cinquanta/sessanta del secolo scorso, in una serie ricordi/racconti, che conoscono varie corde, ora sono venati di un garbato umorismo, ora sono intensi ed emozionanti, ora ironici o autoironici. Riportiamo, qui seguito, la postfazione di Scappaticci.

 

Memoria individuale e collettiva
nella narrativa di Amerigo Iannacone

Molteplici, e non sempre facilmente individuabili, appaiono le motivazioni sottese alla stesura di opere autobiografiche: la tendenza a raccontarsi può rinviare al temperamento introspettivo o estroverso dell’autore, alla rilevanza o alla emblematica mediocrità delle sue esperienze, alla convinzione di assolvere una funzione educativa o al desiderio laico di una sopravvivenza dopo la morte. Per limitarci a qualche esempio offerto dalla letteratura del ’900, si è passati dalla proposta decadente di una aristocrazia spirituale, contrapposta alla normalità borghese, allo scandaglio interiore finalizzato a ritrovare nell’individuo i segni della crisi di valori e parametri conoscitivi ormai insoddisfacenti, dall’impegno testimoniale della documentazione neorealistica “in presa diretta” al memorialismo critico di chi cerca di cogliere nel passato il senso della propria esistenza o di resistere alla irrazionalità di un mondo privo di certezze. Negli ultimi decenni, poi, in conseguenza del mutamento antropologico determinato dall’affermarsi di una società consumistica e telematica, si è accentuata la tendenza a un memorialismo proteso a coniugare la dimensione individuale con la testimonianza di costumi e modelli di vita ormai ridotti quasi al livello di reperti archeologici o di curiosità folcloristiche.
È, quest’ultima, la prospettiva in cui si collocano le memorie di Amerigo Iannacone impostate secondo un criterio narrativo che mira a una costante contaminazione di vicende personali e di condizioni storico-ambientali. Al centro del racconto vi è l’io dell’autore, che, però, per quanto parli in prima persona e svolga una funzione essenziale di raccordo fra le varie scene, non assume un ruolo dominante e non costituisce il vero punto di riferimento delle vicende. Quello di Iannacone è, per cosí dire, un io collettivo, che non si distingue dal contesto paesano in cui è proiettato e che rimanda a esperienze individuali sono in quanto emblematiche della vita e dei costumi di un’intera comunità, colta in un periodo storicamente ben determinato. E gli altri personaggi, a cominciare dai familiari, servono non a far risaltare la figura del narratore, ma ad aggiungere necessari tasselli alla dimensione corale del racconto, a evidenziare aspetti di quella vita comunitaria in cui lo stesso narratore trova i lineamenti della sua vicenda personale e le ragioni della sua scrittura.
In questo modo lo schema memoriale tende ad assumere i caratteri del saggio antropologico, e la ricerca dell’identità personale si identifica con l’impegno alla ricostruzione di un microcosmo umano che solo nella pagina scritta sembra poter trovare una alternativa alla scomparsa o alla fragile sopravvivenza garantita dal ricordo. Alla base del libro vi è l’intento programmatico di riaffermare l’esigenza della memoria storica e della difesa di specificità ambientali destinate a essere travolte dal tempo e dalla tendenza omologante della società moderna. Non si tratta solo di preservare vecchie consuetudini e di lasciarne testimonianza a generazioni estranee a quelle esperienze e abituate a ben diversi sistemi di vita: esplicitamente dichiarato nell’ultimo capitolo, le pagine sono percorse dal sottinteso invito a difendere l’identità culturale, a conservare un patrimonio di tradizioni ed esperienze destinato a connotare e quasi a legittimare il diritto all’esistenza di una comunità che voglia affiancare la consapevolezza della sua attuale fisionomia a quella della proprie radici. Ma si ha anche l’impressione che, in Iannacone, sull’intento programmatico prevalga il gusto del racconto, il piacere di abbandonarsi al ricorso di vicende personali e collettive, con la conseguente risoluzione dell’impegno polemico in fatti e personaggi capaci di rendere gradevole e coinvolgente la lettura.
Sono vicende lontane solo mezzo secolo, che vanno dalla fine degli anni quaranta al primo delinearsi del cosiddetto boom economico. Ma, nonostante la relativa vicinanza temporale, sembrano proiettate in una dimensione di lontananza remota e quasi favolosa, tanti sono i cambiamenti determinati dall’accelerazione della storia e del progresso anche in ambienti provinciali e periferici. Si colga il sapore quasi fiabesco che, intriso di partecipazione affettiva, segna l’esordio del racconto e ne preannuncia l’atmosfera di riscoperta di luoghi e tempi lontani: «Esiste a questo mondo – e non siamo in molti a saperlo – un paese, un villaggio di provincia, di nome Ceppagna. Un mucchio di case, un groviglio di vicoli, alcune centinaia di anime, una collina brulla, una modesta estensione di campi aridi, trasmessi di generazione in generazione e sempre piú spezzettati e sempre piú aridi». Quella rievocata dall’autore è «un’epoca che non esiste piú», scomparsa insieme con il tramonto della civiltà contadina, e Ceppagna, pur conservando la propria fisionomia, diventa l’immagine esemplare delle condizioni di una intera regione e «forse di tutta l’Italia centro-meridionale», come era negli anni successivi alla guerra mondiale. E il racconto procede secondo un criterio per cosí dire ondulatorio, fondato sulla continua alternanza di prospettive ampie e ristrette, con l’attenzione che si concentra sulla famiglia dell’autore e, nello stesso tempo, rimanda al piccolo mondo del paese e alla realtà, piú ampia ma non difforme, dell’intero Molise.
Per quanto pervasa dalla tensione emotiva conseguente ai ricordi dell’infanzia e al legame con la propria terra, la rievocazione non si abbandona ai toni patetici del rimpianto del tempo che fu o del lamento per le difficoltà della vita di allora. Se non è del tutto assente, è certo costantemente controllata la disposizione sentimentale dell’uomo che trasfigura i tempi e i luoghi della sua fanciullezza, come per cercarvi un improbabile confronto alle delusioni del presente. Ceppagna non è presentata nella dimensione idillica (e deformante) del luogo custode di virtú e solidarietà ormai tramontate, scenario di esperienze vissute su uno sfondo di armonie naturali e di semplici consuetudini.
Sintagmi della negatività scandiscono le pagine, a volte evidenziati dalla collocazione all’inizio del capitoli («Non c’era la televisione né i videoregistratori», «Non c’erano libri, in casa», «Ceppagna non ha avuto alcun peso nella storia dell’Universo, non ha influito sul cammino della civiltà, non ha dato i natali a uomini illustri...»). Ma, invece di sollecitare al compianto, il loro inserimento serve a ricreare una specifica realtà ambientale e, anzi, spesso si risolve nella proposta di una positività ritrovata anche fra tante privazioni. In precario equilibrio fra espansione affettiva e distacco testimoniale, il racconto mira a evitare gli opposti estremismi della mitizzazione del passato e della elegia dell’infanzia povera e infelice. Da un lato si colgono anche i risvolti negativi di una vita paesana contrassegnata da invidie, opportunismi, imbrogli, superstizioni, senza escludere nemmeno casi di crudeltà infantile, come quello dei ragazzi che ammazzano un gatto e se lo mangiano «a spezzatino». Dall’altro è sottolineata la «normalità» della mancanza di comodità e diversivi che, allora, prima della diffusione del consumismo, non potevano neppure essere concepite. A Ceppagna era normale non avere acqua in casa, e i ragazzi, in assenza di termini di confronto diversi dalla loro realtà abituale, si divertivano con i giochi per strada, non avvertivano lo squallore delle aule scolastiche, non sognavano modelli di vita introiettati da inesistenti mezzi di informazione («Ci sembrava normale che fosse cosí. Ci paragonavamo agli altri che incontravamo per strada, che erano sempre gli stessi, e non ai personaggi della televisione, che a Ceppagna arrivò molto tardi»).
A volte si coglie l’intento attualizzante di valutare sul metro del presente, cui si affianca il proposito di rivolgere alle nuove generazioni un invito alla riflessione e al confronto. Ma a prevalere è la prospettiva storicizzante, l’impegno a ricostruire la vita di allora con gli occhi e la mentalità dei ragazzo, anche se la dimensione memoriale tende naturalmente a trasformarsi in tensione conoscitiva, nel tentativo di finalizzare la riscoperta delle esperienze passate a una migliore conoscenza del presente. Di qui scaturiscono i brani riflessivi sull’ambiguità del progresso, sull’omogeneizzazione di gusti e linguaggi, sul dialetto locale (un dialetto «asciutto, rude, con poche vocali e molte consonanti», che significativamente ignora la parola “amore” e sostituisce “lavoro” con “fatica”). Non si tratta di antistorici vagheggiamenti di ritorno al passato, ma di inviti a una consapevolezza critica che, cogliendo anche i limiti della modernità, tenga al riparo da conformismi e facili mitizzazioni.
Con un tono insieme lucido e cordiale, Iannacone ripercorre momenti della sua infanzia e della vita di Ceppagna, villaggio di pastori e di emigranti, in cui l’economia domestica offriva rare opportunità di contatto con la città e le condizioni ambientali rendevano problematica la carriera scolastica dei ragazzi («Dei numerosi miei compagni delle elementari, nessuno è arrivato alla laurea, uno solo, credo, al diploma, pochissimi alla terza media. E comunque buona parte di essi ci arrivò in parecchi anni»). Un mondo in cui non esistevano o non erano avvertire le distinzioni sociali, tanto da attribuire il titolo onorifico di “don” a noleggiatori che solo di poco si sollevavano sullo stato di disagio collettivo, e in cui il primo delinearsi di un normativismo linguistico era contrassegnato dall’imposizione ai piccoli studenti di sostituire il tradizionale “tata” con un’espressione, “papà”, priva di risonanze storiche affettive. Sono stampe di tempi ormai remoti, spesso punteggiate di figure pittoresche che contribuiscono a ricreare mentalità e consuetudini e, quindi, evitano di cadere nella convenzione aneddotica di un macchiettismo provinciale (dai «baffi a manubrio» del nonno materno all’antimodernismo di chi si rifiuta di accettare l’ora legale o al beone che, in mancanza di vino, si adatta all’aceto).
Non una rievocazione sistematica e ordinata secondo un rigoroso criterio cronologico, ma, come è sottolineato anche nel titolo, un procedere erratico fra figure ed episodi che coniugano impegno documentario e valore emblematico. E la scrittura è limpida, lineare, con una essenzialità che rifugge tanto dalle ricercatezze letterarie e dalle complicazioni sperimentali come dagli esiti enfatici o patetici: una prosa funzionale alla pacata tensione dei ricordi e insaporita dallo studiato contemperamento di partecipazione affettiva e di risvolti ironici. È un modo per prendere le distanze dalla materia e neutralizzare eventuali derive sentimentalistiche, ma si tratta comunque di una ironia bonaria, sorridente, cordiale, che ignora le soluzioni sarcastiche e aggressive per risolversi in un’altra forma di compartecipazione alla vita di paese (il contenuto dei vasi da notte «sventagliati» dalle finestre e destinati a procurare «una doccia tiepida a qualche passante mattiniero»). Qualche termine dialettale è riportato per ricordare oggetti ormai disusati o per indicare sentimenti privi di corrispondenti espressioni in lingua, nella prospettiva di una realtà ambientale che trovava riscontro in uno specifico patrimonio espressivo. Ma in queste aperture idiomatiche si coglie anche la fisionomia dell’intellettuale da tempo impegnato nella difesa dell’esperanto e convinto della funzionalità di tale soluzione anche alla sopravvivenza di lingue e dialetti altrimenti destinati a morire.
Iannacone
Amerigo Jannacone
A zonzo nel tempo che fu è un testo composito, che al tessuto memoriale affianca liriche, brani narrativi, articoli giornalistici, pagine di opere già pubblicate o ancora inedite, con una varietà di formalizzazioni attente piú a garantire la coerenza tematica che a sfumare i passaggi. Sembra che Iannacone abbia avvertito l’esigenza di sfruttare i diversi settori del suo impegno intellettuale, per offrire un quadro convincente del microcosmo paesano. Se le poesie servono a condensare in immagini reazioni emotive e modelli esistenziali, i brani riflessivi commentano e problematizzano spunti offerti dalla rievocazione di figure ed episodi del passato, cogliendone anche il valore emblematico o collegandoli al mondo attuale. E i racconti acquistano anch’essi una valenza documentaria, in quanto si propongono non come aneddoti coloriti o occasioni di svagato intrattenimento, ma come ulteriori tasselli di una condizione di vita, ricostruita attraverso esperienze di emigrazione (Le noci e la mela, L’urlo) o casi di superstizione ambiguamente oscillanti fra l’imbroglio e la possibilità di effettivi conforti (Il mago).
Tommaso Scappaticci
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