Giuseppe Fava La settimana che si chiude ha consegnato alle cronache anniversari importanti, segno del passaggio sulla terra di figure la cui eredità morale e spirituale è ancor oggi viva. Il 5 gennaio, in particolare, è stato il giorno crocevia di diversi eventi significativi: dal cinquantenario della morte di Enrico De Nicola, primo presidente della Repubblica, a quello della scomparsa del romanziere francese Albert Camus. Nomi illustri del Novecento, al cui fianco le mie radici siciliane mi spingono a collocare l’icona d’un altro siciliano, Giuseppe Fava.
Pippo Fava, così lo chi lo conosceva bene, era nato a Palazzolo Acreide nel 1925, e durante la sua vita aveva collaborato con varie testate giornalistiche, regionali e nazionali. Drammaturgo, sceneggiatore e saggista, era un grande artista, uno di quelli capaci di comunicare modellando la parola con arte ed onestà intellettuale. Venne ammazzato dalla mafia nel 1984, proprio il 5 gennaio, diventando il secondo intellettuale ad essere ucciso dalle cosche: sei anni prima di lui era toccato a Peppino Impastato, che in un altro 5 gennaio, quello del 1948, era venuto alla luce. Il Fava giornalista, licenziato dai suoi editori perché troppo e troppo apertamente schierato contro la Piovra ma sempre pronto a ricominciare e mai ad arrendersi, divenne in breve il punto di riferimento di quanti erano convinti che soprattutto attraverso la libertà del pensiero passasse la riscossa della Sicilia e del Meridione. Scriveva: «Io ho un concetto etico del giornalismo. Un giornalismo fatto di verità impedisce molte corruzioni, frena la violenza della criminalità, accelera le opere pubbliche indispensabili, pretende il funzionamento dei servizi sociali, tiene continuamente allerta le forze dell’ordine, sollecita la costante attenzione della giustizia, impone ai politici il buon governo». E ancora: «A che serve essere vivo, se non si ha il coraggio di lottare?» Oppure: «Qualche volta mi devi spiegare chi ce lo fa fare. Tanto, lo sai come finisce una volta o l’altra: mezzo milione a un ragazzotto qualunque, e quello ti aspetta sotto casa». E così finì per lui, assassinato da sicari pagati dai capibastone della sua amata città, Catania. Ventisei anni dopo, ci si chiede, a volte quasi per mero esercizio retorico, se la mafia possa considerarsi sconfitta, o se ancora pulsi agitando in ogni direzione i suoi tentacoli letali. Di certo v’è solo che spiriti liberi come Giuseppe Fava e Peppino Impastato, al pari di don Pino Puglisi, Piersanti Mattarella e tanti altri, hanno contribuito in modo determinante alla formazione d’un sentimento civile di giustizia e di legalità, purtroppo non ancora patrimonio universale, facendo della parola di libertà l’urlo che alla velocità del suono si scontrò con i vetri blindati delle indifferenze e delle collusioni, fino a frantumarli ed a lasciare alle nuove generazioni un impegno tradottosi in scelta di vita, in tensione morale, in un motivo in più per inseguire la speranza. E se la Sicilia pian piano sta voltando pagina, e nessuno può più fingere che la mafia non esista, lo si deve anche all’esempio di persone come Pippo, alla loro fantasia, al loro dolore, alla loro allegra disobbedienza. + Vincenzo Bertolone - Gazzetta del Sud - 10 Gennaio |